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10 dicembre 2014

Estanislao Pryiemski – Un polacco in Mato Grosso


Pre-war Warsaw

La storia di Pryiemski, viaggiatore, naturalista, esploratore, ma soprattutto personalità eccentrica, si può leggere in uno di quei libri che fino a qualche anno fa – nel caso di cui si parla la pubblicazione risale agli anni Novanta – ingrossavano collane tirate su in fretta, dove una bella foto di copertina cercava di farsi perdonare la mancanza di pregi letterari. Adesso non è raro incontrarne ciò che resta sui banchi di mercatini itineranti o tra le scaffalature di botteghe dell’usato, ed è in un posto così che mi è venuta tra le mani l’avventura di quest’uomo insolito, spirito essenzialmente solitario, posseduto fin da giovanissimo dal desiderio di uscire dal vecchio continente per vivere più vicino alla natura, in luoghi non ancora aggrediti dalla legge del profitto.
Questo ambiente lo ha trovato in Mato Grosso, raggiunto nel 1924 quando si decise a lasciare la Polonia. Aveva allora trentadue anni e non senza incappare nella disapprovazione dei genitori voltò le spalle a un futuro di amministratore delle proprie terre. C’è da chiedersi però se la scelta di Pryiemski, alla luce dei rovesci che coinvolsero la Polonia nel ventennio successivo, non si sia rivelata in qualche misura opportuna. È probabile che con l’invasione dei nazisti difficilmente avrebbe preservato intatti i suoi beni e una posizione di relativa agiatezza. Ad ogni modo non è dato sapere nulla sulle sorti dei suoi familiari, sulla vita che costoro seguitarono a fare a Varsavia, luogo delle loro origini, e nell’antica fattoria dove Estanislao trascorse le vacanze estive fin dall’infanzia. Il libro ho voluto leggerlo per questa strana commistione di eventi in cui un polacco di Varsavia, ancora giovane e con un avvenire assicurato dai suoi possedimenti, abbandona tutto per andare dall’altra parte del mondo, in un territorio quasi impenetrabile, il Pantanal, tagliato fuori dalle normali vie d’accesso e di comunicazione con cui siamo abituati a figurarci lo spazio del vivere. Dico la verità, speravo di reperire più notizie biografiche, soprattutto che fosse chiarito quel salto interiore all’apparenza assurdo e privo di coerenza che dal cuore dell’Europa ha fatto abbracciare all’autore un’esistenza precaria e molto grama sul piano delle risorse.
Tranne alcuni incarichi ufficiali, e comunque saltuari, presso il Museo Nazionale di Rio de Janeiro, infatti, Pryiemski ha vissuto alla giornata, praticando i suoi studi in proprio, oggi si direbbe da freelance, accanto ad attività di puro sostentamento, quali la caccia e la pesca, passando lunghi periodi insieme agli ultimi indios guatos che gli hanno sempre riservato un’ospitalità generosa.  
Di Pryiemski non esistono praticamente immagini, tranne un ritratto in seppia, riprodotto in quarta di copertina, accanto a un ema, lo struzzo dell’Amazzonia. È una foto nella quale appare ancora piuttosto giovane, certamente lontana dall’incontro con Gino Ballabio, l’italiano che andò a raggiungerlo a Campo Grande nella primavera del 1981. A più di duemila chilometri da Rio de Janeiro e dodici ore di treno surreale in mezzo al cosiddetto Mar do Xaraes, uno dei tanti nomi dati nel tempo al Pantanal, Ballabio si trovò davanti un ottantanovenne provato dalle febbri, sebbene ancora lucido e pieno di entusiasmo per i suoi progetti. Voleva continuare a scrivere, classificare animali e piante, salvare le voci della foresta. Questo anzi era stato da sempre uno degli obiettivi principali delle sue escursioni. Dalla Polonia aveva portato con sé un armamentario di imbuti cattura-suoni, registratori a piste, magnetofoni, apparecchi che ne solleticarono l’interesse a partire dai primi viaggi attraverso il continente europeo, quando era studente di agronomia applicata a Bruxelles. Anche di tale periodo si sa poco o nulla, non trovandosene traccia in annotazioni diaristiche o d’altro tipo, né Pryiemski vi indugia nel suo libro che potremmo definire di congedo, essendo il frutto di una testimonianza suscitata dall’incontro con Ballabio, nell’ultimissimo scorcio della propria avventura. Si può arguire che simili attrezzi e il progetto di catturare la voce della foresta, fossero il retaggio del suo personale confronto con le avanguardie europee del primo Novecento dove, tra le altre cose, si dette libero sfogo ai più vari e bizzarri esperimenti musicali. 
Immaginarlo in canoa, mentre scivola su fiumi in piena, in cerca di posizioni d’ascolto favorevoli, pare ben strano. E tuttavia, in questo conciso resoconto, la sua devozione per le voci della natura emerge con estremo vigore. È anzi il tratto distintivo di un carattere pervaso dall’attaccamento a un posto fragilissimo, i cui equilibri sono inesorabilmente minacciati. Proprio le notti divengono i momenti più vicini a quella rivelazione che Pryiemski sembra aver cercato nel corso della vita. Il Pantanal si fa allora centro di una solitudine sterminata ma anche di assoluta perfezione. Ornitologo colto e appassionato, le pagine più commosse le riserva all’osservazione e al canto degli uccelli amazzonici. Questi passi contengono perfino lampi di poesia. 
Restiamo dunque affascinati e confusi dal volo di gruppo della grande cicogna jaburè, dalle lunghe file di cormorani che sorvolano gli acquitrini, dagli stormi di anù che nelle prime ore dei pomeriggi assolati si cimentano in fragorosi concerti, dalla spietatezza dell’urubu nero, l’avvoltoio che si scaglia sulla vittima per finirla, dalla voce presaga della gallinella dei pantani, la saracura, che col suo nome di vaghe assonanze giapponesi si mette a cantare poco prima che inizi a piovere; e poi ancora l’anhuma, la chimera notturna il cui verso rimbalza lontano nell’oscurità, i neri cormorani appollaiati sugli alberi sbiancati dal guano, i biguasciri, di nuovo una parola che sa d’oriente, con cui i brasiliani si riferiscono a questi singolari posatoi d’uccelli. Scene di un aldilà orfico.
Ma vi è un ricordo che più di altri scopre i contorni dell’inconsueta sensibilità dell’autore. Un giorno, nella capanna di una famiglia india, due anatre si levano all’improvviso dal fiume e la bambina in braccio alla madre, tendendo le mani verso gli animali, dice in un soffio: «Mamma due anatre». Su uomini e cose scende l’armonia di chi ha appena afferrato un segreto. Pryiemski registra l’episodio come unico e irripetibile, l’attimo di una verità sciamanica. 
Sul rapporto con gli indios si sofferma non poco. Uomini disperatamente aggrappati a uno stile di vita messo in discussione, sopravvissuti ma non per molto ancora, ripete con sconforto quel bizzarro amico straniero, che ha deciso di condividere con loro cibo e sorte. Suo amico fraterno, l’indio Toenaro, è stato per lui una guida fedele, spalla, scorta, complice, maestro.
Non mancano infine delle sagge stilettate contro l’espansione demografica. Un problema di cui gli occidentali parlano con sconvolgente ipocrisia. Anzi, a essere precisi non ne parlano. È questo infatti un argomento tabù, perché l’essere umano nelle società considerate progredite è prima di tutto un consumatore, quindi serve virtualmente a mantenere elevata la domanda di beni – ma nel mondo globale nessuno è fuori dal meccanismo. Non ci viene mai in mente che le risorse di cui disponiamo sono limitate, e la terra non può reggere un aumento di popolazione più che esponenziale. Il vero attaccamento alla vita lo si dimostra con meno falsità su questi argomenti. Se la vita la vogliamo preservare davvero, insieme all’ambiente che la ospita – e non si tratta di due cose separate, come troppo spesso si lascia intendere – bisogna imparare a parlarne in maniera un po’ più svincolata da certi dogmi. Di quale benedizione dovrebbe trattarsi, se un bambino si affaccia in un mondo sfruttato, depredato, sovvertito, annientato?
Pryiemski ha il coraggio di porre queste domande a viso aperto e con estrema semplicità. Un punto di vista che in genere si riscontra in coloro che hanno sperimentato cosa significa vivere in natura, faticare per procurarsi il necessario, sapere che si può contare sulle proprie forze e poco altro. Una lezione che noi, inguaribili geocentrici veterocontinentali, abbiamo completamente smarrito.

(Di Claudia Ciardi)  


Estanislao Pryiemski
Le voci del Pantanal
A cura d Gino Ballabio
Piemme, 1998



12 marzo 2014

La grande illusione




Un film di Jean Renoir. Con Jean Gabin, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim, Dita Parlo, Marcel Dalio
Titolo originale: La grande illusion 
Genere: drammatico
Durata: 113'
Francia, 1937

«Da una parte ragazzi che giocano a fare i soldati, dall’altra soldati che giocano come ragazzi». Affacciati a una finestra che guarda sul cortile delle esercitazioni in un campo di prigionia in Germania, le voci dei soldati francesi s’insinuano a fatica nel rumore assordante della marcia delle giovani reclute tedesche. Jean Renoir rappresenta la prima guerra mondiale ma nulla o quasi di quel che accade in prima linea entra nel racconto. La sua è una guerra che si fa strada attraverso i bollettini affissi alle pareti del campo o si lascia interpretare nei gesti e nelle espressioni dei sorveglianti, la cui quotidianità scorre en face con quella dei prigionieri. Guerra di logoramento, dunque, non solo per chi è immerso nel fango delle trincee, ma anche per coloro che da troppo tempo se ne stanno rinchiusi, lontani dalla casa e dagli affetti. Nel frattempo si attinge a ogni risorsa per provare a evadere. Più che altro con la mente. Per una ragione o per l’altra qualsiasi tentativo di fuga infatti non tarda a rivelarsi inutile, e i prigionieri finiscono sempre per ritrovarsi attorno a un tavolo con la loro impotenza e tutta la stanchezza che il protrarsi degli eventi comporta. In questo perenne, a tratti perfino comico, inseguimento di ruoli degno del più riuscito "guardie e ladri", è racchiuso il fortissimo desiderio di normalità provato da tutti i protagonisti. Ogni trasgressione del regolamento apre delle crepe in cui affiora con prepotenza la voglia di tornare a essere uomini. La ribellione è principalmente nei confronti di ciò che tiene distanti gli uomini l’uno dall’altro. Di scene da incorniciare ve ne sono molte, e l’interpretazione di Jean Gabin (Maréchal), un gigante nel ruolo del pilota ferito che le prova tutte finché, insieme a un compagno, non gli riesce di scappare dalla fortezza in cui lo hanno confinato, è un contributo rilevante al capolavoro. L’aspetto ludico attraversa per intero il film, culminando nel concerto di flauti e pentole, orchestrato da un maestro d’eccezione, il capitano De Boëldieu, che vuole dare al suo buon Maréchal un’ultima possibilità per chiuderla una volta per tutte con la prigionia. La danza tra i costoni del perimetro del castello, nella quale De Boëldieu si esibisce, suonando il flauto davanti ai suoi carcerieri, è la metafora della fine di un mondo. Quando il direttore della fortezza, che con il capitano ha un rapporto di profondo rispetto, perché a lui lo accomuna l’appartenenza a quell’aristocrazia ormai avviata al tramonto, si vede costretto a sparargli, il colpo che esce dalla sua pistola è come se uccidesse anche lui. 
Prima di cadere esanime, De Boëldieu guarda un istante l’orologio: certezza che la fuga è riuscita, volontà di stabilire l’attimo della propria fine. Il corpo che si accascia nel buio è l’istante in cui la realtà, la tragedia che si consuma fuori, entra nel forzato isolamento dei soldati. Quella pallottola che squarcia la notte ricorda che nulla è accaduto per gioco.   
La grande illusione è un film sulla pace. Il titolo non sorprende: quanto a illusioni la prima guerra mondiale ne ha seppellite parecchie. Il conflitto secondo Renoir ha un volto grottesco, gli uomini sono principalmente prigionieri di se stessi, delle tante aberrazioni grandi e piccole che il tempo così sospeso, estromesso dal vivere di tutti i giorni, comporta. Con una scelta narrativa volutamente arretrata rispetto ai campi di battaglia, il regista illumina da una prospettiva fino a allora inedita l’amara ribalta della Grande Guerra. Va in parallelo, viene da dire in perfetta sintonia col messaggio dell’opera, la storia travagliata della sua conservazione. Premiato alla Mostra di Venezia del ’37, il film lascia freddi Hitler e Mussolini. Quest’ultimo pensa bene di vietarne la diffusione in Italia: ci vorranno dieci anni perché la censura fascista decada. Intanto i primi venti di guerra prendono forza sul continente. Con l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi (giugno del ’40), le bobine scompaiono dal laboratorio parigino che le custodiva per riapparire a Berlino. Niente di preciso si sa riguardo questa operazione: l’unico dato certo è che non deve essere stata semplice, perché parliamo di almeno quaranta casse di materiali. Ma l’odissea di Renoir non è affatto conclusa. Entrati a Berlino i sovietici si impadroniscono delle casse che migrano a Mosca. Non se ne saprà più nulla fino alla metà degli anni Sessanta, quando il ritorno del film in Francia viene barattato per un episodio di James Bond. Restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2011, ne è finalmente riemerso in tutto il suo splendore narrativo. Quando è stato girato, è chiaro che nessuno poteva immaginare un destino così difficile e tanto profondamente legato alle lacerazioni continentali. Di fatto a ovest come a est l’impegno di Renoir contro la guerra sembra aver incantato anche coloro che, prigionieri dell’ideologia dei due blocchi, non se la sono sentita di distruggerlo.

(Di Claudia Ciardi)




In questo blog:

«L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta».

«Un libro passato forse senza troppo clamore nelle librerie italiane ma su cui vale la pena riaccendere l'attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l'autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».

«Cinque frammenti che ci consegnano uno spaccato di vita di un grande interprete della Mitteleuropa. Un flâneur che con passo lucido e originale ha esplorato ambienti e ossessioni della propria epoca, a partire da una deflagrazione drammatica occorsa lungo il suo cammino: l’esperienza del primo conflitto mondiale».

Naufragio di guerra #0:
«Le aspettative legate all’ingresso in guerra dell’Italia furono spazzate via dall’alto tributo di sangue versato dalla nazione (5.200.000 gli italiani arruolati, di cui 650.000 i caduti). Le dodici battaglie sull’Isonzo (qui, sui due fronti, si contarono 250.000 morti e 100.000 dispersi, cioè tre volte Hiroshima) non passarono senza conseguenze, gettando discredito sul comando e le alte cariche dell’esercito. Ne scaturirono inchieste e strascichi polemici che si protrassero fino al ’25, l’anno della vergognosa ‘riabilitazione’, quando Mussolini nominò Cadorna maresciallo d’Italia».



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