28 aprile 2018

F. Braudel - Sguardi sul Mediterraneo (I)




Un saggio di storia tra i più profondi, estesi e stimolanti degli ultimi cinquant’anni, dove cronaca, commento agile e disinvolto dei fatti, analisi sociologica e teoria politica s’intrecciano mirabilmente, facendo appassionare il lettore a vicende altrimenti poco note, eppure non così lontane nello spazio e nel tempo. Ci aggiriamo infatti negli avventurosi e turbolenti secoli che preparano il terreno al consolidamento degli Stati moderni, tra la metà del Cinquecento e il Seicento, periodo di cambiamenti sociali, in qualche caso sarebbe più opportuno dire scivolamenti, e anche repentine battute d’arresto. Il libro è Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, la sterminata opera di Fernand Braudel, in Italia pubblicata da Einaudi a partire dalla metà degli anni Sessanta e subito al centro di un fervido dibattito. Inutile dire che siamo davanti a uno di quei monumenti sacri investiti del ruolo di attrarre e convogliare attorno a sé energie nuove della storiografia recente e della sua teoria, innovando la disciplina in alcune delle principali articolazioni che le sono proprie.
Bastano scorci di questo tipo: «Siviglia, ottobre 1581: i vagabondi fermati in una retata della polizia sono imbarcati di forza sulle navi di Sotomayor [l’artefice del disastro dell’invincibile armada], dirette verso lo stretto di Magellano. Erano destinati a fare gli sterratori, i guastatori, ma quattro legni colarono a picco durante la traversata e mille di quegli sventurati finirono annegati», oppure «in Sicilia le imprese dei briganti erano cantate dagli “urvi”, cantori ciechi itineranti, che si accompagnavano con una specie di violino polveroso, e che la folla circondava avidamente sotto i platani dei viali». Bastano, si diceva, questi quadri vividi tratti dai resoconti del tempo, che Braudel con l’agilità del grande studioso riassume in poche pennellate e fa tornare attuali, per farci toccare con mano il passato e scoprirlo sorprendentemente contiguo, e per dare al suo lavoro un taglio che non è esagerato definire letterario. Del resto a fornire tutti gli ingredienti è proprio il gran teatro della storia, cui lo scrittore guarda. La severità tracotante, nutrita del più arcaico e immobile feudalesimo, dell’aristocrazia, le ambizioni di una borghesia mercantile che tuttavia è ancora poco cosciente del suo ruolo di classe, uno Stato moderno consolidato ma al contempo dai confini ancora incerti, che vive d’innumerevoli compromessi e appoggi nella classe nobiliare che ancora fino a tutto il Seicento orienta i giochi di potere. Ma pure si tratta di una nobiltà ambigua, sfuggente, che attraversa rovesci pesantissimi e si apre, di necessità, agli innesti di nuove personalità, di grandi mercanti e banchieri che avevano fatto fortuna lontano dalla terra e che a un certo punto alla terra vogliono tornare. Infine la massa di contadini, poveri, vagabondi, avventurieri, rovinati delle congiunture economiche sfavorevoli, che sulla fine del Cinquecento divengono una sconcertante realtà con cui le culture mediterranee si trovano a fare i conti. Picari, briganti, pirati, ladruncoli di strada, mercenari, imboscati, prostitute, vedove in cerca di nuovi redditieri, rivoltosi, disoccupati per costrizione o per volontà di non voler andare sotto un padrone. Le torme di diseredati che scendono dai monti verso la pianura, affluendo nelle campagne di Spagna o sulle coste provenzali o nell’entroterra italiano, al solo fine di razziare, sono connaturate alla storia mediterranea, dai Pirenei al Marocco. Talora divengono protagoniste di sommosse, anche violente, ma brevi e subito brutalmente strangolate dagli eserciti o da altri mercenari, in qualche caso quella stessa gente che viveva in promiscuità con tali compagni di strada, assoldata dal signore di turno per far pulizia.
È un mondo in subbuglio che Braudel inchioda alle soglie di un pauperismo in deciso aumento in tutte le civiltà che si affacciano sul Mediterraneo. Sovrappopolazione, violenza dei potenti, soprusi di Stato, graduale o improvvisa uscita di scena di quelle borghesie mercantili che avevano saputo attrarre ricchezze e metterle in circolo nella società, costituiscono una miscela infiammabile, destinata a rimescolare di lì a poco equilibri e certezze. «Un lungo e intenso lavorio in profondità elaborò a poco a poco e trasformò le società mediterranee, dal 1550 al 1600, concludendo una lunga gestazione. Il malessere generale e crescente, pur non traducendosi in rivolte palesi, modifica nondimeno tutto il paesaggio sociale. Ed è un dramma innegabilmente di carattere sociale. […] Indubbiamente, tutto tende a polarizzarsi tra una nobiltà ricca, vigorosa, ricostituita in famiglie potenti sostenute da vasti beni stabili, e una massa di poveri sempre più numerosi e miserabili, “bruchi o maggiolini” [così si legge nelle cronache d’epoca], insetti umani, ahimè sovrabbondanti. Un cracking spacca in due le vecchie società, vi scava baratri. Nulla li colmerà: neppure, ripetiamolo, la straordinaria carità cattolica di fine secolo. […] La crisi dà i suoi colori alla vita degli uomini. Se i ricchi bazzicano con la canaglia, si mescolano più facilmente alla folla che disprezzano, vuol dire che la vita ha allora le sue due rive vicine; case nobili da un lato, sovrappopolate di domestici; picardìa dall’altro, mondo del mercato nero, del furto, del vizio, dell’avventura e soprattutto della miseria… Analogamente, la più pura, la più esaltata passione religiosa si accosta alle più sorprendenti bassezze e brutalità. Singolari e meravigliose contraddizioni del barocco, si è esclamato. No, non del barocco ma della società che lo sostiene e lo ricopre male. E, nel cuore di queste società, quale disperazione di vivere!». Questo il commento conclusivo a una delle sezioni più avvincenti del libro, il capitolo V dedicato alle società e alle loro incongrue, complesse, affatto scontate trasformazioni, di cui intendiamo qui rileggere alcuni passi salienti. Se non è vero che la storia si ripete esatta, è invece inconfutabile che la sua conoscenza approfondita aiuti a capire meglio chi siamo. L’approfondimento di alcune delle dinamiche riportate alla luce dall’enorme lavoro di scavo di Braudel è un dono quanto mai prezioso che di certo non ha ancora esaurito il suo messaggio. 

(Di Claudia Ciardi)


«Nel vasto campo mediterraneo del secolo XVI, l’evoluzione delle società appare abbastanza semplice. A patto, evidentemente, di limitarsi all’insieme, di trascurare i particolari, i casi locali, le aberrazioni, le occasioni perdute (che furono numerose) e i rivolgimenti spesso più drammatici che profondi: sorgono, poi spariscono.
Questi sconvolgimenti, è evidente, hanno la loro importanza. Ma le società di allora, a base terriera, si evolvono lentamente e sono sempre in ritardo sulla politica e sull’economia. E le congiunture sociali sono come tutte le congiunture, ora in un senso, ora nell’altro; spesso finiscono col compensarsi, così che, alla lunga, l’evoluzione effettivamente compiuta resta poco avvertibile. In Francia, probabilmente hanno giocato forti alternative: tutto il primo secolo XVI è sotto il segno della mobilità sociale, i poveri si spostano da un punto all’altro, da una regione all’altra, senza soccombere nel corso dell’avventura; in pari tempo, in verticale, lungo la scala sociale, ci sono ricchi che cessano di esserlo e sono sostituiti da nuovi ricchi; poi, verso gli anni 1550-60 si osserva un rallentamento, e il movimento riprende più tardi per bloccarsi ancora, forse fin dal 1587 in Borgogna, o verso il 1595, sull’ora mondiale dell’inversione della tendenza maggiore. Abbiamo così di volta in volta, un’accelerazione, un ritardo, una ripresa, un ristagno, e tutto ciò porta, ma solo momentaneamente, alla vittoria evidente delle aristocrazie, e solo sul finire del secolo, a un semiblocco delle società. Questa realtà, però, è ancora un risultato congiunturale, di quelli che possono scomparire o essere compensati dall’ondata successiva» [si cita in proposito il Drout “Mayenne et la Bourgogne”: «Questi legulei, che avevano da un secolo sconvolto il vecchio ordine sociale, verso il 1587 formavano già un corpo conservatore. Volevano mantenere il regime che aveva favorito la loro ascesa, e il pane che poteva garantire il loro avvenire. Tendevano anche ad isolarsi come classe sulla sommità conquistata»].
Il secolo XVI, insomma, nonostante le sue esitazioni o a causa di esse, non ha rimesso in discussione le vere basi della società. In complesso, le accetta e le riceve, già pronte, dalle epoche precedenti; e a sua volta le accetterà il secolo XVII. […] Una nobiltà alle prese con continue difficoltà finanziarie, a cui tuttavia sopravvive; uno Stato moderno che non riesce a compiere la sua missione e a realizzarsi come rivoluzione sociale (si accontenta di compromessi, gioca alla coesistenza); una borghesia che continua a tradire – ma si riconosce forse come patria sociale? – ; infine un popolo inquieto, scontento, agitato e tuttavia privo di una vera coscienza rivoluzionaria».

[…]

«All’epoca di Enrico II, la nobiltà francese importava, ogni anno – così si diceva – capi di abbigliamento per quattro milioni di lire, provenienti dall’Italia. Ma le apparenze non escludono, anzi richiamano le realtà tangibili della potenza, della ricchezza… Su spazi immensi, quelle nobiltà vivono della linfa e delle vigorose radici feudali. Un ordine antico fa capo a quei privilegiati e ancora li sostiene. Le sole eccezioni sono intorno o all’interno delle grandi città, corruttrici delle antiche gerarchie, sono nei centri mercantili (e ancora), nei paesi arricchitisi per tempo, quali i Paesi Bassi e soprattutto l’Italia, ma non tutta l’Italia.
E queste eccezioni? Punti minuscoli, zone ristrette. Su scala mediterranea ed europea, si tratta, evidentemente di una storia minoritaria. Di quel vasto complesso, possiamo ripetere ciò che diceva Lucien Romier della Francia di Caterina de’ Medici, nella quale tutto diventa chiaro “non appena le viene restituita la sua cornice naturale, un vasto regno semifeudale”. Per ogni dove, lo Stato, rivoluzione sociale (ma appena abbozzata) quanto politica, deve lottare contro “quei possessori di feudi, padroni dei paesi, dei campi, delle strade, guardiani dell’immenso popolo rurale”. Lottare, e cioè venire a patti con essi, dividerli, e anche proteggerli, perché è impossibile tenere in pugno una società senza la complicità di una classe dominante. Lo Stato moderno prende nelle sue mani quello strumento, e se per avventura lo spezzasse, tutto sarebbe da rifare. E creare un ordine sociale non è cosa da poco, tanto più che nessuno, nel secolo XVI, ci pensa seriamente.
Così, nobiltà e feudalità hanno dalla loro il peso delle consuetudini, la forza di posizioni da tempo tenute, per non parlare della relativa debolezza degli stati, o della limitata immaginazione rivoluzionaria del secolo».

[…]

«Nel secolo XVI, la borghesia, legata al commercio e al servizio del re, è sempre sul punto di perdersi. Essa non rischia solo la rovina. Se diventa troppo ricca o ne ha abbastanza dei rischi della vita mercantile, eccola acquistare cariche, rendite, titoli o feudi e lasciarsi tentare dalla vita nobiliare, col suo prestigio e i suoi ozi tranquilli. Al servizio del re si diventa nobili abbastanza rapidamente; anche per questa via, che non esclude le altre, la borghesia si perde. Essa rinnega se stessa, ancor più facilmente perché, nel secolo XVI, il denaro che distingue il ricco dal povero vale già come un pregiudizio di nobiltà. E poi, alla svolta tra il XVI e il XVII, gli affari segnano il passo, respingono i prudenti verso la terra e i suoi valoro sicuri. E la terra è aristocratica per vocazione. «Molti dei principali mercanti fiorentini sparsi per le diverse piazze dell’Europa – racconta il Galluzzi nella Istoria del Granducato di Toscana – secondando il genio del granduca portarono in Toscana i loro fondi per convertirli in terreni, ed applicarsi all’agricoltura; in conseguenza di ciò ritornarono da Londra i Corsini e i Gerini, i Torrigiani da Norimberga e si fecero fiorentini gli Ximénes, mercanti portoghesi, i quali ben volentieri concorsero a covertire in tante terre in Toscana le loro ricchezze…». […] Non è eccessivo parlare di un fallimento della borghesia, a condizione di portarsi abbastanza avanti nel secolo XVII. La borghesia era legata alle città; ora, le città conobbero una serie di crisi politiche, come la rivolta dei Comuneros spagnoli nel 1521, la caduta di Firenze nel 1530. Le libertà cittadine ne soffrirono molto. Poi vennero le crisi economiche; prima transitorie, poi, col secolo XVII, persistenti, esse intaccano profondamente le prosperità della città. Tutto cambia, deve cambiare».

[…]

«Sui poveri la storia getta ben poche luci, ma essi sanno, a modo loro, attirare l’attenzione dei potenti di allora, e di rimbalzo anche la nostra. Disordini, sommosse, rivolte, preoccupante moltiplicarsi di “vagabondi e girovaghi” [“erranti e vagabondi” è la definizione dei consoli e scabini di Marsiglia, che, nel loro consiglio del 2 gennaio 1566, decisero di visitare i quartieri della città per cacciarne tutti quegli oziosi]. Ripetuti colpi di mano di banditi, tanto subbuglio, seppure spesso attutito, rivela la singolare ondata di miseria dello scorcio del secolo XVI, destinata ad aumentare ancora nel secolo successivo. Verso il 1650, probabilmente, quella afflizione collettiva tocca il fondo. Ascoltiamo il diario inedito di G. Baldinucci, da cui abbiamo tratto più di una notizia: nell’aprile 1650, a Firenze la povertà è tale che non è più possibile ascoltare in pace la messa, tanto si è importunati, durante il rito, dai miserabili «ignudi et pieni di scabbia». Tutto, in città, è spaventosamente caro «e le arti non hanno lavoro»; per colmo di sventura, poi, il lunedì di Carnevale, una tempesta ha distrutto olivi, gelsi e altri alberi da frutta…».

[…]

«In realtà, a differenza dell’Europa settentrionale dove le guerre cosiddette di religione mascherano una serie di rivoluzioni sociali a catena, il Mediterraneo del secolo XVI, pur di sangue vivo, vede fallire le sue rivoluzioni. Non certo per non averle messe e rimesse in cantiere. Esso, però, è vittima di una sorta di stregoneria. Forse perché le città furono presto smantellate, lo Stato forte ebbe la vocazione irresistibile del gendarme? Il risultato in ogni caso, è chiaro: si potrebbe immaginare un enorme libro dove disordini, sommosse, assassini, misure poliziesche, rivolte si succedono e raccontano una perpetua e molteplice tensione sociale. Alla fine, però, non esplode niente. Il libro delle rivoluzioni del Mediterraneo è enorme, ma i capitoli non sono legati assieme e il libro stesso, in fondo, suscita dubbi. Merita forse solo il suo titolo?
Questi disordini, infatti, avvengono ogni anno, ogni giorno, come semplici incidenti stradali cui nessuno più bada, né gli autori, né le vittime, né i testimoni, né i cronisti, né gli stessi stati. Tutti sembrano rassegnati a questi incidenti endemici, tanto al banditismo catalano, quanto a quello di Calabria o a quello degli Abruzzi. Ora, per un fatto citato, dieci, cento ci sfuggono, e certi sfuggiranno sempre. I più importanti sono inoltre così piccoli, così poco chiari, così difficili da interpretare. Che cosa fu veramente la rivolta di Terranova in Sicilia nel 1516? Quale posto dare alla cosiddetta rivolta protestante di Napoli nel 1561-62, occasione di una spedizione punitiva delle autorità spagnole contro Valdesi della montagna calabrese: alcune centinaia di uomini sgozzati come bestie? O la stessa guerra di Corsica, per tutta la sua durata (1564-1569) e la guerra di Granada, verso la fine, entrambe decomposte in episodi indecisi, guerre della miseria ancor più che guerre straniere o religiose? Che cosa veramente sappiamo sui torbidi di Palermo nel 1560, sulle cospirazioni degli “eretici” contro il duca di Mantova nel 1569? Nel 1571 i sudditi del duca di Urbino si sollevarono contro le esazioni del loro signore, Francesco Maria della Rovere; ma l’episodio è poco noto, di difficile spiegazione; il ducato d’Urbino è terra di soldati mercenari; allora chi tira le fila? La crisi interna di Genova nel 1575-76 è appena più chiara. La jacquerie dei contadini insorti in Provenza nel 1579 (i Razas), la presa del castello di Villeneuve e il massacro del signore del luogo, Claude de Villeneuve, si perdono nella complicata trama delle guerre di religione francesi al pari di molti torbidi sociali. […] Nel 1589 si erano ribellati i sudditi del duca di Piombino, sulla costa toscana. L’insurrezione calabrese nel 1599, occasione dell’arresto di Campanella, fu soltanto un grosso fatto di cronaca. Numerose anche le rivolte che si notano nell’impero turco dal 1590 al 1600, senza contare le sollevazioni endemiche di arabi e di nomadi in Africa del nord o nell’Egitto, sollevazioni abbastanza vigorose di Yazigi, lo “scrittore”, e dei suoi partigiani nell’Asia Minore, nelle quali la cristianità pose speranze eccessive; moti di contadini serbi nel 1594 nel Banato, nel 1595 nella Bosnia ed Erzegovina, nel 1597 di nuovo nell’Erzegovina. Se a quest’elenco incompletissimo aggiungiamo di colpo la massa fantastica dei fatti di cronaca relativi al brigantaggio, non avremo un libro, ma un’enorme collezioni di racconti… Sì, d’accordo: ma quegli incidenti, quegli infortuni, quel nugolo di fatti di cronaca costituiscono forse la trama di una storia sociale valida, che, in mancanza di altra espressione, parlerebbe quella lingua confusa, goffa, forse ingannevole? Si tratta dunque di una coerente testimonianza in profondità? Questo è il problema. Rispondere di sì, come facciamo noi, significa accettare corrispondenze, regolarità, movimenti d’assieme, là dove, a un primo sguardo, non c’è che incoerenza, anarchia, assurdità evidente. Significa ammettere, per esempio, che Napoli “dove si ruba e si incrociano le spade (quotidianamente) fin dalla prima ora della notte” sia teatro di un’interminabile guerra sociale, in cui il delitto puro non ha, né può avere la parte principale. Significa ammettere la stessa cosa per la Parigi della primavere del 1588, ormai politicamente – anche socialmente – fanatizzata. […] Guerra sociale, dunque crudele e a buon mercato, che fa leva su passioni e antinomie profonde. Ora, tutti quei fatti di cronaca di cui parlavamo portano a loro volta il segno di crudeltà sempre all’erta, dall’una come dall’altra parte. I crimini agrari che cominciano attorno a Venezia all’inizio del secolo sono spietati quanto le repressioni che vi tengono dietro. I cronisti, o chi consegna quei fatti nei registri pubblici sono, di necessità, contrari a quei fautori di disordini, di cui danno, regolarmente, un ritratto denigratorio. […] La ferocia degli atti commessi e della repressione – questi segni dunque, restituiscono autenticità a quei fatti di cronaca, danno ad essi un senso dell’interminabile rivoluzione larvata che caratterizza tutto il secolo XVI e poi tutto il XVII».

[…]

«Questo gioco di guardie e ladri, di città oneste e di vagabondi non ha principio né fine. È uno spettacolo permanente, una struttura. Una retata, e tutto ritorna calmo, poi le rapine, gli assalti ai viandanti, gli omicidi si moltiplicano. Nell’aprile 1585, a Venezia, minaccia d’intervenire il Consiglio dei Dieci. Nel luglio 1606 a Napoli tornano a esserci troppi delitti: sono allora operate perquisizioni notturne in alberghi e locande, nel corso delle quali vengono fatti 400 arresti, tra cui molti soldati delle Fiandre “avvantaggiati” e cioè “superpagati”. Nel marzo 1590 “li vagabondi, zingari, sgherri e bravazzi” sono cacciati da Roma con otto giorni di tempo. […] In tutta l’Europa, troppo popolata per le sue risorse, non più animata da un espansivo impulso economico compensatore, e anche in Turchia, si prepara la pauperizzazione di notevoli masse di uomini, tormentati dal bisogno del pane quotidiano: l’umanità che sta per precipitarsi negli atroci conflitti della guerra dei trent’anni, quella che Challot, testimonio implacabile, ritrarrà nelle sue incisioni, e di cui Grimmelshausen è il cronista troppo fedele».


Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi, volume II, 1976, capitolo V, Le Società.










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24 aprile 2018

«Montagne 360» - aprile 2018




In questo numero di aprile non poteva non essere presente una sezione fotografica dedicata al risveglio della primavera in montagna. Gli scatti di Fabio Beconcini, di professione infermiere caposala e iscritto alla sezione Cai di Pontedera, ci guidano con poesia alla scoperta di una natura appartata e di magnetica bellezza. Dalla rara orchidea dei Monti Pisani agli asfodeli del Monte Croce, ai crochi del Matanna sulle Alpi Apuane entriamo in un paesaggio incantato, di certo meno noto rispetto ad altri itinerari più facili da vendere e pubblicizzare, ma perciò ancor più capace di sprigionare un fascino arcaico.


Ampio spazio è quindi dedicato alla letteratura di montagna a partire dall’aggiornamento sullo stato del patrimonio documentario della Biblioteca Nazionale del Cai (Torino). Incontriamo poi nell’intervista a firma di Lorenza Giuliani il percorso narrativo di Antonio Bortoluzzi, scrittore originario del bellunese, il cui ultimo romanzo Paesi alti, ha ottenuto un ampio consenso, vincendo il Premio Gambrinus per la sezione montagna, cultura e civiltà. La scrittura di Bortoluzzi vanta ormai numerosi riconoscimenti in alcune tra le più importanti rassegne italiane – finalista al Premio Cortina d’Ampezzo 2016, vincitore del Dolomiti Awards 2016, finalista per due edizioni al Premio Italo Calvino – è attualmente membro accademico del Gism (Gruppo italiano scrittori di montagna).

Prosegue l’omaggio a Bianca di Beaco, voce femminile dell’alpinismo, scrittrice, geologa, donna animata da moltissimi interessi culturali e soprattutto da un’umanità che ha saputo trasfondere nelle sue numerose attività legate alla montagna. Se ne ricorda il messaggio in queste sue parole: «Alpinista sì, ma nel senso che vado a farmi abbracciare dai monti, vado ad abbracciare gli alberi, vado per i prati… È un alpinismo strano: quando mi domandano “che attività hai fatto?”, io in genere non lo so; o meglio lo so per ricordi, sensazioni, emozioni, più che per le salite, tant’è vero che queste non le ho mai segnate: non ho mai avuto uno spirito dell’attività, ancor meno della ricerca di primati».
Di questi “sentimenti verticali” ci parla anche la collana “Passi”, frutto della collaborazione del Cai con l’editore Ponte alle Grazie, ora al terzo volume in uscita, che con la Montagna vivente divulga in Italia il diario intimista della scozzese Nan Shepherd (1893-1981). 

Non mancano infine gli approfondimenti legati alla storia della montagna, al clima e alle imprese che si sono avvicendate sulla lunghissima e avventurosa via alle cime. Nel dare notizia di una ripresa intensiva dell’attività vulcanica lungo tutta la cintura di fuoco a partire dallo scorso inverno, si ipotizza un possibile nuovo raffreddamento delle temperature sulla terra. Cosa tutta da verificare e di cui solo il tempo potrà dare conferma. Che una piccola immediata conseguenza sia da registrarsi nelle abbondanti nevicate sulle Alpi marittime, condizione durata fino a questa primavera? Proprio di recente una contadina del cuneese commentando il fenomeno dell’innevamento eccezionale mi ha detto: «È cambiato qualcosa». Sesto senso dei montanari? È un fatto che le eruzioni influiscano su dinamiche e composizione dell’atmosfera. Nel 1815 l’eruzione del vulcano Tambora provocò il cosiddetto “anno senza estate” al quale seguì un calo delle temperature e una vera e propria piccola glaciazione. In precedenza qualcosa di simile, e con effetti ancor più estesi, avvenne tra il XVI e il XVII secolo. L’irrigidimento del clima a partire dal 1570 è al centro di un libro molto dibattuto fin dalla sua comparsa nel 2017, Il primo inverno del giornalista e saggista tedesco Philipp Blom, ora edito da Marsilio. Contestato da diversi storici del clima che vi hanno ravvisato inesattezze nella descrizione degli eventi atmosferici e cronologie imprecise, è la testimonianza di quanto l’argomento sia al centro di una vivace discussione tra gli addetti ai lavori.
Chiudo segnalando la bella rassegna dedicata alle primitive attrezzature di montagna, all’avventurosa vicenda  della loro messa a punto, una storia fatta di artigiani e gente che aveva voglia di osare. Con le suggestive foto d’epoca del Museo Nazionale della Montagna di Torino si va all’indietro, risalendo alla testimonianza di storici e geografi antichi, da Strabone, passando per Teofane di Mitilene, che a proposito delle guerre contro Mitridate ci descrivono i montanari del Caucaso attrezzati con le prime scarpe chiodate di cui si abbia notizia.
C’è infine da porre l’attenzione su un’importante iniziativa che riguarda lo sviluppo sostenibile. Tracciata nelle sue direttive dall’Onu, in ballo c’è l’attuazione degli obiettivi messi in agenda da questo organismo entro il 2030, chiedendo un impegno sostanziale alle forze politiche e l’orientamento deciso, in Italia e nei paesi aderenti, delle future strategie di governo. Il Cai è membro attivo dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis) che attualmente raccoglie centottanta aderenti, costituendo la più grande rete di organizzazioni della Società civile mai creata nel nostro paese.
Desidero divulgare anche qui i dieci punti dell’appello rivolto dall’Asvis alle forze politiche. Si tratta di un impegno che il prossimo governo, al di là delle singole appartenenze di partito, abbia cura di far valere, considerandolo tra le priorità del suo programma:

1. Inserire nella Costituzione il principio dello sviluppo sostenibile, come già fatto da diversi paesi europei.
2. Dare attuazione a una efficace strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile orientata al pieno raggiungimento dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030, da realizzare con un forte coordinamento della Presidenza del Consiglio.
3. Promuovere la costituzione, all’interno del futuro parlamento, di un intergruppo per lo sviluppo sostenibile.
4. Rispettare gli accordi di Parigi per la lotta ai cambiamenti climatici e ratificare al più presto le convenzioni e i protocolli internazionali già firmati dall’Italia sulle altre tematiche che riguardano lo sviluppo sostenibile.
5. Trasformare il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) in Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile, così da orientare a questo scopo gli investimenti pubblici.
6. Definire una strategia nazionale per realizzare un’agenda urbana per lo sviluppo sostenibile che si affianchi a quella già esistente per le aree interne, rilanciando il Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane.
7. Istituire, nell’ambito della Presidenza del Consiglio, un organismo permanente per la concertazione con la società civile delle politiche a favore della parità di genere.
8. Coinvolgere la Conferenza Unificata per coordinare le azioni a favore dello sviluppo sostenibile di competenza dello Stato, delle Regioni e dei Comuni.
9. Raggiungere entro il 2025 una quota dell’aiuto pubblico allo sviluppo pari allo 0,7% del reddito nazionale lordo, coerentemente con gli impegni assunti dall’Italia di fronte alle Nazioni Unite.
10. Operare affinché l’Unione Europea metta l’impegno per attuare l’agenda 2030 al centro della sua nuova strategia di medio termine.


(Di Claudia Ciardi)       

19 aprile 2018

Non tradite le parole




L’infinito di Giacomo Leopardi in greco



È una riflessione che ho in animo da tempo. L’articolo di Edoardo Boncinelli uscito su «La lettura» dell’8 aprile 2018 ha contribuito a ricordarmene l’urgenza. Un ragionamento sulla necessità di non sprecare le parole, di non tradirle, e sulle conseguenze antropologiche derivanti dal quotidiano esercizio al sovvertimento, alla destituzione dei loro confini segnati, ingenerando quella confusa irresolutezza tra ciò che significano e ciò che tendono ad adombrare, troppo spesso sobillato per ottunderle ed estinguerle quasi.
Lo studio delle lingue antiche ha fatto sì che sviluppassi fin dall’adolescenza anticorpi abbastanza efficaci verso certe banalizzazioni linguistiche. È pur vero, però, che il bombardamento di banalità cui siamo sottoposti, scempi verbali e non solo, giacché il linguaggio è veicolo e sismografo di quel che una società ha scelto di divenire, insomma questo coacervo superficialissimo e dissonante, filtra ovunque, anche laddove pensiamo di aver costruito argini sicuri. Mi son chiesta spesso: se io che mi son forzata a studi del genere e ho ascoltato quel che avevano da dirmi le cosiddette lingue “morte” – ma solo nel senso di non esser più parlate da un paio di millenni, eppure vive ancor più della lingua che parliamo adesso – se io stessa fatico a suscitare nelle parole un più autentico spirito, legante del linguaggio, come possono altri cui manca anche un tale confronto? Una lingua morta oggi ha più facilità di riconciliarci con un uso verbale coerente e onesto, di quanto non vi riesca la comunicazione di tutti i giorni.
La risposta che mi son data sulle mie stesse inadeguatezze a fronte degli studi classici, è piuttosto incalzante; anche questi studi risentono, fenomeno inevitabile, dell’epoca in cui son condotti, che da una parte è respingente, se non ostile, alla loro sopravvivenza, processando tutto secondo le categorie dell’inutilità e dell’utilità. Dall’altra, orientata com’è al generale abbassamento del livello culturale, insidia anche chi con encomiabile resilienza queste materie continua a divulgarle. 
No, non son proprio più i tempi degli «studi leggiadri», di Bessarione e dei grandi maestri bizantini venuti in Europa dopo il crollo dell’impero d’oriente, di quella mirabile, incredibile commistione di antico e moderno che prima diede forma al volgare, portato al trionfo dai grandi del Trecento, quindi accompagnandosi alla piena riscoperta del greco religiosamente destinato alla crescita della letteratura, che tra Cinquecento e Ottocento contribuì a scolpire una visione del mondo. Nel bene e nel male non si tratta ormai più di quella cultura certamente elitaria, anzi elitarissima, a sua volta fin troppo settaria, ma che ha anche prodotto nella nostra lingua capolavori eccelsi.
Ai nostri giorni è perfino nata – orrore – la letteratura commerciale dell’antico, definita talentuosa e innovativa da alcuni tra i più prestigiosi organi di stampa occidentali e tradotta addirittura nei templi stessi dell’antico. Come si vede il morbo è in estensione. Perché oggi tutto deve sforzarsi di essere comunicativo. Nei tempi dello sdoganamento di internet sorgono strane figure che si dicono animate da sana e disinteressata divulgazione, in realtà investite, oltre il limite di guardia, da un insano accanimento verso le pratiche comunicative. Nascono i censimenti dei poeti – e quanti bei nomi mancano all’indice – e le poesie attente alla comunicazione, a come dovranno diffondersi e incontrare il gusto del lettore e farsi notare; con l’imbarazzante risultato, non occorre neanche dirlo, di comunicare molto poco. Un Eugenio Montale, un Dino Campana, un Alfonso Gatto, non si son preoccupati di esser comunicabili al di là dei loro versi, eppure son ben lontani dal veder esaurita nella loro opera la potenza di una significazione. E se penso a un personaggio ingombrante e assai più rumoroso come Gabriele D’Annunzio, che molto ha voluto comunicare di sé e dei modi del suo esercizio creativo, non posso comunque fare a meno di considerare l’infinito raccoglimento che è alla base del Notturno e l’intimismo colto dell’Alcyone: entrati di diritto nella letteratura italiana. Possa piacere o no il personaggio, ma nelle sue esternazioni, anche le più ridondanti, vi era una volontà comunicativa ispirata da una visione, che ha anche saputo ritrarsi, quand’era il caso. Nulla a che fare con il rumore di fondo di tanti odierni cosiddetti comunicatori dell’essere illetterati. 
Ho raccolto, saranno passati non più di tre o quattro anni, alcune espressioni che mi è capitato di sentir ripetere con insopportabile frequenza, esempi a mio parere di quello scadimento della lingua, e quindi dell’etica del parlante, che dicevo all’inizio. Le elenco qui brevemente a suffragio del ragionamento che motiva questo scritto.
L’abuso dell’aggettivo epocale. Nelle belle pagine del saggio di Paolo Chiarini sull’espressionismo tedesco suonava storicamente motivato e animato, se vogliamo, da una sua grazia letteraria. Da dopo aver letto questo libro, sarà stata una pura coincidenza, anzi di certo lo è stata, “epocale” divenne quasi tutto. Notai che l’aggettivo era usato con una disinvoltura agghiacciante che ottundeva qualsiasi concetto: anche la passeggiata del cane del vicino aveva in qualche racconto un che di epocale. Il risultato fu, ed è ancora, che mi son quasi vergognata di averlo utilizzato per la recensione di Chiarini e forse per un paio d’altri articoli.
Come tralasciare quindi il sempreverde scontro di civiltà, che torna puntuale nel dibattito oriente-occidente. E un’espressione del genere, non occorre dirlo, non aggiunge nulla al dibattito. Segue a ruota l’ossessione per il populismo, chiave di lettura sempre pronta all’uso e spauracchio di ogni analisi politica. Nella vacuità imperversante delle analisi bisognava inventarsi un riempitivo.
Prima o poi arriva chi si è rimboccato le maniche. Un modo di dire proprio insipido, in senso etimologico. Si è soliti sentirla pronunciare nelle difficoltà che non hanno visto concretarsi alcun aiuto. Dunque, chi fa da sé si rimbocca le maniche, oppure bisogna convincersi che, siccome di aiuto non se ne parla, anche quando sarebbe dovuto, “è necessario rimboccarsi le maniche”. Alter ego dell’italico arrangiarsi; la crisi economica ha inchiodato queste espressioni alla loro misera incapacità senza via d’uscita. Nei tempi attuali, che tu ti rimbocchi le maniche o tu ti arrangi, è sempre abbastanza dura. Ripetuto tante volte, come avviene nel marasma linguistico dell’ora e adesso, diventa sintomatico di un’impotenza collettiva scoraggiante.
Procedo con una memoria personale, un colloquio con un imprenditore orafo e la sua servizievole segretaria, donna di consolidata incompetenza e senza alcuna attitudine per lo stare al pubblico – a questo punto arriva l’altro tipico pensiero maschile, che sussume molte aggiuntive banalità e pregiudizi divulgati dalla nostra cultura “bella donna?”. No, non era una bella donna. Al termine del nostro confronto – cercavo uno sponsor per un’iniziativa culturale – è giunta la conclusione che nulla intendeva concludere: «ma io voglio vedere i risultati!». Questa affermazione ho avuto modo di ascoltarla e soppesarla diverse volte, in contesti apparentemente lontani, e non ha smesso di trasmettermi la sua abbacinante inutilità quando non si ha nulla da argomentare.
Infine poche altre perle di saggezza. L’inflazionatissimo, soprattutto da parte femminile, “mettersi in gioco” – a un certo punto c’è sempre una donna che ha voglia di mettersi in gioco. E quindi? Provate ad ascoltare una qualsiasi trasmissione televisiva, arriverà senza farsi attendere troppo. Sono qui perché mi sono voluta mettere in gioco…E allora? Il fastidio di questa salottiera autodafé sta nel fatto che si tira dietro in automatico la domanda di chi la subisce: e a me che…? Abbiamo poi, in chiusura, il celeberrimo “purtroppo c’è crisi” – lo abbiamo sentito fino allo sfinimento in questi anni di risposte mancate a qualsiasi richiesta – l’isterico “d’altra parte si vive una volta sola”, il gelido e inquietante, per l’associazione che instaura con un’ipotetica pandemia, “è diventato virale”.
Ci sono poi, e anche qui non basterebbe scrivere un manuale, le pseudo dialettiche da social. Una discussione, se mirata all’attacco personale, si svolgerà sempre tirando dentro le stesse identiche argomentazioni – provate a scorrere un qualsiasi alterco tra due utenti: sarai mica permalosa (se fai notare che ti hanno scritto un’imbecillità), vai fuori argomento, denoti debolezza, hai un livello proprio…e poi scattano le offese, perché quello era il proposito (e la provocazione) iniziale, ovviamente.
Aperta questa parentesi sulle peggiorate condizioni della lingua, sui suoi innumerevoli tic, e i limiti culturali e psicologici di una parte consistente degli interlocutori coinvolti, desidero evidenziare un epilogo ulteriore di questo generale scadimento. È una conseguenza ben introdotta a mio avviso dal citato articolo di Boncinelli, quando ci fa presente che nel riferimento, ad esempio, alla parola natura non sappiamo più a che cosa vogliamo richiamarci, e tutto si riduce molto spesso a uno sconcertante guazzabuglio semantico.
La conseguenza, dicevo, altrettanto confusa e pericolosa è la facilità con cui si ricorre nel ragionare agli anestetici. Mi spiego meglio: se alla parola guerra non riesco ad attribuire il senso che la guerra ha effettivamente, ogni discorso contro o a favore è suscettibile di una reazione neutra. Come posso schierarmi se in quello che si afferma non vi è contenuto, contesto, storia, polemica, insomma un vissuto? Mi sono molto arrabbiata leggendo ultimamente certe discussioni sugli aiuti ai terremotati. Secondo alcuni opinionisti parlare di certi problemi è sciacallaggio politico. Al che sono intervenuti alcuni residenti nel cratere sismico, giustamente risentiti – chi più di loro ha diritto di parlare? – sostenendo che la discussione, perfino lo scontro, a livello di istituzioni è vitale e non significa strumentalizzazione. Quel che uccide, direi in generale, è proprio questo anestetico a buon mercato che vuole smussare le opinioni, abbassare i toni ed esser gentile, ma nelle risultanze ha il volto efferato dell’ignoranza e dell’indifferenza. Dire una parola e tradirla, dare una parola e non mantenerla. Sintomo di paralisi culturale, etica ed economica. E di tanta scrittura e letteratura che non sono proprio, neppure lontanamente, né l’una né l’altra.   


(Di Claudia Ciardi)

8 aprile 2018

Filippo de Pisis al Museo Ettore Fico di Torino







Fino al 22 aprile è possibile visitare al Museo Ettore Fico di Torino la mostra dedicata a Filippo de Pisis. Un intenso percorso artistico che mette in luce il variegato cammino del pittore ferrarese, una rassegna ben articolata sul piano delle opere esposte e degli spunti tematici. L’evento conferma l’ottimo livello delle iniziative culturali messe in campo dal capoluogo del Piemonte, centro attrattivo fra i più consolidati in Italia per quantità e qualità dell’offerta. A margine, e neanche tanto, si noti che la collocazione al Mef è un valore aggiunto, essendo un polo espositivo d’eccellenza, bello e da vivere anche per la sua semplicità architettonica, in una zona urbana che sta attraversando una fase di espansione e fermento culturale ulteriore.

De Pisis è artista dalle tante sfaccettature che, partendo dalle esperienze a lui contemporanee di de Chirico, Savinio e dei “metafisici” e allo stesso tempo mostrando fin da giovane la più ampia ed eclettica dedizione allo studio dei grandi maestri del passato – la pittura del Cinquecento e del Seicento veneziano, Tiziano, Tintoretto, Tiepolo e poi molti dei cosiddetti minori, tali solo per convenzione, gli impressionisti, poi studiati in loco durante il soggiorno parigino – crea un linguaggio proprio, fondante, nodale e subito destinato a tracciare rotte inesplorate nel panorama novecentesco.
La sospensione delle nature morte, il perenne incerto a cui sono consegnate, spoglie, ineffabili eppure così compiute, quasi fin troppo credibili nella loro disarmante compiutezza, e l’irraggiamento di infiniti mondi all’orizzonte, qualcosa di conturbante che apre a strani eterni, protesi, liquidi, fuggevoli. Questa dualità stravolta di tempo in decadenza e non tempo, esercita un potere fiabesco sull’osservatore, che si sente sempre trascinato a una soglia metafisica. Ma la mostra ci racconta ancor più lo studio attento, perfino esplorativo se vogliamo, coltivato da de Pisis in diverse direzioni del sapere. Dalla consuetudine con la poesia, che coltivò in proprio ottenendo per i suoi versi anche un certo riconoscimento in Francia, e accresciuto dall’amicizia coi futuristi, con Umberto Saba ed Eugenio Montale, alla musica, alla botanica – fu paziente compilatore di erbari, disegnatore, cercatore di piante per passione. E ancora, collezionista d’arte e di codici miniati, interesse quest’ultimo che gli fece sviluppare tecniche di finissimo decoratore, al punto che i suoi “ritagli da amanuense” sembrano strappati a manoscritti originali.
Infine, il suo studio, il microcosmo dove questi tanti universi paralleli entravano in collisione, cercandosi, contaminandosi. Quello studio ovunque ricreato, angolo salvifico e osservatorio privilegiato in ogni città vissuta; Ferrara, Bologna, Roma, Parigi, Milano, il suo centro radiale, la sua conchiglia pulsante si ritrova intatta ad ogni tappa. L’allestimento torinese consente di toccare con mano questa intimità del processo creativo di de Pisis, di afferrarne le diverse dinamiche e anche di entrare in sintonia con l’artista, tanto le stanze dedicate si aprono allo sguardo come finestre biografiche, non solo complici del fraseggio critico ma ancor più irradiate dal racconto umano.  


(Di Claudia Ciardi)

  
Link utili:




*Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra



Natura morta con libri



Paravento delle tre stagioni



Natura morta con candela



Composizione (Pagliaccio)



Erbario



Miniature


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