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4 aprile 2020

Italian dream


Qualche giorno fa mi è tornato tra le mani un diario che compilai nel novembre 2008, poche settimane dopo l’inizio della grande tempesta finanziaria che segnò quell’anno e le politiche dei molti a venire. Fu l’ultimo scritto a carattere sociale che destinai alla rivista universitaria, l’ultimo che accese la discussione coi miei compagni. Da allora non ho più fatto la prova di rileggere quei pezzi, con l’eccezione appunto di questo “Italian dream”. Il titolo richiama il cosiddetto “sogno americano” che dalla seconda guerra mondiale ha cullato l’occidente, per certi versi cullandolo ancora. Stride ovviamente con i tanti disastri cui l’utopia si è accompagnata, non ultimo il divario sociale che il diffondersi delle nuove tecnologie avrebbe avuto il compito di risolvere, salvo poi ridestarci nel bel mezzo del ciclone.
Come sempre accade mentre si vive un evento, è difficile valutarne pienamente la portata e le ricadute. In queste settimane abbiamo fatto esperienza del concetto di distanziamento. Abbiamo attuato una separatezza fisica tra noi e gli altri perché il contagio corresse meno velocemente. Una simile disposizione può giovare talvolta anche nel discernere i fatti. L’attesa si scopre spesso molto più proficua della riflessione a caldo. Mi son sempre chiesta come fosse possibile scrivere nell’immediatezza di un avvenimento; intendo una narrazione, una poesia. Son cose queste che necessitano di profondità e per andare in profondità, per scendere dalla superficie, occorre prendere le distanze.
Del 2008 si intuiva che sarebbe stato un anno di svolta, in senso peggiorativo. Tuttavia da questo peggio avremmo potuto trarre una lezione, cogliere un’opportunità per consolidarci in un assetto diverso che nel presente si sarebbe rivelato d’importanza strategica.  Di certo fu un anno che impattò negativamente e con sinistra accelerazione dopo il quinquennio e più di ricadute seguito all’ingresso nell’euro. E qui non si vuol fare una riflessione pro o contro la moneta unica, ma semplicemente constatare che quella scelta comportò una pesante erosione del potere d’acquisto e delle capacità di risparmio di una parte molto estesa dei nostri connazionali (si vedano i rapporti Cies sull’esclusione sociale dall’inizio del nuovo millennio). Quando il crollo del 2008 ci investì, le strutture erano già fragili e non si misero in campo provvedimenti adeguati, non si formularono piani coraggiosi di rilancio accompagnati da ammortizzatori sociali e strumenti di previdenza veramente inclusivi. Si preferì adattare le cornici dei bilanci, rimanere invischiati nella rigidità dei parametri, fare quello che si presumeva apparentemente gradito ai mercati – senza che peraltro vi fossero reali stabilizzazioni e ricadute positive neppure per quelli. Oggi che viviamo un’emergenza inaspettata scontiamo lassenza di tutele che allora andavano incardinate e i plateali errori di quel recente passato.
Il presidente dell’associazione dei comuni italiani, dunque un portavoce dei territori, ha dichiarato che oggi, il reddito di cittadinanza, in una situazione che ci sta facendo sfiorare il dissesto, si è rivelato l’unica misura che ha permesso di arginare i risvolti estremi del conflitto sociale. Ad ora il reddito di cittadinanza è la sola forma di accredito diretto di denaro che offra qualche garanzia agli strati privi di protezione, espulsi dal mercato del lavoro, parcheggiati in un incubo perpetuo di inedia e impossibilità di far valere i propri diritti. Adesso si è costretti a parlare di reddito di emergenza: allora perché, mesi fa, si continuavano a portare attacchi imbarazzanti contro tale misura che sta offrendo l’esempio per le politiche attualmente in discussione di sostegno al reddito? Perché ancora oggi, qualcuno, con scarsa lungimiranza e mostrando di non capire il quadro di crisi globale che va configurandosi, insiste col dire che si tratta di un provvedimento inutile, se non deleterio? Se questo strumento non fosse stato così osteggiato, già mesi fa si sarebbero potute stanziare risorse maggiori e arrivare meno impreparati all’oggi. Si poteva ampliare la platea dei beneficiari, perché molte attività e tanti liberi professionisti scontavano da lungo tempo situazioni ai limiti della sopravvivenza. Gettando lo sguardo oltre l’epidemia, la crisi del fattore lavoro è un elemento che non si può più fingere di ignorare: precarizzazione, caduta dei salari, automazione che sostituisce la figura del lavoratore, anche specializzato. L’epidemia sta solo accentuando un processo già in atto, è una sorta di “cigno nero” che incontra quello che aveva scosso le economie mondiali nel 2008. L’ortodossia liberista, al di là delle implicazioni sociali che disapprovo, non è più funzionale. Produce sacrifici che non portano da nessuna parte e non consente di riavviare il motore. È un tempo nuovo, occorre una mentalità nuova per interpretarlo. 

(Di Claudia Ciardi)


* Ripropongo la versione quasi integrale del 2008. La rilettura ha comportato qualche minimo intervento sul testo, alcune correzioni sulla punteggiatura, l’adattamento dell’introduzione, qui più sintetica rispetto all’originale.





Italian dream

(prego non svegliateci)

Questo breve elenco di sensazioni ed eventi è vicino ai due diari da me compilati sul marzo francese e la rivoluzione d’Ungheria, senza tuttavia continuare a svolgere i temi e le motivazioni che hanno portato alla scrittura di quei progetti. Non solo infatti è passato diverso tempo dai due precedenti lavori (entrambi si riferivano a fatti accaduti nel 2006) ma ciò che ancor più mi separa da essi è una sorta di rassegnata inquietudine, se l’aporia di questa espressione può essere accolta, che sembra approdare a un disincanto dalle ricadute nettamente fisiche e che mi impedisce di raccogliere qualsiasi energia per commentare.
In questo che non saprei definire né diario, né cronaca, né pamphlet, ho lasciato incontrare nel modo più semplice e asciutto possibile le date, i fatti, le impressioni personali.               
                                                                            

 Ai sogni non ancora saccheggiati              
                                                                           
22 ottobre

Cagliari. Alluvione. L’acqua e la terra scese dai monti investono le case costruite davanti al fiume. Da qualche parte dovevano defluire. Dispersi.

23 ottobre

Monitoraggio ambientale in ritardo. Visita di rito della protezione civile. Ci si sbriga tra sopralluoghi e bollettini. Poi via tutti. La gente resta in casa a spalare il fango e a prendersela col mutuo trentennale da pagare. 

Pisa: in ventimila. Si manifesta contro l’assalto alla scuola pubblica. Le ombre della crisi finanziaria fanno ressa quanto la gente per strada.

24 ottobre

Borse giù. Una caduta libera che dura da troppe settimane. I mercati bruciano, le cifre spargono ipoteche sulle vite di tutti ogni giorno che passa.
 
25 ottobre

Sabato sera. Al solito. Tutto inutilmente tranquillo. Fa quasi rabbia questo anestetico ordinato a larghe dosi dal Comitato di Salute Pubblica. In televisione gli fa da pendant la parodia del Ministro della Paura. Anche la satira diventa ripetitiva e doppia il senso di vuoto.

26 ottobre

In città, piazza centrale. Tra proteste e aperitivi. I graziati al bar e i tampinati seduti in cerchio a sputare rabbia negli altoparlanti. Ma forse anche qui più apparenza che  diversità. Bisogno di sentire la vita in un corpo. La sua casa, lontana da questo. Fuggo, credo. Facciamo l’amore. Discutiamo, proviamo a immaginare una serenità che si ostina a scappare, anche lei. Tutto ha l’aria di essere così poco serio, terribilmente serio. 

27 ottobre

La borsa in perdita, ancora. Si pensa a salvare altre banche. Inflazione a portata di mano. Forse ne faranno qualche gadget. Coro affannato di numeri che segnano la regressione, pesante. Stavolta è una disfatta ma chiamarla così per qualcuno è vilipendio.

Colpi di coda. Il gigante imperialista continua a contorcersi. Si diffonde oggi la notizia del raid di ieri degli Stati Uniti contro la Siria. Nove morti, fiancheggiatori di Al Quaeda si dice. Guerra preventiva?

Sparatoria in un ateneo dell’Arkansas: due morti. Il ballo delle armi chiede coerenza al sogno americano.

28 ottobre

Si decide l’integrazione ambientale dell’Ilva di Taranto. Insorgono le associazioni e gli esperti che hanno valutato l’impatto del polo industriale sul territorio. Nei bambini tumori inspiegabili. Taranto città più inquinata d’Europa.

29 ottobre

Massa. Eaton, industria siderurgica sotto il vessillo americano. Il crollo dei mercati si porta dietro il crollo del lavoro. Licenziamenti. La società venduta al taglio.

Il decreto Gelmini è legge. Previsioni di gettito fiscale ridotto, sull’onda della riduzione dei redditi. Tagli.

Si protesta. Volo di spranghe a piazza Navona. Antagonismi di destra e di sinistra, ideologie ricucite per buttare sul palco vecchie provocazioni che ancora possono far comodo.
La polizia carica i dimostranti a Milano. Ma il premier assicura di non voler pestaggi nei cortei. Aria di lotta tra poveri costruita a tavolino. Meglio, lotta per la sopravvivenza. Ecco quando l’essere umano dà il meglio di sé.

30 ottobre

Per scrivere la tesi ho impiegato un tempo esorbitante. Il caos della mia testa e i casini della mia famiglia. Un bel condimento come al solito. Ora son cinque mesi che l’ho consegnata. Ma non frega a nessuno. Non pensavo si dovesse chiedere anche di leggerla. All’università non si dice mai dello spreco riguardante il tempo degli studenti, che passa per cosa dovuta. Invece è la prima inciviltà che si tira dietro tutte le altre. Continuano a parlarmi di libri da citare, autori da inserire, altrimenti il mio lavoro non ha sufficiente dignità accademica. Mi sento stupida.   

Roma. Sciopero nazionale della scuola. Manifestazioni in giro per l’Italia. Milano, Bologna, scontri, due cortei a Palermo. Dall’alto si paventano arresti e fermi, solito tono velato. Senza parere, la galera è dietro l’angolo. Carcerazione preventiva, come la guerra, come il pensiero.

Calca davanti al magazzino hi-tech, periferia di Roma. Feriti e contusi. Ferocia commerciale suburbana. Almeno qualcuno pensa a razziare le offerte dei supermercati invece che a cambiare il mondo. La TV è generosa d’immagini a sommo scopo. L’isterismo fa buon latte.

31 ottobre

Mattina. Caffè letterario. Si discute dei Cantos. Un’isola di umanità troppo piccola, la forma di una bellezza troppo fragile, adesso.

Da giorni sanguina l’est del Congo. Li chiamano conflitti etnici. Calcolati, poi  imprevisti quando si tratta di fermarli. Il nuovo hotel Ruanda ha aperto i battenti.

McCain Obama. Il bianco e il nero. Manicheismo in scena, anche questo copione sembra scontato. E mesi che se ne parla……

1 novembre

Congo. Soldati governativi sparano a freddo sulla gente. I ribelli bruciano un accampamento di profughi. Bambini schiacciati nella calca mentre chiedono cibo. Dacci oggi il nostro pane. Il grido di un continente.

Polemiche con la Germania sulle stragi nazifasciste. Strumentalizzazioni sui risarcimenti, proprio in mezzo alla crisi. Infinita vergogna per chi è morto. Non era proprio il caso.

2 novembre

Domenica sera. Falso Clamore. Al solito. Dura meno di un attimo, poi silenzio. Resa incondizionata. Ormai è facile, so come si fa.

Scorrono le immagini della Formula uno. Modelle ai box coccolano settantenni in livrea da milioni di euro. Shock di cilindrata.

3 novembre

Il lunedì si comincia sempre dal conto delle perdite. Il Ministero dell’economia informa. Nei primi dieci mesi dell’anno il settore statale fa registrare un fabbisogno di circa 52,5 miliardi di euro. È un aumento, si dice, di circa 14,5 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2007.

Crisi Alitalia. Ci perseguita da settembre, anzi da prima. Pur con tutti i soldi pubblici che son finiti lì per far volare la bandiera, l’accordo è sempre in bilico. Si cerca ancora di raschiare il barile. Il tavolo dei debiti è tutto nostro.

C’è una donna che ha ereditato dal padre un mestiere bellissimo, salvare le piante. Sono alberi da frutto che nei secoli hanno sfamato tanta gente. Ma il mercato oggi li ha dimenticati. Bisogno di velocità, e in questo viene meno l’attenzione per le cose preziose e che vivono con maggiore lentezza. Naturalmente nessuno la finanzia. Così anche per le persone.

4 novembre

Anche le luci della sala computer hanno cominciato a stancarmi. Così, in biblioteca, alle spalle ho il solito ricercatore scosso dalla sua tosse isterica. Mi tornano in mente le mattine al liceo, l’arrivo in classe, odore di panni lavati, voce ancora assonnata, gesti impacciati di un’adolescenza tra mura malate. Fastidio e brividi.

Election day. Il mondo aspetta. No, il mondo aspetta?  

Dietro i vetri. Vento che scuote le case. Ma l’indifferenza è più forte.

5 novembre

Piove, i Senegalesi vendono ombrelli per strada. La bacheca davanti alle scale del dipartimento puzza d’umido e monotonia. Su pochi fogli imbarazzati gli accenni a una protesta che cerca di non soffocare. Accanto la lunga lista di saggi compilata da un giovane laureato in storia americana, impaziente di rivendere. Un altro cede il suo stipetto dei libri, con tutti i libri, per duecento euro. Rateizzazione del disincanto.

Si parla di campagna elettorale epica per le presidenziali statunitensi. Ma sembra più che altro che si elegga una reginetta del cinema o la nuova miss da calendario. A guardar bene le mitologie sono s-cadute dalle ginocchia delle società. Abbiamo ancora soltanto qualche simbolo che pare incepparsi di continuo. La crescita della percentuale di votanti è forse timore del fallimento della democrazia; ma il timore resta senza rappresentanza.
Si fa ressa sull’orlo della crisi.

Congo, centomila profughi. La versione ufficiale: è colpa degli Africani che geneticamente non sanno organizzarsi. Non si sono dati da fare in tempo e questo ci autorizza a depredarli.
Intanto vince l’uomo della speranza. Si mette a dormire la favola della libertà si comincia la nuova hope tale. Raccontata da uno di loro o uno di noi?

La forma di molte sere quaggiù, ombre masticate tra il ponte e il fiume, sentore d’esilio ma in mezzo agli altri, senza attraversare.

Exile’s song
And before the end of the day we were scattered like stars, or rain.
I had to be off to So, far away over the waters,
you back to your river-bridge.  (Ezra Pound)
   
(Di Claudia Ciardi, novembre 2008)


16 gennaio 2020

Paul Krugman - Una troppo lunga recessione



Inizio dagli interrogativi lasciati aperti a conclusione di questo volume. Siamo di fronte a un cedimento strutturale del sistema, qualcosa che potrebbe essere rivelatore di una caduta di quegli assunti, pur entrati già più volte in affanno, che sorreggono l’economia di mercato? E ancora, non avrebbe più senso oggi parlare di una fase di depressione, cosicché cominciando dal chiarificare quanto sta accadendo, il tentativo di fronteggiarlo possa essere maggiormente efficace? La seconda domanda è un’interpretazione di poco più libera rispetto a ciò su cui s’interroga Paul Krugman, che in queste pagine si ferma qualche passo prima della terra di nessuno. Per terra di nessuno intendo esattamente lo spazio tra le due linee di fuoco, dove si va solo quando vengono ordinate temerarie sortite.

L’occasione del libro è infatti la crisi del 2008, il grande crac dell’economia mondiale – io qualche volta l’ho chiamato anche grande crash  perché quella catena di eventi produsse una tale frantumazione a tutti i livelli – economia, società, individui – che tuttora non è stata ricomposta, mostrando semmai la tragica tendenza a ulteriori implosioni. Dunque, lo sguardo di Krugman si levò a caldo sulla grande esplosione, dieci anni dopo aver commentato la crisi asiatica – primo nucleo del presente saggio – qui riletta come preludio, un banco di prova tra i più recenti per quel che riguarda il panico finanziario e l’arrivo di una recessione, purtroppo ignorato dagli economisti. Quando è arrivata la seconda ben più violenta tempesta nel 2008, con epicentro nei paesi occidentali, non ci eravamo attrezzati. Peggio ancora, la tendenza ad assecondare la volubilità dei mercati, considerando d’importanza primaria la conquista della loro fiducia, ha finito per lasciar correre politiche economiche di superficie, orientate alla guarigione psicologica degli attori finanziari coinvolti ma trascurando la radice dei problemi, sempre ben piantata nell’economia reale. Le cure somministrate ai paesi asiatici colpiti dalla crisi nel 1998, al Brasile, poco dopo – a proposito del quale si è parlato di caricatura del programma imposto all’Asia – e la Grecia, infine – che qui non compare perché allo sfiancamento ellenico si è arrivati attraverso un lento pluriennale stillicidio – si classifica a dire dell’autore entro un mix di austerità e riformismo spesso fuori tema, che non ha intercettato alcuna concreta possibilità di recupero. Laddove recupero vi è stato, il cammino delle riforme non aveva saputo tenere il passo – dunque, secondo quanto ci spiega Krugman, rivelando tutto il suo carattere accessorio – mentre nei casi in cui gli obiettivi programmatici siano stati disattesi, il panico finanziario si è autoalimentato raggiungendo velocità e proporzioni devastanti.
Ma qui entra di nuovo, almeno in parte, la politica. Fra il decennio di decrescita, per cui si è coniato il termine di “crescita in depressione” che ha tenuto in scacco il Giappone per tutti gli anni Novanta e il naufragio dei mercati asiatici, non va trascurata la candidatura della Cina a gigante orientale con ambizioni di divenire la prima economia del mondo. Questa enorme forza sprigionata dall’economia cinese in un tempo relativamente breve può non solo aver determinato squilibri regionali ed extra regionali ma ha forse spinto la Fed a entrare a gamba tesa, predisponendo piani di austerità fiscale nei paesi asiatici esposti, per inculcarvi, secondo il giudizio di alcuni osservatori, la propria dottrina finanziaria. Di fatto, riguardo la Cina, l’apertura al libero mercato si è affiancata al controllo sui capitali, ed è la via su cui il gigante ha continuato senz’arresto a marciare. Stati Uniti ed Europa si sono invece trovati alle prese con gli effetti deflagranti di due bolle consecutive, l’una generata dal mercato azionario, l’altra da quello immobiliare, venuta a sostituire la prima, protraendo l’euforia per una manciata di anni. Ma come Paul Krugman non manca di ricordarci, tutte le bolle prima o poi scoppiano. Quando è stato il turno di quella immobiliare legata per larga parte ai mutui subprime, ha trascinato con sé una bella fetta di ricchezza. Qui si rende necessaria una considerazione: nel momento in cui esplode una crisi gli effetti sono dirompenti nella vita di milioni di persone. Disoccupazione, perdite patrimoniali che non si potranno recuperare, incertezza circa la propria condizione, senso di impotenza e perdita di controllo sul proprio futuro. Una parola all’apparenza asettica, segnata dal suo richiamo tecnico, implica così tante drammatiche conseguenze nel destino di quelli che incontra sulla sua strada. Allo stesso tempo Krugman illustra molto efficacemente che non è semplice, per chi si ritrova coinvolto, comprendere nell’immediatezza tutte le implicazioni e le ricadute del fenomeno. Ciò spiegherebbe anche perché allo stato attuale delle cose in Europa non riusciamo a dare una lettura salda e univoca della lunga recessione che ci ha investiti, spesso anzi sentendo difendere la posizione di chi mette in dubbio perfino l’esistenza di una dinamica recessiva.
E siccome tra i pregi di questo libro c’è l’analisi basata sulla concatenazione degli eventi, cosa che manca desolatamente nella maggior parte delle letture pre e post crisi, veniamo alla Brexit prima della Brexit. Proprio così. Nel 1990 l’Inghilterra aveva aderito allo SME, il sistema monetario europeo, un sistema di tassi di cambio fissi concepito come fase intermedia che avrebbe condotto all’euro. Tuttavia oltremanica ci si rese presto conto che la politica monetaria verso cui si era obbligati non risultava più compatibile con i propri obiettivi. Era in corso infatti una profonda recessione e il malcontento popolare si stava diffondendo. L’Inghilterra si trasse fuori dagli impegni, provvedendo a svalutare la sterlina. La decrescita si volse in opportunità. Questa storia ci insegna fra laltro che occorre giovarsi di una certa libertà di manovra, se si vogliono risolvere i problemi.
La crisi che ci è piombata addosso e che stiamo tuttora attraversando somiglia a una traversata in un mare inesplorato alla ricerca di un passaggio. È un insieme di situazioni pregresse e anche un fenomeno che genera di continuo nuovi scenari. In egual misura a quanto avvenne durante la crisi dei “trust” di New York nel 1907, anche nel caso attuale un circuito parabancario cresciuto in maniera ipertrofica e sfuggito al controllo – oppure lasciato prosperare perché a certuni faceva comodo così – ha finito per squilibrare il sistema. Il consolidamento della globalizzazione finanziaria ha decuplicato gli effetti a catena innescati dai crolli. Lo shock ha polverizzato la fiducia e ridotto drasticamente le linee di credito – i soldi si prestano ora con maggiore difficoltà, le aziende che non beneficiano del rating più elevato in termini di affidabilità pagano tassi di interesse più alti rispetto a quanto avveniva prima della crisi. Ecco, nelle parole di Krugman, la sintesi di questo disastro: «Mi verrebbe da dire che la crisi non ha alcun punto di contatto con ciò che abbiamo visto in precedenza. Ma sarebbe più esatto dire che è molto simile a tutto ciò che abbiamo visto in precedenza, però tutto insieme: l’implosione di una bolla immobiliare paragonabile a quella che si è creata in Giappone alla fine degli anni Ottanta: un’ondata di corse agli sportelli paragonabile a quelle dei primi anni Trenta (che ha coinvolto il sistema bancario-ombra, anziché le banche convenzionali); un grosso problema di liquidità negli Stati Uniti, analogo a quello che si era già presentato in Giappone; e ultimamente una discontinuità dei flussi internazionali di capitale e un’ondata di crisi valutarie fin troppo simile a quella che si è avuta in Asia alla fine degli anni Novanta».
E noi, abbiamo sviluppato nel frattempo qualche antidoto? No. Anzi, continuiamo affatto raramente ad avere persino problemi nell’ammettere la natura di questa crisi, che non ha un volto solo ed appare sempre di più come un organismo adattabile e resistente. Eppure, ci sussurra l’autore, quello delle recessioni è un tema carico di significati, che molto potrebbe istruirci sulle strategie di contenimento di breve e lungo termine. Allora torniamo al punto di partenza. C’è forse qualcosa nel sistema che sarebbe arrivato a un punto di non ritorno? Qualcosa che fino al decennio scorso ci sembrava inossidabile e che invece ha smesso d’un tratto di funzionare? Occorre ripensare il modello e, più ancora, la struttura al cui interno opera questo modello?
Paul Krugman afferma che la ripartenza consista nel riaccendere il motore dell’occupazione. In scia alla sintesi keynesiana, dice una cosa giustissima. Bene, lo sosteneva però più di dieci anni fa. È un fatto che in tutto questo tempo il mercato del lavoro, toccando dei vertici negativi nei paesi mediterranei, non è ripartito come ci si aspettava. Dei quattro fattori che garantiscono il funzionamento economico – terra, capitale, impresa, lavoro – proprio quest’ultimo sembra accusare una debolezza senza precedenti. Neppure vendendo gratuitamente o quasi le proprie competenze si riesce a rientrare in un mercato sconsolatamente piatto, privo di scossoni, a corto di idee ed entusiasmo. L’automazione, l’informatizzazione, sommate a un drastico calo degli investimenti hanno forse saturato una richiesta di manodopera necessaria solo fino a poco fa? Non è questo un indicatore inequivocabile che ci troviamo di fronte a una svolta? Se a ciò aggiungiamo l’inefficacia della politica monetaria, qualche dubbio viene. Lascio ancora dire a Krugman: «La recessione del 1981-1982, che ha spinto il tasso di disoccupazione sopra il 10%, è stata pesantissima; ma era più o meno frutto di una scelta deliberata: la Fed perseguiva una politica monetaria molto rigida per disinnescare l’inflazione, e nel momento in cui ha stabilito che l’economia aveva sofferto abbastanza, il suo presidente, Paul Volcker, ha allentato la stretta e l’economia è tornata a correre. La devastazione economica si è trasformata in una “nuova alba” per l’America con una rapidità impressionante. Questa volta, per contro, l’economia ristagna nonostante i ripetuti sforzi messi in atto dalle autorità monetarie per farla ripartire. Questa impotenza della politica monetaria ricorda da vicino ciò che è avvenuto in Giappone negli anni Novanta. Ma ricorda anche le vicende degli anni Trenta. In questo momento non siamo ancora in depressione, e nonostante tutto io non credo che andremo incontro a una depressione (anche se non ne sono del tutto sicuro). Siamo però in presenza di una tipica economia della depressione».
Di fronte a una caduta così esplicita e prolungata della domanda, anche i più fervidi paladini del libero mercato saranno obbligati a prendere atto che sta venendo meno uno dei presupposti basilari per cui appunto il libero mercato trova la sua ragion d’essere. Come per il libro di Marco Revelli sulla crisi – analisi la sua di taglio sociale, che prendeva in esame la povertà crescente e i pericoli per la coesione e la tenuta democratica –  anche qui ci fermiamo sulla soglia degli eventi. Due letture per certi versi contigue che buttano lo sguardo appena dopo il grande crollo finanziario del decennio scorso. E adesso?
L’impressione è che siamo già molto oltre le colonne d’Ercole. Ma ci ostiniamo a voler navigare un mare sconosciuto con le vecchie carte. Bisogna dedurre dalle mappe già disegnate l’informazione utile a evitare pericoli già noti o altri possibili che potrebbero sopravvenire, senza pretendere che sappiano dirci di più; del resto non potrebbero farlo. Occorre invece avere il coraggio di tracciare la nuova rotta.

(Di Claudia Ciardi)  


Edizione consultata

Paul Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, Garzanti 2009 [edizione ampliata e aggiornata su quella del 1999]      

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