6 luglio 2012

Piranesi in Berlin


Giovanni Battista Piranesi tra Roma e Berlino

Piranesi: Carceri

Berlin. Sammlung Scharf-Gerstenberg. Surreale Welten 

Giovanni Battista Piranesi si potrebbe definire un flâneur ante litteram. Nelle sue ricognizioni tra le antichità romane sperimentò infatti quel gusto per l'esplorazione e quell'attitudine a cogliere lo spirito della città, attraverso l'incontro sul campo con le testimonianze del passato, che fino ad allora in pochi erano riusciti a far riemergere. Nessuno certo con la passione e il rigore scientifico che Piranesi mostrò nella sua opera. Desiderio di sottrarre i resti dell’antichità all’azione del tempo e straordinaria capacità di ‘fotografare’ lo spazio contribuirono insieme alla creazione di un disegno di altissima genuinità estetica, nel quale il tratto originale e infaticabile dello studioso si fonde con la forza immaginativa dell’artista.
Non pochi pittori e letterati ne subirono il fascino visionario. Il «sublime sogno di Piranesi», come l’intellettuale Horace Walpole efficacemente sintetizzò la dimensione liminale e straordinaria rispetto alla realtà in cui si aggirava il tratto dell’artista italiano, corre lungo le nervature del romanticismo, mostrando scopertamente un’affinità piena con l’umore dello Sturm und Drang e tenendo a battesimo il genere ‘gotico’, nella scrittura e nell’arte. Né è forzato individuare un momento di questo ‘sogno piranesiano’ nelle agitate e fantastiche periferie delle avanguardie espressioniste. Pensiamo alla metropoli tra incubo e rito iniziatico delle tavole di Frans Masereel o alle fioriture mitologiche e demoniache sulle architetture urbane di Heinrich Kley.
A preparare lo sfondo del sogno e a favorire la lunga durata di questo immaginario, può aver contribuito il genere cosiddetto dei capricci, molto diffuso in ambito veneto, che Piranesi ebbe modo di approfondire alla bottega del Tiepolo, un genere nel quale predomina il tema delle rovine associato al senso di angoscia per il trascorrere del tempo, dove si stabilisce un intreccio surreale tra antichità e modernità. Del resto anche certe riflessioni sulla libertà di cui l’espressione artistica è veicolo e la genialità che contraddistingue l’artista e il suo modus operandi, istanze care a Piranesi che andavano affermandosi nel dibattito sull’arte della seconda metà del Settecento, e che si sarebbero sviluppate a pieno nel secolo successivo, si riaffacciano nei movimenti d’avanguardia del Novecento, particolarmente proprio nella tormentata rivolta creativa che alimenta la densa corrente espressionista e i suoi frastagliati arcipelaghi. Si tratta soprattutto di uno slancio al di là del mondo fenomenico, uno sguardo gettato lungo i confini della realtà, quasi a volerne registrare tensioni e incrinature, in grado di raccontare una versione più articolata e meno scontata di quanto ci circonda e ci osserva a sua volta; l’arte espressionista recupera esattamente questo pathos attraverso il quale si tenta di entrare in contatto con la cifra metafisica iscritta in ogni fenomeno.  
A Berlino, presso il Sammlung Scharf-Gerstenberg, è possibile confrontarsi con la creatività di Piranesi e con i mondi fantastici di una serie di pittori, disegnatori, acquarellisti da Goya al Novecento, in un percorso ispirato alle suggestioni surreali che concorrono per vie sotterranee a declinare il linguaggio artistico. Alla luce della nostra premessa e dei temi che abbiamo individuato, quali nuclei essenziali della poetica piranesiana, non stupisce la presenza dell’artista italiano nel contesto della collezione di Berlino, luogo centrale per l'indagine dei moderni ritrattisti dello spirito della metropoli. 
(Di Claudia Ciardi)
Fonte/ Quelle: Wikipedia.de
Die Sammlung Scharf-Gerstenberg ist ein Kunstmuseum im Berliner Ortsteil Charlottenburg. Es zeigt seit Juli 2008 Kunst von der französischen Romantik bis zum Surrealismus. Die Sammlung mit Gemälden, Grafiken und Skulpturen aus dem Besitz der „Stiftung Sammlung Dieter Scharf zur Erinnerung an Otto Gerstenberg“ ist zunächst leihweise für zehn Jahre in den ehemaligen Räumen des Ägyptischen Museums beheimatet und gehört zur Nationalgalerie Berlin.
   
Das Museum zeigt Werke der "Stiftung Sammlung Dieter Scharf zur Erinnerung an Otto Gerstenberg". Otto Gerstenberg war Anfang des 20. Jahrhunderts einer der bedeutendsten Kunstsammler in Berlin. Seine Sammlung wurde teilweise im Krieg zerstört. Andere Teile der Sammlung befinden sich als sogenannte ‚Beutekunst‘ in russischen Museen. Von den in Familienbesitz verbliebenen Kunstwerken erbte sein Enkel Dieter Scharf (1926–2001) eine Sammlung von Grafiken, die den Grundstock für seine eigene Sammlertätigkeit bildete. Kurz vor seinem Tod wandelte Scharf diese Sammlung, die bereits im Jahr 2000 unter dem Titel „Surreale Welten“ in Berlin zu sehen war, in eine Stiftung um. Zunächst ist zwischen der Stiftung und den Staatlichen Museen zu Berlin ein auf zehn Jahre befristeter Dauerleihvertrag vereinbart worden. Die Stiftung Preußischer Kulturbesitz stellt der „Stiftung Sammlung Dieter Scharf zur Erinnerung an Otto Gerstenberg“ hierfür den östlichen Stülerbau in Charlottenburg zur Verfügung.

Die Sammlung Scharf-Gerstenberg befindet sich in der Schloßstraße 70 gegenüber dem heutigen Museum Berggruen (westlicher Stülerbau). Beide Gebäude sind durch den Spandauer Damm vom Schloss Charlottenburg getrennt. Sie gehen zurück auf Entwürfe des preußischen Königs Friedrich Wilhelms IV, die in den Jahren 1851–1859 vom Architekten Friedrich August Stüler umgesetzt wurden. Beide Stülerbauten dienten ursprünglich als Offiziers-Kasernen des Garde du Corps-Regiments. Dem östlichen Stülerbau schließt sich das 1855–1858 von Wilhelm Drewitz errichtete ehemalige Marstall-Gebäude an. Von 1967 bis 2005 dienten der östliche Stülerbau zusammen mit dem Marstall-Gebäude als Ägyptisches Museum. Die Gebäude wurden von 2005 bis 2008 für die künftige Nutzung als Museum Scharf-Gerstenberg unter der Leitung des Architekten Gregor Sunder-Plassmann für zehn Millionen Euro umgebaut.

Zu den Werken der „Stiftung Sammlung Dieter Scharf zur Erinnerung an Otto Gerstenberg“ die Dieter Scharf aus der Sammlung seines Großvaters erbte, gehören Grafiken von Giovanni Battista Piranesi, Francisco de Goya, Charles Meryon, Victor Hugo, Édouard Manet und Max Klinger. Die Arbeiten dieser Künstler bildeten für Dieter Scharf die Grundlage für den Aufbau einer Sammlung des Symbolismus und Surrealismus.
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Da Piranesi, a cura di Orietta Rossi Pinelli,
«ArteDossier» n. 186
Quote. Pages: 8, 9, 10, 11, 13, 14, 15, 16, 17, 33, 34 
«Giunto a Roma, Piranesi colse, fin da principio, la potente vitalità di una città ancora fortemente segnata da un tessuto urbano medievale, ribollente crocevia delle stratificazioni tra le più dissonanti, incrocio di lucente modernità e fatiscente vecchiezza, di miseria e splendore. I suoi occhi seppero vedere una città come nessuno aveva mai saputo fare prima e da questa capacità scaturì la ricchezza e l’intelligenza della sua produzione.
Inutile dire che a Roma, introdotto dal suo potente protettore, l’ambasciatore veneziano Francesco Venier, Giovanni Battista ebbe modo di entrare in contatto con gli artisti e gli intellettuali più significativi residenti in città. Frequentò per esempio monsignor Giovanni Bottari, bibliotecario della famiglia Corsini e poi del Vaticano, principale esponente del gruppo di archeologi e di studiosi romani, sostenitore di una riforma spirituale di ascendenza giansenista. All’epoca, il filone classicista (o rigorista), da un lato, e la cultura barocca dall’altro seguitavano ad affrontarsi, nella capitale pontificia, senza vincitori né vinti. Piranesi occupò i primi tempi del suo soggiorno in una instancabile e capillare ricognizione della città. Non riuscendo a trovare credito come architetto, ripiegò sull’opportunità di entrare nella bottega dell’incisore di vedute Giuseppe Vasi, presso il quale imparò importanti nozioni di tecnica e cominciò a incidere piccole vedute per editori romani.
Rientrò quindi brevemente a Venezia ma l’interesse per Roma era più forte delle difficoltà ivi incontrate sul piano lavorativo. Nel 1743 Piranesi era ormai in grado di pubblicare la sua prima raccolta di incisioni nella quale impostava le coordinate del suo lavoro a venire: Prima parte di architetture e prospettive […], una serie di disegni densi di immaginazione dai quali emerse tutto il suo ricco bagaglio formativo, dalla tecnica dei Bibiena, alla irruenza immaginativa del testo di Fischer von Erlach, all’impaginato dei vedutisti. Ancora qualche incertezza la presentava unicamente il segno, che solo in alcune tavole si rivela sciolto, a volte sfrangiato, ma tuttavia carico di suggestioni e potenzialità evocative.
Il secondo soggiorno veneziano di Piranesi (tra il 1743 e il 1744), pur non essendo molto documentato, fu importante per la messa a punto di alcuni aspetti sia tecnici che teorici della sua arte. Pare che Giovanni Battista abbia allora avuto modo di frequentare la bottega di un maestro come Tiepolo che, oltre alla consistente produzione di grandi tele e imponenti cicli di affreschi, era anche ricercato come raffinatissimo disegnatore e incisore. Questi si era specializzato nel genere dei “capricci”, molto diffuso in ambito veneto, in cui ricorreva il tema delle rovine e dell’inesorabile trascorrere del tempo. Tornato a Roma, Piranesi aprì una bottega in via del Corso, davanti all’Accademia di Francia in palazzo Mancini, e proseguì il suo lavoro di incisore di vedute.
[…] Accettando quindi le difficoltà ad affermarsi come realizzatore di monumenti, Piranesi sostenne con determinazione la volontà di lasciare un segno nell’arte a cui si sentiva votato, servendosi di un mezzo normalmente utilizzato dai pittori e dagli scultori: il disegno. Il disegno era tradizionalmente considerato il livello più alto del fare arte in quanto diretta espressione dell’ “idea”, del progetto artistico, prima che questo venisse poi tradotto in un elaborato più complesso. Piranesi non fallì i suoi obiettivi; infatti intorno a lui gravitarono moltissimi architetti, provenienti da tutta Europa, sedotti dalla sua immaginazione visionaria e dalla sua sofisticata cultura teorica. Inoltre, quella scelta indotta da una necessità si rivelò per lui estremamente remunerativa, perché mai come nel XVIII secolo le stampe godettero del favore di un pubblico tanto vasto e differenziato. E forse mai come allora l’immagine di Roma, per di più distillata con tale sapienza, cultura e sentimento, fu in grado di richiamare l’attenzione delle persone colte di tutta Europa. Nel 1767 un altro grande architetto del Settecento, Vanvitelli, ricorda in una lettera al fratello il successo economico di Giovanni Battista: «Questo Piranesi si è arricchito sopra centomila scudi e si farà una borsa grossissima, tutto parto delle sue fatiche e del suo talento, per cui ha acquistato fama in ogni parte».
[…] In quegli stessi anni Piranesi lavorava alla prima edizione di Invenzioni Capricci di carceri all’acquaforte date in luce da Giovanni Buzard in Roma mercante al Corso (1745).
Il secondo stato vedrà la luce solo nel 1761 con un titolo cambiato in Carceri d’invenzione di G. Battista Piranesi Archit. Vene. Si tratta della serie di stampe certamente più celebre dell’artista; quella che ha mantenuto viva l’attenzione su di lui anche in periodi in cui la cultura del Settecento nel suo complesso non veniva recepita se non come una forma di decadenza di scarso rilievo. Alle prime tavole l’artista lavorò a Venezia, poi seguitò a Roma. Il segno è rinnovato, rispetto ai precedenti lavori; è esaltato il nitore della carta, che entra in gioco come colore, e il bulino acquista la leggerezza e la fluidità della penna. Abbandonati i tratteggi incrociati della più consolidata tradizione, Piranesi esaltò la fluidità e la ricchezza dei segni paralleli, spezzati, ondeggianti, arabescati. Nel desiderio di rintracciare le matrici di quest’opera eccentrica, non si può sottovalutare il legame tra l’invenzione delle Carceri e l’immaginario legato alla scenografia contemporanea, cioè la conoscenza delle sofisticate tecniche illusionistiche che gli ultimi due secoli di cultura figurativa italiana avevano raffinato e distillato con infinite sfumature. La fuga di scale sospese nel vuoto che portano in nessun luogo, mentre da un lato esaltano la incombente perpendicolarità delle strutture murarie, la serie di archi e ponti che moltiplicano gli spazi pur confermandone l’atmosfera oppressiva, creano immagini allucinate che si reggono teoricamente proprio per l’eccellente padronanza delle regole prospettiche sperimentate da Piranesi come scenografo. Affiora anche la memoria dell’Arsenale veneziano in quella sovrabbondante, sinistra presenza di cordami, pulegge, catene, massicci anelli di ferro impiantati nei muri. La tradizione del genere dei “capricci”, a sua volta, può aver alimentato quell’incerto equilibrio, quell’ambiguità costante tra antichità, modernità e surrealtà. Il tema è ossessivamente insistito, la scena è in fondo sempre una sola: un vastissimo ambiente di indefinita ubicazione, chiuso da mura possenti e tetre, percorso e scandito dalle più inverosimili strutture architettoniche. Nonostante il soggetto e la forte componente visionaria, questi rami interpretano la quintessenza della cultura illuminista. Una cultura decisamente aperta alla ricerca sperimentale, disciplinata da un ineludibile ricorso alle tecniche più raffinate e, allo stesso tempo, improntata dalla convinzione che la ragione sia soprattutto uno straordinario “strumento laico”, in grado di consentire la conoscenza e sperimentare il mondo fenomenico nel suo inestricabile miscuglio di luci e oscurità.
L’edizione delle Carceri del 1761, arricchita di due tavole nuove (da tredici a quindici), fu molto rilavorata rispetto alla prima stesura. Nella seconda versione della raccolta il tratteggio è molto più disteso, per ottenere una più ricca inchiostrazione e ridurre le zone luminose. Piranesi ha anche inserito figurine gesticolanti per esasperare l’atmosfera inquieta che incombe in ogni scena e accentuare l’immensità dei luoghi. Le Carceri hanno scatenato, nel corso del tempo, l’immaginazione e le interpretazioni più appassionate, e non solo da parte di architetti o studiosi di arte ma anche da parte di molti letterati, a cominciare dai contemporanei dell’autore. Lo stesso genere del “romanzo gotico”, che si fa risalire al lord inglese Horace Walpole (Londra 1717-1798), saggista, romanziere, storico, editore, antiquario, collezionista e perfino architetto, arbitro della cultura visiva britannica in pieno Settecento, ebbe origine da un “sogno” piranesiano. Horace Walpole pubblicò infatti nel 1764 la prima versione (ancora anonima) del Castello di Otranto e la prima scena del romanzo è chiaramente ispirata a un’acquaforte della seconda edizione delle Carceri, lo Scalone con trofei (Carcere VIII). Walpole amava immensamente le stampe di Piranesi e negli Anecdotes of Painting in England (1771) scrisse del loro autore in termini lusinghieri: «Il sublime sogno di Piranesi, il quale sembra aver concepito visioni di Roma che oltrepassano ciò che è la sua gloria e vanto financo all’apogeo del suo splendore. Selvaggio come Salvator Rosa, fiero come Michelangelo, esuberante come Rubens, egli ha immaginato scene che confonderebbero la geometria, scene impensabili perfino nelle Indie. Egli costruisce palazzi sopra ponti, e templi sui palazzi, e scala il cielo con montagne di edifici. Eppure quale gusto nella sua audacia! Che travaglio e riflessione nell’impetuosità del suo tocco come nei dettagli.»
Piranesi aveva avuto il merito, agli occhi di molti artisti europei, di coniugare la scienza, in quanto adesione al mondo del reale, al sublime, uno dei più apprezzati impulsi al piacere emotivo, uno dei più importanti nodi estetici per tutta la seconda metà del XVIII secolo. La teoria del sublime legata all’antico trattato dello pseudo-Longino (Del Sublime), tradotto in francese nel 1674 da Boileau, aveva trovato terreno favorevole in Gran Bretagna attraverso le definizioni di Addison e quindi l’ampliamento a categoria psicologica nella filosofia di Locke e di Hume, fino alla cristallina sintesi nelle pagine dell’Inchiesta sul Bello e il Sublime di Edmond Burke, del 1756 (A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and the Beautiful). Burke sosteneva che le passioni che riguardano l’autoconservazione e che si riferiscono principalmente al dolore o al pericolo «sono le più forti di tutte le passioni» e che il sublime è la più forte emozione che l’animo sia in grado di sentire; «Tutto ciò che richiama l’anima in se stessa, tende a concentrare le sue forze e a renderla capace di più grandi e vigorosi voli di scienza.» L’estetica del sublime celebrava l’immaginazione, la sensibilità, in ultima istanza il “genio”. Tra le maggiori situazioni in grado di provocare il sentimento del sublime, Burke annoverava l’oscurità, la potenza, la vastità, l’infinità, il silenzio. Quelli di pieno Settecento sono stati anni ricchi di umori favorevoli alla diffusione di affetti carichi di pathos. Kant scrisse nel 1764 un trattatello sul sublime (Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime), il movimento letterario dello Sturm und Drang conquistò il mondo germanico e lambì pressoché ogni paese del Vecchio continente. Il sentimento dell’infinito riempiva le menti di quella sorta di «delizioso orrore che era l’effetto più genuino e la prova più autentica del sublime.» “Il sublime sogno di Piranesi”, le terribili visioni delle Carceri trovarono risonanze non solo nell’opera di Walpole ma anche in quella di altri intellettuali, dal britannico William Beckford, che situava la trama del suo Vathek (1784) in vasti sotterranei che riecheggiano anch’essi le sinistre, grandiose atmosfere delle Carceri, al letterato francese del successivo periodo romantico De Quincey, nelle sue Confessioni di un mangiatore d’oppio (1821), fino a Coleridge (1772-1834), le cui reminescenze vennero riportate dallo stesso De Quincey, e ancora a Victor Hugo (1802-1885), sia nelle sue tenebrose incisioni come nelle atmosfere di molti dei suoi romanzi. «Il visionario incontrava il visionario», scrisse Marguerite Yourcenar dell’affinità tra due pur lontanissimi artisti come Hugo e Piranesi. E poi tanti altri artisti furono influenzati dalle invenzioni piranesiane, da Baudelaire a Proust a Melville. Pur non abbandonando mai una chiave decisamente soggettiva, tuttavia Piranesi non fu sempre un interprete visionario della città che andava appassionatamente analizzando. A cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del XVIII secolo pubblicò infatti una serie di opere per lo più a carattere monografico, con un preminente interesse documentario.
[…] L’opera che consacrò definitivamente Piranesi nell’ambiente romano uscì nel 1756; si tratta di un’opera composta di ben quattro volumi intitolati Le antichità romane, riedite postume nel 1784.
[…] L’antiquario aveva rovine e fonti letterarie su cui agire. «Le rovine sono come relitti di un naufragio che, con il susseguirsi degli anni e dei rivolgimenti politici, sono riusciti a sfuggire alla voracità del Tempo e allo zelo della gente inesperta, un danno questo anche peggiore. La riscoperta di quanto la memoria ha dimenticato assomiglia all’abilità di un mago, che fa comparire e camminare chi è rimasto sepolto per secoli», scriveva un archeologo inglese, John Aubrey, proprio nel XVIII secolo. Nell’organizzare le magnifiche immagini che corredano la sua opera, Piranesi si è servito spesso dei frammenti delle antiche rovine, dei relitti del naufragio epocale, con l’evidente obiettivo di stimolare la reazione del pubblico a un fulmineo trapasso tra presente e passato. Il frammento è la condizione del monumento nel presente, ma proprio nelle cicatrici che definiscono l’identità del frammento sono incise tutte le secolari vicende dell’opera integra, tutto il suo passaggio nel tempo, anche i segni del suo lontano stato originario. Così, nelle tavole spesso appaiono in primo piano frammenti (a volte inventati dall’architetto) per rendere percepibile la simultaneità di condizioni iscritte nella materia dell’arte. […] D’altra parte far «comparire e camminare» chi è rimasto sepolto per secoli, e farlo dal punto di vista di Piranesi, significava anche prendere atto, anzi rivelare al mondo una componente essenziale dell’arte, cioè l’immaginazione».

                                 
         
 Pistoia - Fortezza Santa Barbara
                                   Foto di Claudia Ciardi ©
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L’espressionismo tedesco, Paolo Chiarini, Silvy edizioni, ottobre 2011

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