23 settembre 2012

There is a garden in the memory.....


There is a garden in the memory.....

Eraclito

Heraclitus, Fragment 44:
Diogène Laërce, Vies des philosophes, IX, 2

_ _ μάχεσθαι χρὴ τὸν δῆμον ὑπὲρ τοῦ
νόμου ὅκωσπερ τείχεος.

[44. Le peuple doit combattre pour la loi
comme pour ses murailles.]
[The people must fight for its law as for its walls.]


Yasunari Kawabata
Il suono della montagna – Der Klang des Berges

«Non era ancora il cielo di agosto, ma gli insetti cantavano già. Si udiva il suono della rugiada che, a goccia a goccia, cadeva da una foglia sull’altra. Poi, all’improvviso, Shingo udì il suono della montagna.
Non tirava vento. La luna era chiara, quasi piena, ma l’aria della notte era umida. I contorni degli alberi che ornavano la collina erano vaghi. I rami, tuttavia, erano fermi. Anche le foglie delle felci sotto la veranda dove si trovava Shingo erano ferme.
La casa si trovava in fondo a una terra stretta che a Kamakura chiamavano comunemente yato, la valle. Certe notti si udiva il suono delle onde. All’inizio, perciò, Shingo aveva pensato che si trattasse del suono del mare. Era chiaramente il suono della montagna, invece.
Somigliava al suono del vento lontano, ma aveva una forza profonda come se si trattasse dei rimbombi della terra. Pareva quasi che qualcosa risuonasse nel suo capo.»

«….et le vent du matin soufflait sur les lanternes.

C’était l’heure où l’essaim des rêves malfaisants

tord sur leurs oreillers les bruns adolescents;

où, comme un oeil sanglant qui palpite et qui bouge,

le lampe sur le jour fait une tache rouge»


«…..il vento del mattino soffiava sul lampione un po’ spento.

Era l’ora che sciami di sogni turbolenti

torcono sui cuscini i bruni adolescenti.

Come un occhio ferito che palpita, intorno

sanguinate, la lampada macchia di rosso il giorno»

Charles Baudelaire, Le crépuscule du matin [Il crepuscolo del mattino]


Robert Musil
Heft 26, 1921-1923?, p. 672

Alle Völker wurden von etwas Irrationalen aber Ungenheurem berührt, fremd, nicht von der gewohnten Erde, später als eine Halluzination erklärt. Bemerkbare Teile dieses Erlebnisses: Jeder hatte mit jedem zum erstenmal etwas gemeinsam. Auflösung in ein überpersönliches Geschehen. Man spürt die Nation leibhaft. Mystische Ureigenschaften so real wie Fabriken. Andres Verhältis zum Tod. Beim Duchschnittsmenschen speziell: Gefühl etwas Großes zu erleben. Man kann das nicht einfach eine Trunkenheit, Psychose, Suggestion, Blendwerk usw. nennen. Etwas Verwandtes wiederholte sich beim Ende des Kriegs. Die österliche Weltstimmung. Auch sie war keine Illusion usw. Sie war wie ein trojan Pferd: ein Betrug – aber in den Umrissen eines göttlichen Erlebnisses.


«Tutti i popoli vennero toccati da un che di irrazionale e mostruoso, estraneo, non proveniente dal mondo usuale, più tardi spiegato come un’allucinazione. Parti percettibili di questa esperienza: ognuno aveva qualcosa in comune con ognuno. Dissoluzione in un accaduto sovrapersonale. Si percepisce la nazione in carne ed ossa. Qualità mistiche reali al pari di fabbriche. Un diverso rapporto nei confronti della morte. Particolarmente presso gli uomini mediocri: sensazione di qualcosa di grande da conoscere. Non la si può semplicemente chiamare un’ebbrezza, una psicosi, una suggestione, un’illusione. Un che di affine si ripeté al termine della guerra. L’universale sentimento della Pasqua. Non era un’illusione ecc…Era un cavallo di Troia: un imbroglio ma sotto le spoglie di un’esperienza divina.»
Traduzione di Claudia Ciardi

Birken im Schnee ©

Sergej Esenin
Сергей Александрович Есенин
[Ardi, mia stella, non cadere]

Ardi, mia stella, non cadere.
Fai scendere freddi i tuoi raggi.
Giacché oltre la cinta del cimitero
un cuore vivo non batte.

Tu splendi di agosto e di segale
e riempi il silenzio dei campi
con il singhiozzante tremore
di gru non migrate.

E, alzando più alta la testa,
al di là del bosco, della collina,
sento ancora qualcuno che canta
il paese paterno, la casa natale.

E l’autunno che si fa d’oro,
e secca il succo alle betulle,
per tutti quelli che ho amato e lasciato
sulla sabbia piange le foglie.

Io so, so. Presto, presto,
per colpa non mia né di altri
sotto un basso steccato di lutto
avrò in sorte anch’io di giacere.

Si spengerà la carezzevole fiamma,
e il cuore in polvere si muterà.
Una pietra grigia porranno gli amici
con una gioiosa scritta in poesia.

Ma conciliato col rito funebre,
io per me stesso così scriverei:
ho amato la patria e la terra
come la bettola l’alcolizzato.

Traduzione di Margherita De Michiel
I poeti di Via del Vento, Sergej Esenin, Stanco di vivere e altre poesie, Acquamarina, 17

Full catalogue on facebook/ Via del Vento, «Acquamarina» archive

Esenin.ru


Mein Fenster
Tagebuchzeichnung
1910
Lawrence Ferlinghetti

The Canticle of Jack Kerouac
Il cantico di Jack Kerouac

[.....]

Far from the sea far from the sea
of Breton fishermen
the white clouds scudding
over Lowell
and the white birches the
  bare white birches
along the blear night roads
flashing by in darkness
(where once he rode
in Pop’s old Plymouth)
And the birch-white face
of a Merrimac madonna
             shadowed in streetlight
 by Merrimac’s shroudy waters
- a leaf  blown
                                             upon the sea wind
out of Brittany
over endless oceans


There is a garden in the memory of America
There is a nightbird in its memory
There is an andante cantabile
in a garden in the memory
of America
In a secret garden
in a private place
a song a melody
a nightsong echoing
in the memory of America
In the sound of a nightbird
outside a Lowell window
In the cry of kids
in the tenement yards at night
In the deep sound
of a woman murmuring
a woman singing broken melody
in a shuttered room
in an old wood house
in Lowell
As the world cracks by
                                    thundering
like a lost lumber truck
                                    on a steep grade
                in Kerouac America  

[.....]


*** *** ***

Lontano dal mare lontano dal mare
dei pescatori bretoni
le nuvole bianche navigano veloci su Lowell
    e le bianche betulle le
                                     bianche betulle nude
      lungo le buie strade della notte
                  compaiono improvvise nel buio
(dove lui una volta passava
                               nella vecchia  Plymouth di Pop)
E il volto bianco come una  betulla
                                      di una madonna di Merrimac
     sotto l’ombra di un lampione di strada
                    lungo le nebbiose acque del Merrimac
        -  una foglia soffiata
                             dal vento di mare
dalla Bretagna
                      su oceani infiniti


C’è un giardino nella memoria d’America
C’è un uccello notturno nella sua memoria
C’è un andante cantabile
in un giardino della memoria
d’America
In un giardino segreto
in un luogo privato
un canto una melodia
l’eco di una canzone notturna
nella memoria d’America
Nel canto di un uccello notturno
fuori da una finestra di Lowell
Nelle grida di bambini
nei cortili popolari
Nel suono profondo
di una donna che sussurra
una donna che canta una melodia interrotta
in una stanza con le persiane chiuse
in una vecchia casa di legname
a Lowell
Mentre il mondo scricchiola
                                     con gran rumore
come un vecchio camion di legname
                                      su una ripida salita
                nell’America di Kerouac                   


Via Nemoreto
Foto di Claudia Ciardi ©
 

19 settembre 2012

Jene Spaziergänge am Grunewald

Quelle passeggiate nel Grunewald


Walter Leistikow - Solitary woods

October 19, 1900
    Max Planck, in his house at Grunewald, on the outskirts of Berlin, discovers the law of black body emission (Planck’s law).

In:

Understanding the Present:
An Alternative History of Science
,
Bryan Appleyard
Tauris Parke Paperbacks, 2004

pages 151-153

«In definitiva, l’energia assorbita o emessa dagli oscillatori è elettromagnetica, ovvero luce. Quindi, l’ipotesi di Planck, se presa alla lettera, implicava che la luce stessa fosse quantizzata, cioè esistesse solo in unità discrete. Inizialmente Planck pensò che questa sua ipotesi fosse un artificio puramente matematico che facilitava i calcoli, destinata a essere abbandonata successivamente. Il fisico inglese James Jeans era dello stesso avviso e suggerì che h dovesse tendere a zero in qualche punto del calcolo, ristabilendo quindi un pieno accordo con la fisica classica. Ma non si riuscì a eliminare la costante di Planck. Il vaso di Pandora della meccanica quantistica era stato aperto, e non fu possibile ricacciare dentro l’ordinato recinto della fisica del XIX secolo tutto ciò che di ‘spiacevole’ seguiva dall’analisi di Planck. La ‘scatola piena di luce’ di Herschel era in evidente disordine. Da questo dilemma nacque il nuovo quanto di luce. Le enormi implicazioni della semplice ipotesi di Planck furono immediatamente evidenti solo a pochi fisici suoi contemporanei. Da quel momento, il particolare tipo di energia chiamato luce sarebbe stato quantizzato.
Con questa sola ipotesi, Planck fu in grado di ottenere una formula matematica che si adattava piuttosto bene ai dati che aveva sotto mano. Inoltre, per verificare la sua teoria, invitò Rubens a prendere il tè a casa sua, fuori Berlino. Egli portò con sé i risultati delle sue recenti misurazioni e Planck ricambiò con la sua nuova formula per la distribuzione della radiazione del corpo nero. Per la prima volta la teoria era in pieno accordo con l’esperimento. Tutto il successo derivava dalla sua bizzarra ipotesi sul moto discreto di un pendolo.
Planck deve aver intuito il profondo significato di questo momento, perché nell’impeto del successo portò il suo adorato figlio Erwin a fare una lunga e memorabile camminata nella foresta di Grunewald, fuori Berlino. Erwin, che allora aveva solo sette anni, sapeva del prolungato impegno di suo padre per l’analisi della luce. Mentre camminavano, lui si confidò dicendo al bambino di avere la sensazione che la sua fosse una scoperta rivoluzionaria, destinata ad avere la stessa importanza di quelle di Copernico e Newton. Queste erano parole coraggiose, profetiche, dette da un uomo onesto e prudente, un’eresia pronunciata a nessun altro che a suo figlio, e tuttavia essi avevano parlato apertamente. Le domande paradossali che la teoria di Planck sulla luce aveva insinuato nell’immaginazione umana continuano a riecheggiare un secolo dopo, nella forma della dualità onda-particella.»

[…]


«Berlino, all’inizio del secolo, era un luogo entusiasmante. Mentre Max Planck era impegnato presso l’Università nella elaborazione della teoria quantistica, non molto lontano, al vecchio Café des Westens, importanti scrittori, artisti e intellettuali si radunavano ogni sera per discutere su van Gogh, Nietzsche, Freud e per spargere i semi della rivoluzione. Il poeta Ernst Blass sentì la vita, in quegli anni, come «una coraggiosa lotta contro la crudeltà, l’inattività, la pigrizia e la meschinità del mondo incolto». Il materialismo del XIX secolo era attaccato da ogni parte. La teoria quantistica e la relatività stavano indebolendo le spiegazioni meccanicistiche, gli artisti erano scontenti per le limitazioni dell’arte accademica, e gli intellettuali stavano annunciando una rivoluzione contro culturale nel campo delle idee.
I nuovi atteggiamenti rifiutavano gli aridi meccanismi dell’era precedente, e desideravano sostituirli con una più vitale Lebensphilosophie, o filosofia della vita. La fisica, che non si sviluppò mai nell’isolamento culturale, condivideva lo spirito del tempo. Gustav Mie, professore di fisica, disse in un discorso del 1925: “È interessante osservare che anche la fisica, una disciplina rigorosamente limitata ai risultati degli esperimenti, si sta muovendo lungo sentieri che corrono perfettamente paralleli a quelli dei movimenti intellettuali in altre aree della vita moderna”.
Insieme con le rivoluzioni nella fisica si verificò una rivoluzione nelle consapevolezze, ma i venti del cambiamento non ebbero su tutti lo stesso effetto. Nel primo quarto del XX secolo si verificarono spesso lunghe dispute tra le voci della tradizione e quelle di una nuova vita, che si riflettono nella nostra cronistoria della luce. Planck, Einstein e Bohr lottarono per proteggere le basi tradizionali della scienza, mentre contemporaneamente favorivano le conoscenze rivoluzionarie sulla luce. Gli artisti e i pensatori spirituali del periodo, da un lato apprezzavano gli ottimi risultati della scienza, dall’altro criticavano la sua unilateralità e aspiravano a incarnare il sogno di Emerson, ovvero l’unione della scienza rigorosa con una visione poetica e spirituale.
A Parigi, Robert Delaunay traeva la sua pittura direttamente dal colore e dalla luce, giustapponendo forme di colore con solo un pizzico di realismo. Nel 1912, Klee tradusse un saggio di Delaunay, Sulla luce, per la rivista di arte e poesia espressionista «Der Sturm». Le parole di Delaunay in quel saggio avrebbero potuto essere di Klee o Kandinskij: “Finché l’arte è troppo servile verso gli oggetti, rimane descrizione, letteratura…” Piuttosto la luce stessa dovrebbe essere “considerata come un mezzo indipendente di rappresentazione”. »


[…]


«Il 15 febbraio 1944, durante il massiccio bombardamento aereo degli alleati su Berlino, fu rasa al suolo anche la città di Grunewald e con essa la casa di Planck. Tutte le sue lettere e i documenti conservati meticolosamente vennero distrutti nell’esplosione. Infine, più tardi, in quello stesso anno, il suo amato figlio Erwin, con il quale aveva fatto la solitaria passeggiata nella foresta di Grunewald nel primo momento entusiasmante della sua scoperta, venne arrestato dalla Gestapo per il ruolo avuto nel fallito attentato a Hitler. Suo padre mosse cielo e terra per salvargli la vita ma invano. Il dolore per la sua perdita fu tanto grande che quasi ne morì. Ma forse, come pensava von Baader, fuori dal buio l’energia può uscire di nuovo improvvisa e intensa come un fulmine».
Arthur Zajonc, Dalla candela ai quanti. La storia della luce nella filosofia, nell’arte, nella scienza, Red edizioni, 1999

pp. 238, 239, 251, 252, 254



Walter Leistikow - Grunewaldsee

Berlin-Grunewald
Geschichte

In den 1880er Jahren verkaufte der Preußische Staat nach persönlicher Intervention von Reichskanzler Otto von Bismarck 234 Hektar des Forstes Grunewald an ein Bankenkonsortium, das sich zum Ziel gesetzt hatte, nach dem Muster der überaus erfolgreichen Villenkolonien Alsen und Lichterfelde ein noch aufwändiger angelegtes Wohnviertel zu errichten. Es entstand die spätere “Millionärskolonie Grunewald”. In diesem Zusammenhang wurde auch der Kurfürstendamm ausgebaut und so entstand seit 1889 an seinem westlichen Ende ein neues nobles Wohnviertel, die Villenkolonie Grunewald.

Aufgrund baulicher Vorgaben waren große Grundstücke erforderlich, die nur zu einem geringen Teil bebaut sein durften. So entwickelte sich Grunewald zu einer der wohlhabendsten Wohngegenden Berlins, obwohl die Villen stilistisch sehr heterogen sind. Um 1870 wurden die künstlichen Seen innerhalb der zur Glazialen Rinne der Grunewaldseenkette Seen Hubertussee (vorher Torffenn), Herthasee (Rundes Fenn), Koenigssee (Langes Fenn) und Dianasee (Diebsloch) ausgehoben und über artesische Brunnen mit Wasser gefüllt. Sie wurden entlang des ehemals sumpfigen Geländes angelegt. Man erreichte damit gleichzeitig zwei Dinge: Zum einen beseitigte man damit Moorgebiete (Fenns), die man als Infektionsherde fürchtete, zum anderen legte man gleichzeitig Attraktionen für die potenziellen Bewohner an, da sich die Villen um die Seen gruppierten und die Seeufer sowie die Hangbereiche frei von jeder Bebauung blieben und zu privaten Garten- und Parkanlagen wurden. In großer Zahl wählten Unternehmer, Bankiers, Akademiker und Künstler, oft jüdischer Religion, das inzwischen attraktive Gelände zum Wohngebiet.

Bei der Eingemeindung nach Groß-Berlin 1920 wurden 6449 Einwohner in Berlin-Grunewald Landgemeinde und 507 Einwohner in Berlin-Grunewald Forstgutsbezirk gezählt.

Durch Bomben im Zweiten Weltkrieg gerissene Lücken wurden teilweise mit Nachkriegsvillen oder größeren Einfamilienhäusern gefüllt, teilweise aber auch mit profaner Mietarchitektur. Berlin-Grunewald ist bis heute das teuerste Viertel des Berliner Villenbogens, der sich im Südwesten der Stadt von Lichterfelde-West im Süden, über Dahlem und Grunewald bis nach Westend erstreckt.

Über den Bahnhof Grunewald besteht ein direkter Anschluss zur S-Bahn-Linie S7; von dort geht es in die Berliner Innenstadt bzw. stadtauswärts nach Potsdam.

Von diesem Bahnhof aus erfolgte während des Zweiten Weltkriegs seit Oktober 1941 die Deportation der Berliner Juden vorwiegend in östlich gelegene Konzentrations- und Vernichtungslager. Hieran erinnert seit 1998 das “Mahnmal Gleis 17”.
http://de.wikipedia.org/wiki/Berlin-Grunewald
La Foresta di Grunewald (o semplicemente Grunewald, "foresta verde") è, con i suoi 3.000 ettari di estensione, la maggiore foresta cittadina di Berlino.
Il Grunewald (appartenente per la maggior parte al quartiere omonimo) si estende lungo la riva orientale dell'Havel, nella zona occidentale di Berlino.
Lambisce, verso nord, la Fiera di Berlino (Messe Berlin) e la torre della radio (Berliner Funkturm).

L'ambiente naturale del Grunewald presenta un'estesa foresta, principalmente di conifere e betulacee. Varie aree sono protette (Naturschutzgebiet) ed interdette agli avventori, ospitando una variegata fauna, principalmente di anfibi ed uccelli).

Oltre al fiume Havel, che per i berlinesi rappresenta una vera e propria zona balneare, il Grunewald è contornato da vari laghi e stagni. Lungo il confine occidentale della foresta, collegati dal corso del torrente Fenngraben, vi sono lo Schlachtensee, il Krumme Lanke, il Grunewaldsee, e gli stagni di Riemeisterfenn e Hundekehlesee. Altri piccoli stagni interni alla foresta sono il Teufelsee, il Pechsee ed il Barssee.
Il Grunewald conta 2 isole sul fiume Havel: Schwanenwerder (unita tramite strada) e Lindwerder.

9 settembre 2012

Blockaden


Blockaden
Storia di due assedi

«Sul monte Agu nel Togo vive un feticcio o spirito detto Bagba, che ha la più grande importanza per tutto il paese all’intorno. Gli si attribuisce il potere di dare e di negare la pioggia ed è signore dei venti, compreso l’harmattan, il vento secco e caldo che spira dall’interno. Il suo sacerdote abita in una casetta sulla più alta vetta del monte dove tiene i venti imbottigliati in grandi giare»

Il novantatré
                               
                                                     Per Sarajevo           
                                   
Con sanguinante scalpello arò il novantatré
la sconcia pietra del mondo,
sulle violate coltri l’insensato pugno levò
e tra ghiacciati orci immobile rimase.

Come diaframma di nuvole bruciò il novantatré
sopra il fango e il rame delle fosse,
nella rossa piega del sudario
di là da un mare in lutto.
Ma per l’arsa gola degli assenti
ancora latra la catena
un’agonia di ferro.


In concomitanza con il ventennale dell’inizio dell’assedio di Sarajevo e nell’anniversario del 9 settembre 1948, quando il sindaco di Berlino, Ernst Reuter, si rivolse al mondo per spezzare il blocco della città, altro indecente “assedio” di un luogo e una comunità già violati e prostrati dalla guerra, pubblichiamo alcuni documenti relativi a quei fatti, presentandoli nella lingua originale delle fonti di cui ci siamo serviti.
L’accostamento di questi avvenimenti intende richiamare l’attenzione su due episodi recentissimi della storia europea, in cui la follia omicida-suicida della guerra, uccidendo barbaramente memorie e identità, ha cambiato per sempre il volto di due capitali che si sono macchiate forse della colpa originale di essere patrie del mondo, luoghi di transito e pacifica convivenza di popoli, delle loro idee migliori e dei loro sogni. 
(di Claudia Ciardi)
Leggendaria n. 93 – maggio 2012 – Speciale “Balcanica”

From the Review:

    «In una notte come questa, malgrado tutto, / pensi a quante notti d’amore ti sono rimaste.» È il poeta bosniaco Izet Sarajlić, scomparso nel 2002, a parlare. Sarajlić non ha lasciato Sarajevo durante i quattro lunghi inverni della guerra iniziata nel ’92. I poeti, scrive, devono «fare il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo». Così, sotto il tiro dei cecchini, non maledice nessuno e anzi, continua a comporre versi per gli amici che muoiono, per le strade e le moschee ingoiate dalle granate e per la moglie, adorata musa fin dalla giovinezza. Accanto a lui durante gli anni del conflitto, lei muore appena dopo e tanto la amava Izet, che arriva a rimpiangere l’assedio: «Magari fosse ancora quel terribile,/ quel tante volte maledetto anno 1993!/ Avrei ancora cinque anni pieni/ da poterti guardare/ e da tenerti per mano!».
    Quanta guerra negli ultimi romanzi delle scrittrici albanesi che scrivono nella nostra lingua e che da noi trovano editori e riconoscimenti. La prima pluripremiata è stata Ornela Vorpsi, nata a Tirana, che vive oggi tra l’Italia e Parigi, un’artista e scrittrice che si dedica piuttosto alle guerre interiori dei migranti e dei conflitti tra i sessi. In uno dei suoi romanzi scattanti e dissacranti, La mano che non mordi (2007), racconta di un suo viaggio proprio a Sarajevo. Va a trovare un amico che non esce da casa da mesi, dopo aver vissuto da migrante in Italia. È depresso «perché l’Occidente non capisce le verità di noi altri dell’Est, dell’ex Est».
    È una città dove i ragazzi vogliono vestire Armani e i vecchi sono senza denti. I giovani, dice Ornela, non vogliono ammettere quanta voglia hanno di Europa. «Proprio da questa negazione, nasce quella che oserei chiamare la sindrome dei Balcani, quella di sentirsi al centro della terra», scrive.»


[…]


    «L’Est dell’Europa rinvia al centro un’immagine di essa (dell’essere stesso dell’Europa, fino a ieri occidentale) che rischia di rovesciarla. L’Europa infatti è messa a confronto insieme con se stessa e con l’Altro. L’Altro dell’Europa, cioè il suo Est, mostra ora come non sia altro che l’Altro dello stesso, cioè dell’Europa come si dava a vedere, come essa si autorappresentava. […] Le figure dell’Altro sono molteplici, ma […] sempre soggette ad essere escluse (La balcanizzazione della ragione, p. 19). L’Oriente, l’altro extraeuropeo, ha sempre turbato l’Europa, ma dopo la caduta del muro di Berlino, è venuta alla luce una figura dell’Altro parente della stessa Europa, l’altro intraeuropeo, «una figura ambigua che mette in gioco l’identità dell’intero continente: dov’è il confine tra Oriente e Occidente?...E dov’è la differenza tra l’Est e l’Oriente?» Non si è sicuri che esista. L’Altro europeo solleva la questione dell’Altro asiatico» (La balcanizzazione, p. 20)»


    «L’assedio militare più lungo della storia moderna è durato quarantotto mesi. Sono passati venti anni dall’inizio del blocco anacronistico di una città che era già europea prima di entrare in Europa. Troppi, sia per dare per scontata la conoscenza elementare della cronologia dei fatti, che per cercare di riassumerla qui. L’assedio di Sarajevo e la fine dell’esperienza jugoslava ci riguardano. Non solo perché, com’è stato ripetuto fino alla nausea, ci siamo visti “allo specchio” in una guerra tanto vicina a noi da farci assomigliare sia alle vittime che ai carnefici, ma anche perché alcuni temi che hanno alimentato il pensiero e i crimini dei nazionalismi armati che hanno distrutto quel paese (che fu tra i fondatori delle Nazioni Unite nel 1945) sono tragicamente attuali.
    Cos’è un popolo? Cosa sono i diritti di cittadinanza? Può una minoranza armata imporre la guerra alla maggioranza della popolazione? Quale dovrebbe essere il ruolo della diplomazia internazionale e delle sue forze d’interposizione? L’Onu, a Sarajevo, è morta per cause naturali o è stata assassinata?
    Più che all’esposizione dell’io narrante di decine d’inviati, forse il “ventennale dell’inizio dell’assedio” (ma non si celebrava la fine, piuttosto che l’inizio delle guerre?) avrebbe potuto essere occasione per ragionare su questi contenuti. Intorno a noi il quadro è desolante. Alcuni dei diritti universali sanciti dalla carta delle Nazioni Unite (sui quali si fonda la condivisione del pianeta da parte della nostra specie) sono carta straccia in tutta Europa e annegano assieme ai profughi nel Mediterraneo.
    Spesso proietto foto, commentandole, in luoghi dove mi invitano a farlo. Tra questi, le scuole elementari sono sempre un posto speciale dove affrontare discorsi impegnativi. Gli esempi pratici stimolano l’immedesimazione: provate a pensare a cosa fareste a casa vostra se mancasse la luce, il gas e l’acqua. Non per poche ore, come vi sarà successo, ma per quasi quattro anni. Se non ci fosse benzina per le macchine e i cinema chiudessero e non si potesse più giocare per le strade, né andare a scuola senza correre, per evitare di essere colpiti da un cecchino o da una scheggia di granata. Se nessuno potesse lasciare la città. Di solito, a questo punto, l’attenzione è massima.
    Proietto immagini di una biblioteca bombardata come se fosse un obiettivo militare, con i suoi libri in fiamme. Parlo di oltre metà della popolazione di una nazione, costretta a trasferirsi da una parte all’altra del paese per ritrovarsi in aree più “omogenee” etnicamente, nella ricerca di una purezza mitizzata e totalmente fuori dalla realtà. Scriveva Walter Benjamin, che la violenza più grande che si può fare a un essere umano è quella di costringerlo a lasciare la sua casa, sotto la minaccia delle armi. Mostro foto di combattenti e di profughi, senza dividere le persone per “etnie” (per non fare il gioco dei nazionalisti) ma per ruoli interpretati nel corso degli avvenimenti. Racconto la loro storia come l’ho raccontata, su una linea del fronte immaginaria tra chi la guerra la fa e chi la subisce. Mostro la distruzione delle cose, degli edifici, dei ponti. Poi parlo dell’oggi, della vita che riprende, delle difficoltà, dei nuovi ricchi e dei sempre più poveri, dell’intreccio tra affari e potere e della corruzione (su questo nessuno si sorprende più di tanto). A volte si tratta di memorie contrapposte, ma è meglio così che cercare di costruire una cosiddetta “memoria condivisa” che sa di regime (le istituzioni devono essere condivise, non necessariamente le memorie, che rimangono irriducibilmente private).»

    Testo di Mario Boccia – all’intervento segue uno straordinario reportage fotografico, che l’autore ha realizzato durante i terribili mesi dell’assedio. Boccia è poi tornato a cercare le persone incontrate e ritratte in quei giorni di martirio della città, scoprendo che alcune di loro non ce l’avevano fatta. – pp. 45-53    

Rosen von Sarajevo
        Eine Rose von Sarajevo markiert den Ort, an dem ein Mensch durch einen Mörser starb.

        Rosen von Sarajevo nennt man eine bestimmte Form von Gedenkstätten im Straßenbild Sarajevos, der Hauptstadt Bosnien-Herzegowinas, die im Bosnienkrieg mehrere Jahre lang von serbischen Truppen belagert wurde und unter Artilleriebeschuss stand, wobei zahlreiche Zivilisten ums Leben kamen. Im Schnitt schlugen täglich rund 300 Geschosse in Sarajevo ein. Die Einschläge von Granaten haben auf dem Asphalt Spuren hinterlassen, deren Form vage an eine Blume erinnert. Die Bewohner von Sarajevo haben die Krater mit rotem Harz markiert, um daran zu erinnern, dass an dieser Stelle ein Mensch zu Tode kam.
        Quelle:
            Wera Reusch: Die Rosen von Sarajevo. Elf Jahre nach Kriegsende ist das Land noch tief gespalten. In: amnesty journal. November 2006, S. 30–31.
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        The Siege of Sarajevo was the longest siege of a capital city in the history of modern warfare.[7] After being initially besieged by the forces of the Yugoslav People's Army, Sarajevo, the capital of Bosnia and Herzegovina, was besieged by Bosnian Serb forces of the Republika Srpska from 5 April 1992 to 29 February 1996 during the Bosnian War. The siege lasted three times longer than the Siege of Stalingrad and a year longer than the Siege of Leningrad.[8]

        After Bosnia and Herzegovina had declared independence from Yugoslavia, the Serbs—whose strategic goal was to create a new Bosnian Serb State of Republika Srpska (RS) that would include parts of Bosnian territory[9]—encircled Sarajevo with a siege force of 18,000[4] stationed in the surrounding hills. From there they assaulted the city with weapons that included artillery, mortars, tanks, anti-aircraft guns, heavy machine-guns, multiple rocket launchers, rocket-launched aircraft bombs and sniper rifles.[4] From 2 May 1992, the Serbs blockaded the city. The Bosnian government defence forces inside the besieged city were poorly equipped and unable to break the siege.

        It is estimated that nearly 12,000 civilians were killed or went missing in the city, including over 1,500 children. An additional 56,000 people were wounded, including nearly 15,000 children.[6] The 1991 census indicates that before the siege the city and its surrounding areas had a population of 525,980. There are estimates that prior to the siege the population in the city proper was 435,000. The current estimates of the number of persons living in Sarajevo range from between 300,000 to 380,000.[6]

        After the war, the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) convicted three Serb officials for numerous crimes against humanity for the siege. Stanislav Galić[10] and Dragomir Milošević[11] were sentenced to life imprisonment and 29 years imprisonment respectively, while Momčilo Perišić was sentenced to 27 years.[12] One of the 11 indictments against Radovan Karadžić, the former president of the Republika Srpska, is for the siege.[13] In the case against Stanislav Galić, the prosecution alleged in an opening statement that:

            The siege of Sarajevo, as it came to be popularly known, was an episode of such notoriety in the conflict in the former Yugoslavia that one must go back to World War II to find a parallel in European history. Not since then had a professional army conducted a campaign of unrelenting violence against the inhabitants of a European city so as to reduce them to a state of medieval deprivation in which they were in constant fear of death. In the period covered in this Indictment, there was nowhere safe for a Sarajevan, not at home, at school, in a hospital, from deliberate attack.

            — Prosecution Opening Statement, ICTY vs Stanislav Galić, 2003

        wikipedia.en:
        http://en.wikipedia.org/wiki/Siege_of_Sarajevo


               
The Berlin Blockade was an attempt by the Soviet Union to block Allied access to the German city of Berlin in 1948 and 1949. Ultimately, the Berlin Blockade turned out to be a total political failure for the Soviet Union, and the West managed to turn it into a major victory. This event was one of the first major conflicts of the Cold War, and the lessons of the Berlin Blockade were kept in mind during future episodes of tension between the Soviet Union and the Western world.

        After the Second World War, Germany was split up among the Allies, with the French, Americans, British, and Russians each controlling a section of Germany. The city of Berlin was located in East Germany, the section controlled by the Soviet Union, but Berlin was deemed so important politically that it was split into miniature administrative districts, ensuring that the Allies had a presence in Berlin.

        However, being surrounded by East Germany left the Western-occupied sections of Berlin very vulnerable. In June 1948, Allied efforts to produce a unified currency for West Germany triggered alarm in the Soviet Union, and officials decided to block all access to Berlin, in the hopes of forcing the Allies to give them more control of the city. Essentially, the Soviet Union planned to starve the city in order to coerce the West into capitulating.
        Berlin appelliert an die Welt
        Stimmung zuversichtlich, aber Unterstützung notwendig

        Berlin - Die Berliner sind - wenn gleich nach der Einführung der Deutschen Mark in den Westsektoren etwas zuversichtlicher - doch der Überzeugung, daß das Schicksal ihrer Stadt von der Unterstützung abhängt, die die westliche Welt in der nächsten Zeit Berlin gewähren wird. Der Magistrat hat dementsprechend am 25. Juni beschlossen, die Vereinten Nationen um eine Stellungnahme zur Situation in Berlin zu bitten. Exponenten der Stadtverwaltung äußerten hierzu, die gegenwärtige Lage in Berlin sei als so ernst anzusehen, daß der Magistrat zu diesem letzten ihm zur Verfügung stehenden Mittel habe greifen müssen. Der Appell an die UN soll am 28. Juni formuliert und, wie DPD berichtet, durch "eine auswärtige Macht" nach Lake Succes weitergeleitet werden. Außerdem erließ die stärkste Partei Berlins, die SPD, einen "Aufruf an die Welt" in dem es heißt: "Eisern und entschlossen steht die Berliner Bevölkerung seit drei Jahren als Abwehrwall gegen den neuen Totalitarismus". Nunmehr könnte der Zeitpunkt kommen, wo der Wille und die Kraft der Berliner nicht mehr ausreichen. "Die Freiheit und das nackte Leben hängen Jet von der aktiven Unterstützung der demokratischen Welt ab."

        Maßgebende Berliner Politiker äußerten am Wochenende, daß sich die entscheidenden Auseinandersetzungen über das Schicksal Berlins nunmehr wahrscheinlich auf eine höhere Ebene - zum Beispiel auf einem Notenaustausch zwischen Washington und Moskau - verlagern würden. Die bisherigen Versuche der SED und der sowjetischen Besatzungsmacht, die Bevölkerung durch Schikanen und Drangsalierungen umzustimmen, seien als gescheitert anzusehen. Die nächsten Wochen würden, so meint man in diesem Kreisen, eine endgültige Klärung bringen.

        Auf der SPD-Kundgebung im französischen Sektor vor 70 000 Berlinern, auf der der "Aufruf an die Welt" verkündet wurde, wies Berlins gewählter, durch ein sowjetisches Veto aber nicht bestätigter Oberbürgermeister, Professor Ernst Reuter, darauf hin, daß die Durchführung des sowjetischen Befehls, ganz Berlin in die Ostwährungsreform einzubeziehen, andere einseitige Anordnungen dieser Macht nach sich ziehen würde. "Dann gibt es auf der schiefen Ebene kein Halten mehr. Dann gibt es nur noch Befehlen und Gehorchen, und im Hintergrund stehen wieder unsere alten Bekannten" Gefängnisse und KZ's." Was durch die Rollkommandos der Kommunisten, die - wie bereits berichtet - die Sitzung des Berliner Parlaments am 23. Juni störten, nicht habe erreicht werden können werden können, sollte jetzt durch die gegen alle Berliner in Anwendung gebrachte sowjetische Hungerpeitsche erzwungen werden. Die Sperrung der Elektrizitätsversorgung und der Lebensmitteltransporte für die Westsektoren sei der erste Schritt des brutalen Machtwillens der SED und der hinter ihr stehenden Kräfte.

        Erich Ollenhauer, der für den erkrankten Vorsitzenden der SPD, Dr. Kurt Schumacher, in Berlin weilte, betonte, daß Berlin Beweise des Vertrauens der demokratischen Welt durch Taten brauche. Es sei ein "hoher Einsatz der Alliierten für diese Stadt notwendig". Nach seiner Rückkehr in die Westzonen meinte Ollenhauer, daß das, was sich gegenwärtig in Berlin abspiele, das entscheidendste und einschneidendste Ereignis seit dem Zusammenbruch sei. Es müsse deutlich gesagt werden, daß diese Ereignisse nicht nur einen Kampf um Berlin, sondern einen Kampf um ganz Deutschland darstellen. Ollenhauer hob die vorbildliche Haltung der Berliner hervor, die entschlossen seien, für ihre demokratischen und freiheitlichen Ideale die größten Opfer zu bringen. Er sei auf Grund seiner Unterredungen mit maßgeblichen britischen und amerikanischen Stellen überzeugt, daß "die Westmächte alles unternehmen werden, um Berlin zu halten".

        Nach Auffassung unbeteiligter politischer Beobachter verdient die Haltung der Berliner Stadtverordneten gegenüber dem kommunistischen Mob in der letzten Stadtverordnetensitzung besondere Beachtung. Obwohl die Abgeordneten tätlich angegriffen wurden, hätten sie keinen Augenblick ihre Haltung verloren. Verschiedene Stadtverordnete wurden unter Rufen wie "Volksverräter", "du mußt nochmal ins KZ, du hast nichts hinzugelernt", mißhandelt und an der Abfahrt gehindert. Trotzdem machten die Abgeordneten nicht den Versuch, die auf Befehl ihrer kommunistischen Vorgesetzten passive Polizei zum Vorgehen gegen die Demonstranten zu veranlassen.

        Am nächsten Tage schrieb dann das Zentralorgan der SED, "Neues Deutschland", zu den Angriffen des organisierten Pöbels: "Das war Demokratie!"

        Quelle: Die Neue Zeitung
        Schlagwörter: Verkehr, Geschichte, Politik, Teilung, Sektor, Blockade, Appell, Reuter, UN, Vereinten Nationen, Verkehrswerkstatt, Berlin, Deutschland
        Aktualisiert am: 06.02.2006
        Zeitungsartikel URL

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Blockade und Luftbrücke
1948/ 1949

Hans-Norbert Burkert, Christoph Hamann (Hrsg.)
BIL (Berliner Institut für Lehrerfort und weiterbildung und Schulentwicklung)
Druckhaus Hentrich, Berlin 1998

Ernst Reuter während der Rede vor dem Reichstag ©

Rede auf der Protestkundebung vor dem Reichstagsgebäude am 9. September 1948 gegen  die Vertribung der Stadtverordnetenversammlung aus dem Ostsektor (Auszug)

«Wenn wir darum heute in dieser Stunde die Welt rufen, so tun wir es, weil wir wissen, daß die Kraft unseres Volkes der Boden ist, auf dem wir groß geworden sind und größer und stärker werden, bis die Macht der Finsternis zerbrochen und zerschlagen sein wird. Und diesen Tag werden wir an dieser Stelle, vor unserem alten Reichstag mit seiner stolzen Inschrift “Dem Deutschen Volke”, erleben und werden ihn feiern mit dem stolzen Bewußtsein, daß wir ihn in Kümmernissen und Nöten, in Mühsal und Elend, aber mit standhafter Ausdauer herbeigeführt haben. Wenn dieser Tag zu uns kommen wird, der Tag des Sieges, der Tag der Freiheit, an dem die Welt erkennen wird, daß dieses deutsche Volk neu geworden, neu gewandelt und neu gewachsen, ein freies, mündiges, stolzes, seines Wertes und seiner Kraft bewußtes Volk geworden ist, das im Bunde gleicher und freier Völker das Recht hat, sein Wort mitzusprechen, dann werden unsere Züge wieder fahren nicht nur nach Helmstedt, sie werden fahren nach München, nach Frankurt, Dresden, Leipzig, sie werden fahren nach Breslau und Stettin.»

(Beifall)

[…]


«Ihr Völker der Welt, ihr Völker in Amerika, in England, in Frankreich, in Italien! Schaut auf diese Stadt und erkennt, daß ihr diese Stadt und dieses Volk nicht preisgeben dürft und nicht preisgeben könnt! Es gibt nur eine Möglischkeit für uns alle: gemeinsam so lange zusammenzustehen, bis dieser Kampf gewonnen, bis dieser Kampf endlich durch den Sieg über die Feinde, durch den Sieg über die Macht der Finsternis besiegelt ist.
Das Volk von Berlin hat gesprochen. Wir haben unsere Pflicht getan, und wir werden unsere Pflicht weiter tun. Völker der Welt! Tut auch ihr eure Pflicht und helft uns in der Zeit, die vor uns steht, nicht nur mit dem Dröhnen eurer Flugzeuge, nicht nur mit den Transportmöglichkeiten, die hier hierschafft, sondern mit dem stadhaften und unzerstörbaren Einstehen für die gemeinsamen Ideale, die allein unsere Zukunft und die auch allein eure Zukunft sichern können. Völker der Welt, schaut auf Berlin! Und Volk von Berlin, sei dessen gewiß, diesen Kampf, den wollen, diesen Kampf, den wollen, diesen Kampf, den werden wir gewinnen!»

Blockade und Luftbrücke cover ©

3 settembre 2012

Leggendarie


Leggendaria
Donne non comuni


«Questi articoli, pubblicati da Leggendaria e dei quali qui presentiamo due brevi estratti, sono il frutto di un interesse storico per la conquista dei diritti delle donne nel difficile contesto delle crisi economiche di fine Ottocento, che investirono Europa e Stati Uniti (con fasi alterne dal 1873 al 1896), e successivamente delle due guerre mondiali. Siamo di fronte a delle insolite biografie di pioniere che operarono in ambienti e settori molto diversi tra loro, dalla pubblicistica alla medicina, ma animate da un identico proposito: scalare posizioni sociali, facendo valere talento e forza di volontà.
Rileviamo inoltre il dato che molte delle protagoniste delle quali si narra provengono da quella agitata zona del vecchio continente che gode della strana proprietà di essere centro e periferia insieme e che va sotto il nome di Mitteleuropa, il cui destino di tumultuosa fucina creativa, fabbrica d’ingegni e vite singolari sembra spandersi e agire tanto nel panorama continentale quanto al di là dell’oceano. L’idea del Sonderweg, la ‘via particolare’, leitmotiv che accompagna l’epopea di un mondo che percepisce il proprio pur vitale declino come una missione, scorre sotterranea ben al di là degli incerti confini entro cui batte il cuore dell’Europa, e non c’è quindi da stupirsi nel vederla riaffiorare in situazioni e luoghi solo apparentemente differenti e lontani. Non sono forse anche quelle seguite dalle nostre pioniere strade particolari, cammini improbabili e irrequieti? E mi pare che la grande allegoria dell’occidente stia proprio in questo intreccio di incognite disegnato sulle geografie delle possibilità umane, in attesa di essere percorse».
(di Claudia Ciardi)  

Grazie alla direttrice responsabile di «Leggendaria» Anna Maria Crispino


Una giramondo rivoluzionaria. Su Annie Londonderry
La picaresca storia di una lettone immigrata negli Stati Uniti che si inventò come popolare protagonista di un’epopea ciclistica

Quote from the journal article:
«Da quell’istante, e per molti chilometri, il suo ascendente si esercitò praticamente incontrastato. Non mancò di infarcire la sua avventura sulla strada di episodi fantasiosi e robuste bugie, snocciolando repertori scelti di volta in volta per trascinare le platee dei suoi ammiratori, di fronte ai quali sfoggiava una scioltezza di affabulatrice nata. Considerare che Annie riuscì nel suo intento in una situazione sfavorevole, visto che imbastì e portò a termine il viaggio nel pieno della profonda depressione che mise in sofferenza l’economia statunitense alla metà degli anni Novanta dell’Ottocento, ci sollecita una volta di più a celebrarne la particolare personalità comunicativa, capace di persuadere i suoi interlocutori e di guadagnarli alla propria causa. Peter Zheutlin, giornalista e pronipote di Annie, ha ricostruito la vicenda in una serrata indagine, permettendo ai lettori di confrontarsi con un importante spaccato del costume americano e di rivivere la cronaca di un’insolita operazione pubblicitaria, che finì per trasformarsi in qualcosa di ben più ampio e rappresentativo. L’esito positivo della scommessa, che Annie, almeno alla partenza, aveva principalmente rivolto a sé, venne assicurato non tanto dall’andare in bicicletta quanto dal manifestarsi di una inossidabile volontà che è stata in grado di coprire una distanza ben più grande di quella attraversata nel mondo, conquistando l’immaginario della gente e uno spazio nel lungo e faticoso cammino di libertà e affermazione dei diritti delle donne». 
Su Leggendaria n. 94 luglio 2012



Testo recensito:
Peter Zheutlin
Il giro del mondo in bicicletta. La straordinaria avventura di una donna alla conquista della libertà
Trad. di Veronica La Peccerella
Elliot edizioni
Roma, 2011
330 pagine, Euro 17, 50

Annie Londonderry - official site

Annie Londonderry on facebook


Pioniere a Pisa
Storie di donne non comuni


Abstract:
«Nella galleria di ritratti femminili qui ricostruita, tocchiamo i momenti salienti attraversati dall’Italia e dall’Europa, e oltre, fino alla Russia, l’Ucraina, la Turchia, data la vocazione cosmopolita dell’ateneo pisano, tra la fine dell’ ’800 e la seconda guerra mondiale. Con il 1919, quale ricompensa per l’indispensabile servizio reso al paese in guerra, le donne si vedono riconosciuti i pieni diritti civili (ma non ancora il diritto di voto) e si emancipano dall’autorizzazione maritale. E tuttavia di lì a poco sarebbe toccato loro versare un tributo altrettanto, se non più alto, in termini di rinunce e rischi, che in non pochi casi ha comportato anche la perdita della vita.
Donne coraggiose e determinate come Maria Fischmann, ebrea di Odessa, prima laureata all’Università di Pisa presso la facoltà di Medicina, ottava in Italia; Antonia Eirene Risos, Giuseppina Lazzari ed Elvira Caporali, prime a ricoprire l’incarico di assistenti volontarie di clinica; Reysia Rotenberg, Jaffa Sceindla Krasnova, Helena Blatt, venute a studiare a Pisa da Odessa e Leopoli, le cui presenze si perdono con l’incalzare della guerra e del regime.
Il prezioso lavoro di Alessandra Peretti, dunque, non si ferma a un solo contesto ma tocca fasi delicatissime del cammino femminile, mostrando come ogni singola traccia sia legata agli ostruzionismi maschili, al dramma della diaspora ebraica, alle persecuzioni politiche fasciste. Vite al margine, ancor più facile preda di intolleranze e ricatti. Questa è appunto la lunga silenziosa resistenza delle donne che hanno lottato su due fronti, intervenendo in privato a favore della propria realizzazione personale ed esponendosi nella sfera pubblica, spingendo a più riprese verso il cambiamento per raggiungere, difendere e rappresentare i propri diritti e con ciò definirsi parte attiva nel percorso di emancipazione sociale».
Su Leggendaria n. 88 luglio 2011



Testo recensito:
Alessandra Peretti
Storie di donne non comuni. Le prime laureate in Medicina dell’Università di Pisa
Edizioni Plus, Pisa University Press, 2010
pagine 153 – Euro 15.

Link all’archivio Essper - Periodici italiani di economia, scienze sociali e storia -Leggendaria e Claudia Ciardi

Numeri precedenti/ previous numbers:

LE AUTOREVOLI



N. 92, MARZO 2012, 66 PAGINE, 8 EURO
Donne e politica/ Donne in politica

Chi sono le donne che contano in Italia e in Europa?

Possiamo fidarci di loro, e affidarci a loro?

E a maggio si vota in molte città: poche le sindache all'orizzonte...

in Primo piano un bilancio su Donne e Risorgimento e tanti consigli di lettura

PASSAGGI DI ETÀ


N. 93, MAGGIO 2012, 81 PAGINE + SUPPLEMENTO, 8 EURO


TEMA: LE ETÀ DELLA VITA. Interventi, bibliomappe, echi da un seminario

SPECIALE: BALCANICA. Riflessioni sulla guerra a 20 anni dall'assedio di Sarajevo

SUPPLEMENTO: MADRI SENZA TEMPO? Un confronto generazionale.

a cura della Fondazione Badaracco
                                                       
Leggendaria è:
Leggendaria. Libri Letture Linguaggi è una testata autonoma e indipendente nata nel gennaio 1997 e distribuita in libreria e per abbonamento. Una prima serie, “legendaria” è uscita prima come supplemento al mensile Noidonne e poi “cangurata” dalla stessa testata dal 1986 fino al dicembre del 1996. Ideata e diretta da Anna Maria Crispino, è prodotta da un piccolo nucleo redazionale (Lucina Di Mauro, Monica Luongo, Mariella Gramaglia, Silvia Neonato, Bia Sarasini, Nadia Tarantini, Maria Vittoria Vittori) che si avvale di un ampio giro di collaborazioni qualificate, di studiose e appassionate, giornaliste e scrittrici, senza escludere le firme maschili.

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