Oh Boy - Un caffè a Berlino
di Jan Ole Gerster
Germania, 2012, 83’
Cast: Tom Schilling (als Niko Fischer), Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schuttler, Justus Von Dohnanyi, Andreas Schröders, Arnd Klawitter, Martin Brambach, Frederick Lau, Ulrich Noethen, Michael Gwisdek
Fotografia: Philipp Kirsamer
Montaggio: Anja Siemens
Produzione: Schiwago Film, Chromosom Filmproduktion, Hessischer Rundfunk (HR)
Distribuzione: Academy Two
Esordio alla regia per Jan Ole Gerster che presenta un film brillante, leggero solo all’apparenza, disegnato in un bianco e nero asciutto e pulitissimo, dal quale lo sguardo dello spettatore si sente immediatamente catturato. Dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti in patria (ben sei Premi Lola, gli Oscar tedeschi, nel 2013), la pellicola ha trovato un riscontro più che positivo anche tra il pubblico italiano. Gerster si inserisce a pieno titolo tra i grandi narratori della metropoli da Walter Ruttmann, Friedrich Murnau, Fritz Lang, Karl Freund ai contemporanei Wim Wenders e Hannes Stöhr.
Una Berlino straniante, personaggio statuario e immenso, fa da contraltare alla voce del protagonista Niko Fischer, ex studente di giurisprudenza in crisi di identità, inguaribile perdigiorno che non riesce a darsi alcun obiettivo. La macchina da presa nelle mani di Gerster si trasforma in uno scandaglio che va pizzicando miserie e nobiltà della metropoli, pauroso specchio che invece di riflettere contorce, dea bistrata preposta al rito di una sconvolgente quanto esatta autoanalisi.
A partire dal documentario di Ruttmann del 1927, malinconico epos per immagini di quei “dorati anni Venti” scossi in realtà da innumerevoli contraddizioni e difficoltà, Berlino è il fulcro rappresentativo di una urbanitas letteraria la cui origine Joseph Roth fissa proprio nel confronto tra l’immaginario degli scrittori ebrei tedeschi e la realtà della capitale.
Questo film spinge sui tasti della flânerie, unendo agli espedienti tonali del vagabondaggio in strada, l’esplorazione di uomini e donne in cui il carattere della città ha creato bizzarre forme di adattamento, tutte connotate da una patologica insicurezza, una esasperata propensione al fraintendimento dell’altro e all’errore. In questo mulinare di nevrosi grandi e piccole, si può a momenti perfino compatire l’inadatto Niko Fischer. Attraverso i suoi occhi, ci si sveglia in una ordinaria giornata berlinese. Tempo di mollare la ragazza e accendersi una sigaretta nel tostapane di un appartamento, dove si ammassano soltanto scatoloni, gli eventi prendono subito una piega storta. Dopo aver mentito per due anni filati al padre, Niko si trova ad affrontare un genitore che, informato sui fatti, gli volta le spalle senza troppi giri di parole. Mentre procede nel viaggio, ma sarebbe più corretto dire, mentre il protagonista avanza verso se stesso, la spirale di incontri assume connotati sempre più paradossali.
A scandire i suoi brevi istanti di lucidità, il puro e semplice desiderio di farsi servire un caffè che però non arriva. L’impresa infatti si rivela più difficile del previsto, e proprio attorno a questa ricerca sempre più disperatamente allucinata che procede per un intero giorno, incontrando infine la notte della metropoli, con il suo fosco underground di periferia popolato da comparse erratiche e deliranti, prende campo la metamorfosi del protagonista. L’architettura delle stazioni ferroviarie – luoghi di passaggio, labirinti nel labirinto dell’esistenza – ne veglia il procedere da una meta all’altra, che naturalmente non va secondo un cammino lineare ma avviene in un casuale accostamento di pretesti, i quali alla fine raggiungono un punto critico, spingendolo fuori dall’improvvido e grottesco girovagare. In questi scatti dall’alto, tra binari, scale, pensiline s’intravede una Berlino al rallentatore, molto più pacata e addirittura scarsamente frequentata di come è in realtà. O meglio, vi sono in effetti degli angoli della metropoli in cui ogni presenza pare ritrarsi come un’insolita marea. Gerster lavora esattamente su questi attimi in cui Berlino espira, restando immobile e senza contrazioni. Dalla finestra di casa, Niko osserva il treno, apparizione monitrice del tempo, richiamo al livello della strada, alla discesa nella realtà e quindi, alle scelte che non potranno più essere rimandate. Nessun appiglio si offre per sperare in un riscatto. Niente da fare, Niko non sa andare in fondo alle cose. Nell’angosciante trascinarsi quotidiano mette a segno solo due colpi: un buon tiro al golf, di fronte a un padre in vena di umiliarlo, e una fuga che lo salva da una contravvenzione per non aver timbrato il biglietto. Ma si tratta per l’appunto di due rivincite assolutamente stonate.
L’agognato caffè arriverà in un’alba solitaria, triste e allo stesso tempo liberatoria. La sequenza del risveglio della città è tra le cose più notevoli del film; angoli di strada ancora semideserti, cantieri incustoditi, ammiccanti lanterne che si avviano a spengersi, grattacieli che non suscitano inquietudine ma sprigionano una forza per certi versi rassicurante: la fotografia è essenziale, di un lirismo trascinante proprio per la grazia minimalista che la ispira. Il regista stacca velocemente da una parte all’altra, tentando una rappresentazione corale del respiro della grande città, in cerca di quell’unisono che percorre tutto il racconto e che qui, nell’attimo incantato e ancora incorrotto del nuovo giorno, alla fine riesce a affiorare.
Niko trema di fronte alla tazza che gli è stata servita. Ha appena saputo della morte del suo ultimo compagno di strada, un vecchio saggio, e forse clochard, un santo bevitore incontrato nel cuore della notte, di cui si trova a ascoltare controvoglia i ricordi di un’infanzia berlinese tutt’altro che serena. Epilogo zen. Si esce dalla notte, gettandosi alle spalle un bel po’ di male di vivere e cortocircuiti generazionali, si prova a far pace coi pensieri e con quel buio insopportabile che viene dal dentro più che dal fuori, si prova a imboccare una strada, pur nel dissacrante rovesciamento del vivere contemporaneo.
(Di Claudia Ciardi)
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Berlin calling – La Recherche/ Icaro a Berlino. Tra catabasi e poesia di Claudia Ciardi
«Tributo fin dal titolo al ciclo di poesie della Kolmar sugli stemmi delle città tedesche, cui lo scrittore dedica l’avvio del suo saggio e il denso capitolo conclusivo, tra i più coinvolgenti dell’intera trattazione, questo volume sulla poesia della metropoli intreccia alcune delle voci più rappresentative dell’umore e della cultura berlinesi alle opere degli artisti contemporanei che le accompagnarono, ponendosi in molti casi come loro fonte d’ispirazione.
Franco Buono conduce la sua ricerca seguendo gli sviluppi contemporanei di due potentissimi archetipi mitologici, che esprimono anche una fatale mescolanza di spazio e di tempo, ossia il labirinto e la metamorfosi, alla quale è soggetto chi abbraccia un percorso la cui destinazione appare a un primo sguardo indecifrabile».
«Estate 1882. Carl e Felicie Bernstein ritornano a Berlino da Parigi con un gruppo di opere pittoriche di impressionisti. I Bernstein, emigrati nella metropoli tedesca dalla Russia, avevano acquistato tele di Manet, Monet, Sisley e Pissarro. Questi lavori formano il cuore della prima collezione di arte impressionista a Berlino. La casa dei Bernstein era il luogo di un salone settimanale, frequentato da artisti quali Adolph Menzel, Max Klinger e Max Liebermann, e da storici e critici come Theodor Mommsen e Georg Brandes. Un anno più tardi, nell’ottobre 1883, l’ampio pubblico ebbe l’opportunità di vedere queste pitture, essendo incluse in un’esposizione di impressionisti alla Galerie Fritz Gurlitt di Berlino».
«Opera del ’74, in questo film Wenders si cimenta in una narrazione doppia. Da una parte c’è il viaggio dei protagonisti che è tuttavia un divagare senza meta, il quale, invece di apportare un progresso, produce perdita e alienazione; dall’altra c’è una scrittura che affiora proprio dalle immagini del movimento di cose e persone, rivelando specularmente la sagoma più intimista del racconto. Falso movimento è l’ars poetica di Wenders, il lavoro dove con la maggiore incisività viene formulata la domanda di fondo che percorre l’intera sua produzione, ossia come possa la tecnica cinematografica definire la falsità caratteriale che ispira il movimento cinema. Ritmicità quasi ossessiva, quella con cui i mezzi di spostamento e comunicazione sono rappresentati sulla scena, già peraltro fotografati nel ruvido espressionismo della metropoli contemporanea in Alice nelle città».
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