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19 giugno 2019

Gotico


Si parla con icastica brevità di gotico, ma con ciò non si fa riferimento a un fenomeno omogeneo né semplificabile nelle sue declinazioni territoriali e stilistiche. Non è chiara neppure la sua estensione temporale. Di fatto, avendo costituito per tre secoli una dominante nel linguaggio formale dell’arte, assai più longeva quindi del romanico e del barocco, ha finito per contaminare una zona così ampia della creatività moderna che limitarne l’esistenza a un’area geografica e a un’epoca ci allontana dal suo vero volto. Il gotico, infatti, più di ogni altra corrente è una somma di luoghi e di periodi storici, si nutre di percorsi evolutivi cronologicamente differenziati, di scambi tra culture nordiche e mediterranee, di caratteri e innovazioni recepiti dalle une o dalle altre a fasi alterne, secondo le idee della politica, i traffici mercantili, la sensibilità dei committenti. Né mancano le interruzioni, i momenti in cui la scuola italiana – ci riferiamo qui alla pittura – sembra distanziarsi dai coevi modelli francesi, tedeschi, fiamminghi, scrivere pagine in solitaria, per poi tornare ad attingere da quei canoni. Perché il gotico è sì canonizzazione ma al contempo ricerca, movimento, invenzione, slancio sperimentale. Tende a volersi superare di continuo, ha uno sguardo rivolto fuori da se stesso, è aperto alle capacità innovative di ogni singolo artista verso cui mostra tempi di reazione sorprendenti. In questa grande fabbrica di sensibilità e ingegni più o meno assiduamente dialoganti non mancò una profonda battuta d’arresto: la pestilenza del 1348 che nei milioni di persone falcidiate si portò via anche buona parte delle classi dirigenti e intellettuali nell’Europa di allora, aprendo un vacuum che solo nei decenni successivi poté essere ricolmato. Ma non mancarono neppure “città ideali” dove gli eventi favorirono la concentrazione delle migliori personalità dedite all’arte. Fu così ad Avignone, in cui su insistenza del re di Francia Filippo il Bello venne a stabilirsi nel 1309 papa Clemente V. Oltre a tutto il suo seguito, si spostarono con lui i più grandi, forse lo stesso Giotto, sicuramente Simone Martini che qui lavorarono al fianco dei colleghi francesi, catalani, boemi, inglesi. L’influenza della pittura senese, mediata dal laboratorio avignonese, passò quindi nella regione dei Pirenei, in Aragona e fino alla corte dell’imperatore Carlo IV, che allora sognava di coprire Praga di gioielli così da non sfigurare nel confronto con Parigi né con le capitali toscane della cultura. Semi che dopo la fosca epidemia di metà Trecento tornarono a sbocciare, trovando nuova linfa proprio nei centri del nord che diedero impulso alla stagione del “gotico internazionale”, approssimativamente collocato lungo un ventennio, più o meno a partire dal 1400. Si tratta di un raro parallelismo nelle tendenze creative delle diverse aree europee che ha, è importante ricordarlo, una solida base di natura sociale: le grandi famiglie di notabili che governavano il vecchio continente condividevano infatti gli stessi ideali cortesi, celebrati pure in letteratura. In questi stessi anni viene eretto il Duomo di Milano (1386), che segna il trionfo in Italia delle forme nordiche. 

Del resto, il gotico nasce in architettura e solo ben più tardi di un secolo inizia a fiorire in pittura, con cui va intesa la produzione sacra su tavole lignee, quella su vetro e su tela, ma anche la miniatura dei codici, il disegno degli arazzi. Tutto però ha inizio dalle cattedrali, e in particolare in Francia dove i criteri dell’alto gotico si materializzano a Chartres. Nella sua Madonna di Ognissanti (1306-1310) Giotto dipinge la Madre assisa sotto un tabernacolo gotico, tra guglie e fioroni caratterizzanti ormai da decenni il nuovo stile negli edifici sacri francesi, ma che in Italia avevano trovato da poco un loro spazio di rappresentazione nelle facciate del Duomo di Siena e di Orvieto. Contrariamente alla vis polemica di Vasari che per ragioni di campanilismo liquida il gotico come un esercizio disordinato di arte barbara, concepito in spregio ai modelli antichi, questo poliedrico cosmo creativo scaturisce piuttosto da un confronto serrato con l’antico, implicando uno studio preliminare di quei reperti. Non è un caso, dunque, se nell’immaginario ottocentesco d’impronta neogotica, o più latamente eclettica, le rovine occupano un posto tanto centrale per la rinascita di una poetica che a quelle forme medievali guardava.  
Per quanto riguarda la pittura si è preteso di narrare una progressione ininterrotta da Giotto a Michelangelo, mentre verosimilmente in Italia le vecchie tradizioni si saldano sul nuovo linguaggio, lo abbiamo già detto, ora facendo scuola ora mediando tra sé e gli elementi esterni, alla confluenza di uno stile mutevole, sempre in cerca di superarsi. Né è ravvisabile in tale fermento un’omogeneità di tecnica, a partire dall’uso del colore. I pigmenti sciolti in una soluzione d’uovo affiancarono per molto tempo la pittura a olio. Sebbene i teorici del XVI secolo in maniera fin troppo apodittica ascrivano ai fiamminghi questa invenzione, si sa che gli impasti a base di olio erano già noti nel XIII secolo, e prima che fossero perfezionati e soppiantassero la tempera trascorse un tempo piuttosto lungo.
La bottega d’arte nel medioevo aveva un’organizzazione meticolosa, al pari di altri mestieri si sviluppava entro vere e proprie dinastie territoriali che ne consolidavano i rapporti con la committenza. All’interno di questo contesto, abbastanza gerarchico e poco incline alla mobilità sociale, vi erano però grandi personalità che in parallelo coltivavano anche incarichi in proprio, fuori dall’attività di bottega. È stato così ad esempio per Dürer. L’Italia si distinse precocemente per l’abilità dei suoi “frescanti”, qui la pittura murale fin dai primi anni del XIV ebbe infatti molto risalto, mentre i fiamminghi s’imposero per la perfezione del dipinto su tavola. Tanto che nel Quattrocento prese piede un florido mercato di queste opere, acquistate da ricchi e raffinati collezionisti dei paesi mediterranei. Gli olandesi impiegavano moltissimo tempo per la realizzazione di un solo pezzo, un lavoro di artigianato estremamente scrupoloso che incarna tutta la differenza fra quel tipo di produzione rispetto alla successiva cosiddetta “arte di massa”. Quando Andrea da Firenze (1343-1377) fu chiamato ad affrescare Santa Maria Novella, il che richiese 156 giorni di lavoro, dobbiamo immaginare un’organizzazione preliminare dettagliatissima e ben strutturata, visto che l’esecuzione non permetteva margini di errore.  
In un’epoca di fermento politico, imprese economiche, ascesi religiosa, speculazione metafisica, non sorprende che la cultura abbia avuto i suoi spazi di esaltazione, raggiungendo vertici sommi, emblemi di collettività riunite dall’amore per l’arte e che nell’arte cercavano un mezzo per rappresentarsi e un riscatto spirituale.

(Di Claudia Ciardi)




Giotto, Maestà (Madonna di Ognissanti), 1306-1310



Duccio di Buoninsegna, Pietro rinnega Gesù per la prima volta e Cristo viene portato davanti al sommo sacerdote, 1308-1311



Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo, 1337-1340



Andrea da Firenze, Trionfo della Chiesa - Cappellone degli Spagnoli, Santa Maria Novella, 1367
*Colpisce la dettagliata veduta laterale di Santa Maria del Fiore. Qui ne viene anzi anticipata la conclusione con la cupola, finita in realtà solo mezzo secolo più tardi.



Berthélemy dEyck, Annunciazione, 1443-1444



(Primo da sinistra) Derick Baegert, L'evangelista Luca dipinge la Madonna, 1485
Bartolomé Bermejo, Vergine di Montserrat, 1482-1485
*Baegert ci mostra l'interno di uno studio di pittura dell'epoca (simbolicamente ad eseguire il ritratto è Luca, patrono dei pittore, mentre sullo sfondo è un angelo a preparare i pigmenti).


Testo consultato:

Robert Suckale, Matthias Weniger, Manfred Wundram, Gotico, Taschen, 2007


6 settembre 2017

Lenbachhaus



All'ingresso del Lenbachhaus


In una tappa a Monaco di Baviera non si può omettere una visita al Lenbachhaus in Luisenstraße, uno dei santuari dell’arte contemporanea tedesca. Luogo che racchiude una memoria storica della vita culturale monacense, la sua origine si deve al pittore Franz von Lenbach (1836-1904), cui è intitolato. Sua residenza, questa graziosa villa è stata donata alla città di Monaco dalla moglie Lola nel 1924, insieme agli arredi e alle opere che vi erano state raccolte nel corso della fruttuosa carriera del marito. Dopo un lungo soggiorno in Italia e lo studio approfondito della tecnica di Tiziano, Rubens e Rembrandt, Lenbach si impose come ritrattista della borghesia cittadina del proprio tempo, ricevendo committenze importanti. A sua firma, tra gli altri, un bel quadro che cattura una Katia Pringsheim, la futura moglie di Thomas Mann, ancora bambina (1892). Aperta al pubblico nel 1929, la villa-museo subì danni piuttosto ingenti nel corso delle offensive della seconda guerra mondiale. Tuttavia, i quadri messi in salvo precedentemente furono risparmiati e il complesso, ristrutturato e ammodernato, venne riaperto nel ’47, imponendosi da quel momento in poi, grazie alle successive acquisizioni, come centro di rilevanza internazionale – fondamentale il fondo messo a disposizione nel ’57 da Gabriele Münter (1867-1962), prima compagna di Kandinskij.  
Di recente la galleria è stata nuovamente oggetto di restauri a cura dell’architetto Norman Foster, dal 2009 al 2013, periodo di forzata chiusura, ritrovando quindi il suo splendore e la completezza delle sue collezioni. Le opere del Blaue Reiter, nucleo vitale di questo polo espositivo, date in prestito per una grande mostra su Klee e Kandinskij organizzata in Svizzera, sono infatti rientrate nella sede originaria all’inizio di quest’anno. L’evento è stato festeggiato da una serie di iniziative a tema, tra cui la grande mostra Ansichten des 19. Jahrhunderts, celebrazione del ritratto umano e paesaggistico in quello strano scorcio di fine Ottocento che avrebbe voluto svincolarsi dai canoni classici, dalla “maniera impressionista” e dal realismo, ma ancora frenato da non pochi scrupoli in materia di rottura d’avanguardia. Quest’arte in bilico, che alterna vedute mozzafiato delle Alpi bavaresi, angoli cittadini e immagini sfuocate, perfino torbide, rubate all’interno degli studi pittorici tra voyerismo e mistero, è tutta volta a un dialogo ideale con le opere dell’avanguardia pura qui presenti, da Delaunay a Jawlensky, Kubin, Macke, von Verefkin, all’epoca già sdoganate e determinate a ritagliarsi un posto nella nuova storia dell’arte.
In queste stanze si ha l’occasione di passare in rassegna i bei paesaggi montani di un giovane Kandiskij, annegati in un blu visionario e sognante, perle rare di cui sfugge ogni traccia o quasi perfino nei cataloghi più blasonati, in accompagnamento alle sottigliezze di Klee, tra arabeschi acquarellati e prime virate nel suo ossessivo geometrismo astratto, fino agli esperimenti d’altri compagni di strada che aderirono alla rivoluzione annunciata da Franz Marc. Per quanto piccola, tale rassegna costituisce uno spaccato fondamentale se si vuole capire cos’è stato il Cavaliere azzurro a Monaco e per cogliere i diversi sentieri creativi imboccati dai giovanissimi ingegni che vi aderirono.
In preparazione per ottobre, con l’intento di celebrare i sessant’anni dall’importante lascito di Gabriele Münter al museo, figura centralissima, come già detto, della stagione inaugurata da Marc e compagnia, un’altra grande mostra che vuol rendere omaggio a una tra le più eclettiche e originali sibille dell’arte di allora.     

(Di Claudia Ciardi)


Catalogo:

Hajo Düchting, Der Blaue Reiter, Taschen Verlag, 2016












Ritratto di Katia Pringsheim ad opera di Franz von Lenbach



Il Lenbachhaus



Il biglietto celebrativo del "ritorno" del Cavaliere Azzurro (2017)



La mostra di prossima inaugurazione sull'opera di Gabriele Münter


* Fotografie di Claudia Ciardi ©
 
 

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