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27 luglio 2022

Urbs picta

 



Riconosciuta dall’Unesco “Urbs picta”, Padova, che festeggia anche gli ottocento anni del proprio ateneo, sta vivendo un momento di grazia, premiata dall’affetto dei turisti. Le riaperture hanno spinto presenze, iniziative, voglia di riscoprire le sterminate ricchezze della città. Un abbraccio che questa Firenze del Veneto si merita alla grande. L’arte a Padova si respira proprio dappertutto, direi che è uno stato d’animo del luogo, e si sente subito appena ci si incammina per le strade, ancor prima di aver raggiunto il centro. Dalla sconfinata bellezza delle collezioni civiche alla meraviglia della Cappella degli Scrovegni, ai segni dell’arte di strada, cosicché un architrave dipinto o un manifesto con uno strano Giotto nei panni di rapper o rocker, che sembra seguirci con lo sguardo mentre imbocchiamo una viuzza del ghetto, riconducono alla medesima immagine del mondo, offrendosi come appartenenze di uno stesso crocevia culturale. È come se un’unica pulsazione governasse ogni traccia umana e del tempo, dalle più lontane alle più recenti, come se ogni angolo si rianimasse in questo gioco di specchi, in questo magnifico rovesciamento dove vale tutto e tutto trova la sua necessità. Dal memoriale ai caduti di guerra, che conserva anche i resti dei quasi mille padovani uccisi nei bombardamenti della seconda guerra mondiale, tempio ad alta densità emotiva, alla dimensione più lieve e conviviale dell’andare in visita, si attraversano mille sfumature, in senso cromatico, sì, ma latamente.
Ecco che in un’imitazione di Klimt sulla saracinesca abbassata di una bottega è pur vivo un rimando sentimentale ai vetri dipinti riaffiorati dalle necropoli – i vetri antichi più eccentrici, intatti, “moderni” che mi sia capitato di vedere – esposti nelle teche degli Eremitani. Sono due universi paralleli, in teoria lontanissimi fra loro, ma a Padova, no; dialogano, s’intendono a meraviglia, seducono. Estrosa ed elegante, il suo patrimonio diffuso lascia senza fiato. Il concetto di arte ovunque è una formula ambiziosa che sta aprendo a ulteriori vie d’espressione e interessanti commistioni, premiata dal crescente apprezzamento dei visitatori. E torniamo per un attimo davanti agli Eremitani dove ci si sente proprio al centro del mondo. All’ingresso del museo capita di incontrare appassionati d’arte di ogni latitudine; ci si intrattiene contemporaneamente in italiano, inglese, portoghese, tedesco. Ma che culla magnifica e che bel gruppo di persone all’accoglienza! Per non dire della pinacoteca, scrigno nello scrigno, con oltre cinquecento opere può considerarsi fra le più imponenti della regione: dalle icone veneto-bizantine a Giotto e Tiziano e poi la sala con gli spettacolari arcangeli appesi, immersi nel buio, che osservano il visitatore dall’alto. Apparizioni di un altro regno.
Infine, come non menzionare quello che Marco Goldin, capofila di un bel progetto nel circuito espositivo padovano, sta producendo al centro culturale Altinate. Nella mostra che si è chiusa a giugno ha portato i capolavori dalla Fondazione Oskar Reinhart, pitture incredibili che documentano da scorci poco noti le metamorfosi dell’idea di paesaggio nell’Ottocento. Né mi è sembrato casuale incrociare un simile percorso e la personalissima scrittura di Goldin sulle cose d’arte in un momento in cui io stessa stavo lavorando alla ricerca di un mio linguaggio fra letteratura e pittura, nel tentativo di gettare un ponte tra queste due sponde che tante connessioni hanno generato e altrettante ce ne porgono.
Per l’appunto, il titolo di cui Padova si fregia dallo scorso anno, è la perfetta sintesi in parole del suo genius loci.


(Di Claudia Ciardi)


19 giugno 2019

Gotico


Si parla con icastica brevità di gotico, ma con ciò non si fa riferimento a un fenomeno omogeneo né semplificabile nelle sue declinazioni territoriali e stilistiche. Non è chiara neppure la sua estensione temporale. Di fatto, avendo costituito per tre secoli una dominante nel linguaggio formale dell’arte, assai più longeva quindi del romanico e del barocco, ha finito per contaminare una zona così ampia della creatività moderna che limitarne l’esistenza a un’area geografica e a un’epoca ci allontana dal suo vero volto. Il gotico, infatti, più di ogni altra corrente è una somma di luoghi e di periodi storici, si nutre di percorsi evolutivi cronologicamente differenziati, di scambi tra culture nordiche e mediterranee, di caratteri e innovazioni recepiti dalle une o dalle altre a fasi alterne, secondo le idee della politica, i traffici mercantili, la sensibilità dei committenti. Né mancano le interruzioni, i momenti in cui la scuola italiana – ci riferiamo qui alla pittura – sembra distanziarsi dai coevi modelli francesi, tedeschi, fiamminghi, scrivere pagine in solitaria, per poi tornare ad attingere da quei canoni. Perché il gotico è sì canonizzazione ma al contempo ricerca, movimento, invenzione, slancio sperimentale. Tende a volersi superare di continuo, ha uno sguardo rivolto fuori da se stesso, è aperto alle capacità innovative di ogni singolo artista verso cui mostra tempi di reazione sorprendenti. In questa grande fabbrica di sensibilità e ingegni più o meno assiduamente dialoganti non mancò una profonda battuta d’arresto: la pestilenza del 1348 che nei milioni di persone falcidiate si portò via anche buona parte delle classi dirigenti e intellettuali nell’Europa di allora, aprendo un vacuum che solo nei decenni successivi poté essere ricolmato. Ma non mancarono neppure “città ideali” dove gli eventi favorirono la concentrazione delle migliori personalità dedite all’arte. Fu così ad Avignone, in cui su insistenza del re di Francia Filippo il Bello venne a stabilirsi nel 1309 papa Clemente V. Oltre a tutto il suo seguito, si spostarono con lui i più grandi, forse lo stesso Giotto, sicuramente Simone Martini che qui lavorarono al fianco dei colleghi francesi, catalani, boemi, inglesi. L’influenza della pittura senese, mediata dal laboratorio avignonese, passò quindi nella regione dei Pirenei, in Aragona e fino alla corte dell’imperatore Carlo IV, che allora sognava di coprire Praga di gioielli così da non sfigurare nel confronto con Parigi né con le capitali toscane della cultura. Semi che dopo la fosca epidemia di metà Trecento tornarono a sbocciare, trovando nuova linfa proprio nei centri del nord che diedero impulso alla stagione del “gotico internazionale”, approssimativamente collocato lungo un ventennio, più o meno a partire dal 1400. Si tratta di un raro parallelismo nelle tendenze creative delle diverse aree europee che ha, è importante ricordarlo, una solida base di natura sociale: le grandi famiglie di notabili che governavano il vecchio continente condividevano infatti gli stessi ideali cortesi, celebrati pure in letteratura. In questi stessi anni viene eretto il Duomo di Milano (1386), che segna il trionfo in Italia delle forme nordiche. 

Del resto, il gotico nasce in architettura e solo ben più tardi di un secolo inizia a fiorire in pittura, con cui va intesa la produzione sacra su tavole lignee, quella su vetro e su tela, ma anche la miniatura dei codici, il disegno degli arazzi. Tutto però ha inizio dalle cattedrali, e in particolare in Francia dove i criteri dell’alto gotico si materializzano a Chartres. Nella sua Madonna di Ognissanti (1306-1310) Giotto dipinge la Madre assisa sotto un tabernacolo gotico, tra guglie e fioroni caratterizzanti ormai da decenni il nuovo stile negli edifici sacri francesi, ma che in Italia avevano trovato da poco un loro spazio di rappresentazione nelle facciate del Duomo di Siena e di Orvieto. Contrariamente alla vis polemica di Vasari che per ragioni di campanilismo liquida il gotico come un esercizio disordinato di arte barbara, concepito in spregio ai modelli antichi, questo poliedrico cosmo creativo scaturisce piuttosto da un confronto serrato con l’antico, implicando uno studio preliminare di quei reperti. Non è un caso, dunque, se nell’immaginario ottocentesco d’impronta neogotica, o più latamente eclettica, le rovine occupano un posto tanto centrale per la rinascita di una poetica che a quelle forme medievali guardava.  
Per quanto riguarda la pittura si è preteso di narrare una progressione ininterrotta da Giotto a Michelangelo, mentre verosimilmente in Italia le vecchie tradizioni si saldano sul nuovo linguaggio, lo abbiamo già detto, ora facendo scuola ora mediando tra sé e gli elementi esterni, alla confluenza di uno stile mutevole, sempre in cerca di superarsi. Né è ravvisabile in tale fermento un’omogeneità di tecnica, a partire dall’uso del colore. I pigmenti sciolti in una soluzione d’uovo affiancarono per molto tempo la pittura a olio. Sebbene i teorici del XVI secolo in maniera fin troppo apodittica ascrivano ai fiamminghi questa invenzione, si sa che gli impasti a base di olio erano già noti nel XIII secolo, e prima che fossero perfezionati e soppiantassero la tempera trascorse un tempo piuttosto lungo.
La bottega d’arte nel medioevo aveva un’organizzazione meticolosa, al pari di altri mestieri si sviluppava entro vere e proprie dinastie territoriali che ne consolidavano i rapporti con la committenza. All’interno di questo contesto, abbastanza gerarchico e poco incline alla mobilità sociale, vi erano però grandi personalità che in parallelo coltivavano anche incarichi in proprio, fuori dall’attività di bottega. È stato così ad esempio per Dürer. L’Italia si distinse precocemente per l’abilità dei suoi “frescanti”, qui la pittura murale fin dai primi anni del XIV ebbe infatti molto risalto, mentre i fiamminghi s’imposero per la perfezione del dipinto su tavola. Tanto che nel Quattrocento prese piede un florido mercato di queste opere, acquistate da ricchi e raffinati collezionisti dei paesi mediterranei. Gli olandesi impiegavano moltissimo tempo per la realizzazione di un solo pezzo, un lavoro di artigianato estremamente scrupoloso che incarna tutta la differenza fra quel tipo di produzione rispetto alla successiva cosiddetta “arte di massa”. Quando Andrea da Firenze (1343-1377) fu chiamato ad affrescare Santa Maria Novella, il che richiese 156 giorni di lavoro, dobbiamo immaginare un’organizzazione preliminare dettagliatissima e ben strutturata, visto che l’esecuzione non permetteva margini di errore.  
In un’epoca di fermento politico, imprese economiche, ascesi religiosa, speculazione metafisica, non sorprende che la cultura abbia avuto i suoi spazi di esaltazione, raggiungendo vertici sommi, emblemi di collettività riunite dall’amore per l’arte e che nell’arte cercavano un mezzo per rappresentarsi e un riscatto spirituale.

(Di Claudia Ciardi)




Giotto, Maestà (Madonna di Ognissanti), 1306-1310



Duccio di Buoninsegna, Pietro rinnega Gesù per la prima volta e Cristo viene portato davanti al sommo sacerdote, 1308-1311



Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo, 1337-1340



Andrea da Firenze, Trionfo della Chiesa - Cappellone degli Spagnoli, Santa Maria Novella, 1367
*Colpisce la dettagliata veduta laterale di Santa Maria del Fiore. Qui ne viene anzi anticipata la conclusione con la cupola, finita in realtà solo mezzo secolo più tardi.



Berthélemy dEyck, Annunciazione, 1443-1444



(Primo da sinistra) Derick Baegert, L'evangelista Luca dipinge la Madonna, 1485
Bartolomé Bermejo, Vergine di Montserrat, 1482-1485
*Baegert ci mostra l'interno di uno studio di pittura dell'epoca (simbolicamente ad eseguire il ritratto è Luca, patrono dei pittore, mentre sullo sfondo è un angelo a preparare i pigmenti).


Testo consultato:

Robert Suckale, Matthias Weniger, Manfred Wundram, Gotico, Taschen, 2007


16 luglio 2014

L'espressionismo secondo Viani


Lorenzo Viani, Nero d'avorio
A cura di Fabrizio Zollo,
«I quaderni di Via del Vento»
Via del Vento edizioni, 2014




Lorenzo Viani è uno dei grandi nomi dell’arte italiana del Novecento. Nato a Viareggio nel 1882, il padre, che in passato faceva il pastore, è all’epoca inserviente presso la villa di Don Carlos di Borbone. Nella modesta casa della darsena vecchia in cui i Viani abitano, il ragazzo cresce insofferente alla disciplina e abbandona la scuola prestissimo, quando è appena in terza elementare. Questo rifiuto più o meno aperto della società borghese e delle sue regole, gli resterà per tutta la vita, influendo chiaramente sul suo percorso artistico. Mentre ancora adolescente è apprendista barbiere, incontra alcune personalità di spicco del panorama culturale di allora, quali Leonida Bissolati, Plinio Nomellini, Giacomo Puccini e Gabriele D’Annunzio. Qualche anno dopo inizia a frequentare i corsi all’Istituto di Belle Arti di Lucca e alla Scuola di Nudo dell’Accademia di Firenze, questi ultimi tenuti da Giovanni Fattori. Tra il 1906 e il 1907, affitta un locale a Torre del Lago, dove avrà occasione di frequenti contatti con Puccini, quindi entra a far parte del cenacolo «Repubblica d’Apua», insieme al poeta genovese Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, suo fondatore, a Enrico Pea e Giuseppe Ungaretti. È tuttavia del 1908 l’esperienza che gli cambia la vita: l’incontro con Parigi dove, seppur fugacemente – cosa della quale si pentirà in seguito, scrivendone nelle sue memorie – visita una retrospettiva dedicata a van Gogh. La consonanza che sente con queste opere è immediata. Viani infatti, fin dai suoi primi tentativi, è un espressionista e lo è in una maniera così totale e matura, che non si può restare sbalorditi, se si considera che non aveva nessun contatto col movimento tedesco, e che pure le figure cosiddette proto-espressioniste (Ensor, Munch, van Gogh, Gauguin) a eccezione del pittore fiammingo, non gli erano affatto note. In non pochi casi, e non diciamo un’eresia, i disegni di Viani al paragone con certi studi di Munch su soggetti simili, risultano persino superiori, meglio compiuti dal punto di vista della tecnica d’esecuzione. Ciò che fa di Viani una personalità del tutto peculiare nell’arte italiana del primo Novecento è esattamente la devozione totale alla sintassi espressionista, non solo in pittura ma anche nelle sue numerose e pregevoli opere letterarie. La lingua di Viani è senza orpelli, non si avvita nei compiacimenti teorici, va diretta a incidere la materia, esattamente come nelle sue realizzazioni grafiche si preoccupa di iscrivere i soggetti in linee “essenziali, conclusive”. A lungo collaboratore del «Corriere della Sera», la sua prosa, pur di matrice altrettanto espressionista quanto i suoi quadri, sviluppa esiti personalissimi, premiati dal successo di pubblico. Ma è soprattutto nelle tracciature a china o a matita, nella semplice e vivida alternanza del bianco e del nero, in cui sono inquadrate le sue sobrie e visionarie costruzioni, che si gustano a pieno l’originalità e il profondo lavoro di scavo alla radice del linguaggio dell’arte. Non è un caso che più volte, all’interno delle proprie riflessioni, dichiari un’ammirazione senza riserve per “i nostri primitivi”, intendendo con ciò i padri fondatori della pittura medievale e moderna (i bizantini, i pittori dei crocifissi lignei – ad es. i cosiddetti crocifissi blu dei maestri umbri – Duccio di Boninsegna, Buffalmacco, Giotto), tacciati di ingenuità da educatori grossolani quanto impreparati, e perciò oggetto di disprezzo.

Di questa asciuttezza e forza del segno, che viene proprio dalla lezione dei “primitivi”, sono prova anche i pensieri qui raccolti, ai quali l’artista affida tutta la sua sensibilità, tutto il suo bagaglio di vita, di uomo della strada divenuto viandante, che provava una singolare affinità con gli emarginati di ogni colore e latitudine, che ha fatto la fame a Parigi, occupato stanzoni freddi e privi di illuminazione, pur di ritagliare uno spazio unico alle proprie idee e provare a dar loro una forma. Se dopo la nomina a socio del Salon d’Automne a Parigi (1909), Viani fosse riuscito a stabilirsi nella metropoli, o almeno a spendervi nel tempo dei periodi gradualmente più lunghi, intrattenendo contatti più fitti con l’entourage avanguardista che allora vi si era installato, è probabile che il suo nome nella storia dell’arte apparirebbe più saldamente legato alla cronaca e, dunque, alle attenzioni degli specialisti. Purtroppo, certe scelte dipendono assai poco dalla volontà e sono invece spesso frutto del caso, di incontri, sodalizi, opportunità e molte altre imperscrutabili circostanze che possono come non possono presentarsi, facendo così la differenza, anche nel corso della carriera di un artista.

(Di Claudia Ciardi)


Da Pensieri sull’arte 

«Il dispregio e la benevola compassione di cui erano gratificati i nostri primitivi, che rimarranno la più alta e nobile espressione della pittura, ha fatto sì che abbiamo perso, per molto tempo, il concetto informatore, che ogni artista deve avere, per continuare rinnovando l’opera di coloro che ci sono stati maestri».

[…]

«Tutti gli spiriti grandi sono umili. L’arte è una cosa troppo terribile perché l’uomo possa alzare la fronte verso di lei con orgoglio e superbia.
Il soffio divino del suo spirito percorre il nostro cuore quando essa vuole. Gli orgogliosi i protervi non sono mai beneficiati dalle sue grazie».

[…]

«Certi quadri italiani antichi potrebbero servire come modelli per costruire una città. La solennità di certe croci è tale come quella di una torre di pietra: gli uomini, maree dense di alberi robusti, i loro panneggiamenti ampi e sobri, facciate di case spettacolari.
In tutto vi ispira una solennità di luce, forte come l’ultima luce del sole sulla primavera luminosa. “Dipingere poco e riflettere molto”».

[…]

«Dovendo il quadro rappresentare la solidità profonda delle cose, il pittore deve tenere in grande onore il “nero d’avorio” il più intenso, come l’elemento più concreto della tavolozza.
Non so concepire che in nero le travature del quadro. Gli altri colori sono la luce del sole che rallegra le impalcature di un edificio poderoso».

[…]

«Tutti i grandi pittori sono stati sobri nei colori e misurati. Tutti i grandi hanno pensato tanto, così hanno superato la consueta pittura, gioco di luce su solidità di forme. Essi, i grandi, si sono compenetrati nei legamenti essenziali della visione. Hanno scortecciato della luce le cose, per vedere di sotto, la concatenazione fondamentale degli elementi costitutivi del tutto; ci hanno rivelato delle costruzioni musicali, ci hanno rivelato che sotto il cobalto, il verde, il rosa, il celeste, c’è ferma e potente una cosa architettata e complicata. Solo ai grandi è concesso vedere il lavoro armonico e solido della natura. […] La natura ama i poeti e i generosi. Solo a loro si concede tutta, tutta, tutta».


Lorenzo Viani, Il folle

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