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4 aprile 2020

Italian dream


Qualche giorno fa mi è tornato tra le mani un diario che compilai nel novembre 2008, poche settimane dopo l’inizio della grande tempesta finanziaria che segnò quell’anno e le politiche dei molti a venire. Fu l’ultimo scritto a carattere sociale che destinai alla rivista universitaria, l’ultimo che accese la discussione coi miei compagni. Da allora non ho più fatto la prova di rileggere quei pezzi, con l’eccezione appunto di questo “Italian dream”. Il titolo richiama il cosiddetto “sogno americano” che dalla seconda guerra mondiale ha cullato l’occidente, per certi versi cullandolo ancora. Stride ovviamente con i tanti disastri cui l’utopia si è accompagnata, non ultimo il divario sociale che il diffondersi delle nuove tecnologie avrebbe avuto il compito di risolvere, salvo poi ridestarci nel bel mezzo del ciclone.
Come sempre accade mentre si vive un evento, è difficile valutarne pienamente la portata e le ricadute. In queste settimane abbiamo fatto esperienza del concetto di distanziamento. Abbiamo attuato una separatezza fisica tra noi e gli altri perché il contagio corresse meno velocemente. Una simile disposizione può giovare talvolta anche nel discernere i fatti. L’attesa si scopre spesso molto più proficua della riflessione a caldo. Mi son sempre chiesta come fosse possibile scrivere nell’immediatezza di un avvenimento; intendo una narrazione, una poesia. Son cose queste che necessitano di profondità e per andare in profondità, per scendere dalla superficie, occorre prendere le distanze.
Del 2008 si intuiva che sarebbe stato un anno di svolta, in senso peggiorativo. Tuttavia da questo peggio avremmo potuto trarre una lezione, cogliere un’opportunità per consolidarci in un assetto diverso che nel presente si sarebbe rivelato d’importanza strategica.  Di certo fu un anno che impattò negativamente e con sinistra accelerazione dopo il quinquennio e più di ricadute seguito all’ingresso nell’euro. E qui non si vuol fare una riflessione pro o contro la moneta unica, ma semplicemente constatare che quella scelta comportò una pesante erosione del potere d’acquisto e delle capacità di risparmio di una parte molto estesa dei nostri connazionali (si vedano i rapporti Cies sull’esclusione sociale dall’inizio del nuovo millennio). Quando il crollo del 2008 ci investì, le strutture erano già fragili e non si misero in campo provvedimenti adeguati, non si formularono piani coraggiosi di rilancio accompagnati da ammortizzatori sociali e strumenti di previdenza veramente inclusivi. Si preferì adattare le cornici dei bilanci, rimanere invischiati nella rigidità dei parametri, fare quello che si presumeva apparentemente gradito ai mercati – senza che peraltro vi fossero reali stabilizzazioni e ricadute positive neppure per quelli. Oggi che viviamo un’emergenza inaspettata scontiamo lassenza di tutele che allora andavano incardinate e i plateali errori di quel recente passato.
Il presidente dell’associazione dei comuni italiani, dunque un portavoce dei territori, ha dichiarato che oggi, il reddito di cittadinanza, in una situazione che ci sta facendo sfiorare il dissesto, si è rivelato l’unica misura che ha permesso di arginare i risvolti estremi del conflitto sociale. Ad ora il reddito di cittadinanza è la sola forma di accredito diretto di denaro che offra qualche garanzia agli strati privi di protezione, espulsi dal mercato del lavoro, parcheggiati in un incubo perpetuo di inedia e impossibilità di far valere i propri diritti. Adesso si è costretti a parlare di reddito di emergenza: allora perché, mesi fa, si continuavano a portare attacchi imbarazzanti contro tale misura che sta offrendo l’esempio per le politiche attualmente in discussione di sostegno al reddito? Perché ancora oggi, qualcuno, con scarsa lungimiranza e mostrando di non capire il quadro di crisi globale che va configurandosi, insiste col dire che si tratta di un provvedimento inutile, se non deleterio? Se questo strumento non fosse stato così osteggiato, già mesi fa si sarebbero potute stanziare risorse maggiori e arrivare meno impreparati all’oggi. Si poteva ampliare la platea dei beneficiari, perché molte attività e tanti liberi professionisti scontavano da lungo tempo situazioni ai limiti della sopravvivenza. Gettando lo sguardo oltre l’epidemia, la crisi del fattore lavoro è un elemento che non si può più fingere di ignorare: precarizzazione, caduta dei salari, automazione che sostituisce la figura del lavoratore, anche specializzato. L’epidemia sta solo accentuando un processo già in atto, è una sorta di “cigno nero” che incontra quello che aveva scosso le economie mondiali nel 2008. L’ortodossia liberista, al di là delle implicazioni sociali che disapprovo, non è più funzionale. Produce sacrifici che non portano da nessuna parte e non consente di riavviare il motore. È un tempo nuovo, occorre una mentalità nuova per interpretarlo. 

(Di Claudia Ciardi)


* Ripropongo la versione quasi integrale del 2008. La rilettura ha comportato qualche minimo intervento sul testo, alcune correzioni sulla punteggiatura, l’adattamento dell’introduzione, qui più sintetica rispetto all’originale.





Italian dream

(prego non svegliateci)

Questo breve elenco di sensazioni ed eventi è vicino ai due diari da me compilati sul marzo francese e la rivoluzione d’Ungheria, senza tuttavia continuare a svolgere i temi e le motivazioni che hanno portato alla scrittura di quei progetti. Non solo infatti è passato diverso tempo dai due precedenti lavori (entrambi si riferivano a fatti accaduti nel 2006) ma ciò che ancor più mi separa da essi è una sorta di rassegnata inquietudine, se l’aporia di questa espressione può essere accolta, che sembra approdare a un disincanto dalle ricadute nettamente fisiche e che mi impedisce di raccogliere qualsiasi energia per commentare.
In questo che non saprei definire né diario, né cronaca, né pamphlet, ho lasciato incontrare nel modo più semplice e asciutto possibile le date, i fatti, le impressioni personali.               
                                                                            

 Ai sogni non ancora saccheggiati              
                                                                           
22 ottobre

Cagliari. Alluvione. L’acqua e la terra scese dai monti investono le case costruite davanti al fiume. Da qualche parte dovevano defluire. Dispersi.

23 ottobre

Monitoraggio ambientale in ritardo. Visita di rito della protezione civile. Ci si sbriga tra sopralluoghi e bollettini. Poi via tutti. La gente resta in casa a spalare il fango e a prendersela col mutuo trentennale da pagare. 

Pisa: in ventimila. Si manifesta contro l’assalto alla scuola pubblica. Le ombre della crisi finanziaria fanno ressa quanto la gente per strada.

24 ottobre

Borse giù. Una caduta libera che dura da troppe settimane. I mercati bruciano, le cifre spargono ipoteche sulle vite di tutti ogni giorno che passa.
 
25 ottobre

Sabato sera. Al solito. Tutto inutilmente tranquillo. Fa quasi rabbia questo anestetico ordinato a larghe dosi dal Comitato di Salute Pubblica. In televisione gli fa da pendant la parodia del Ministro della Paura. Anche la satira diventa ripetitiva e doppia il senso di vuoto.

26 ottobre

In città, piazza centrale. Tra proteste e aperitivi. I graziati al bar e i tampinati seduti in cerchio a sputare rabbia negli altoparlanti. Ma forse anche qui più apparenza che  diversità. Bisogno di sentire la vita in un corpo. La sua casa, lontana da questo. Fuggo, credo. Facciamo l’amore. Discutiamo, proviamo a immaginare una serenità che si ostina a scappare, anche lei. Tutto ha l’aria di essere così poco serio, terribilmente serio. 

27 ottobre

La borsa in perdita, ancora. Si pensa a salvare altre banche. Inflazione a portata di mano. Forse ne faranno qualche gadget. Coro affannato di numeri che segnano la regressione, pesante. Stavolta è una disfatta ma chiamarla così per qualcuno è vilipendio.

Colpi di coda. Il gigante imperialista continua a contorcersi. Si diffonde oggi la notizia del raid di ieri degli Stati Uniti contro la Siria. Nove morti, fiancheggiatori di Al Quaeda si dice. Guerra preventiva?

Sparatoria in un ateneo dell’Arkansas: due morti. Il ballo delle armi chiede coerenza al sogno americano.

28 ottobre

Si decide l’integrazione ambientale dell’Ilva di Taranto. Insorgono le associazioni e gli esperti che hanno valutato l’impatto del polo industriale sul territorio. Nei bambini tumori inspiegabili. Taranto città più inquinata d’Europa.

29 ottobre

Massa. Eaton, industria siderurgica sotto il vessillo americano. Il crollo dei mercati si porta dietro il crollo del lavoro. Licenziamenti. La società venduta al taglio.

Il decreto Gelmini è legge. Previsioni di gettito fiscale ridotto, sull’onda della riduzione dei redditi. Tagli.

Si protesta. Volo di spranghe a piazza Navona. Antagonismi di destra e di sinistra, ideologie ricucite per buttare sul palco vecchie provocazioni che ancora possono far comodo.
La polizia carica i dimostranti a Milano. Ma il premier assicura di non voler pestaggi nei cortei. Aria di lotta tra poveri costruita a tavolino. Meglio, lotta per la sopravvivenza. Ecco quando l’essere umano dà il meglio di sé.

30 ottobre

Per scrivere la tesi ho impiegato un tempo esorbitante. Il caos della mia testa e i casini della mia famiglia. Un bel condimento come al solito. Ora son cinque mesi che l’ho consegnata. Ma non frega a nessuno. Non pensavo si dovesse chiedere anche di leggerla. All’università non si dice mai dello spreco riguardante il tempo degli studenti, che passa per cosa dovuta. Invece è la prima inciviltà che si tira dietro tutte le altre. Continuano a parlarmi di libri da citare, autori da inserire, altrimenti il mio lavoro non ha sufficiente dignità accademica. Mi sento stupida.   

Roma. Sciopero nazionale della scuola. Manifestazioni in giro per l’Italia. Milano, Bologna, scontri, due cortei a Palermo. Dall’alto si paventano arresti e fermi, solito tono velato. Senza parere, la galera è dietro l’angolo. Carcerazione preventiva, come la guerra, come il pensiero.

Calca davanti al magazzino hi-tech, periferia di Roma. Feriti e contusi. Ferocia commerciale suburbana. Almeno qualcuno pensa a razziare le offerte dei supermercati invece che a cambiare il mondo. La TV è generosa d’immagini a sommo scopo. L’isterismo fa buon latte.

31 ottobre

Mattina. Caffè letterario. Si discute dei Cantos. Un’isola di umanità troppo piccola, la forma di una bellezza troppo fragile, adesso.

Da giorni sanguina l’est del Congo. Li chiamano conflitti etnici. Calcolati, poi  imprevisti quando si tratta di fermarli. Il nuovo hotel Ruanda ha aperto i battenti.

McCain Obama. Il bianco e il nero. Manicheismo in scena, anche questo copione sembra scontato. E mesi che se ne parla……

1 novembre

Congo. Soldati governativi sparano a freddo sulla gente. I ribelli bruciano un accampamento di profughi. Bambini schiacciati nella calca mentre chiedono cibo. Dacci oggi il nostro pane. Il grido di un continente.

Polemiche con la Germania sulle stragi nazifasciste. Strumentalizzazioni sui risarcimenti, proprio in mezzo alla crisi. Infinita vergogna per chi è morto. Non era proprio il caso.

2 novembre

Domenica sera. Falso Clamore. Al solito. Dura meno di un attimo, poi silenzio. Resa incondizionata. Ormai è facile, so come si fa.

Scorrono le immagini della Formula uno. Modelle ai box coccolano settantenni in livrea da milioni di euro. Shock di cilindrata.

3 novembre

Il lunedì si comincia sempre dal conto delle perdite. Il Ministero dell’economia informa. Nei primi dieci mesi dell’anno il settore statale fa registrare un fabbisogno di circa 52,5 miliardi di euro. È un aumento, si dice, di circa 14,5 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2007.

Crisi Alitalia. Ci perseguita da settembre, anzi da prima. Pur con tutti i soldi pubblici che son finiti lì per far volare la bandiera, l’accordo è sempre in bilico. Si cerca ancora di raschiare il barile. Il tavolo dei debiti è tutto nostro.

C’è una donna che ha ereditato dal padre un mestiere bellissimo, salvare le piante. Sono alberi da frutto che nei secoli hanno sfamato tanta gente. Ma il mercato oggi li ha dimenticati. Bisogno di velocità, e in questo viene meno l’attenzione per le cose preziose e che vivono con maggiore lentezza. Naturalmente nessuno la finanzia. Così anche per le persone.

4 novembre

Anche le luci della sala computer hanno cominciato a stancarmi. Così, in biblioteca, alle spalle ho il solito ricercatore scosso dalla sua tosse isterica. Mi tornano in mente le mattine al liceo, l’arrivo in classe, odore di panni lavati, voce ancora assonnata, gesti impacciati di un’adolescenza tra mura malate. Fastidio e brividi.

Election day. Il mondo aspetta. No, il mondo aspetta?  

Dietro i vetri. Vento che scuote le case. Ma l’indifferenza è più forte.

5 novembre

Piove, i Senegalesi vendono ombrelli per strada. La bacheca davanti alle scale del dipartimento puzza d’umido e monotonia. Su pochi fogli imbarazzati gli accenni a una protesta che cerca di non soffocare. Accanto la lunga lista di saggi compilata da un giovane laureato in storia americana, impaziente di rivendere. Un altro cede il suo stipetto dei libri, con tutti i libri, per duecento euro. Rateizzazione del disincanto.

Si parla di campagna elettorale epica per le presidenziali statunitensi. Ma sembra più che altro che si elegga una reginetta del cinema o la nuova miss da calendario. A guardar bene le mitologie sono s-cadute dalle ginocchia delle società. Abbiamo ancora soltanto qualche simbolo che pare incepparsi di continuo. La crescita della percentuale di votanti è forse timore del fallimento della democrazia; ma il timore resta senza rappresentanza.
Si fa ressa sull’orlo della crisi.

Congo, centomila profughi. La versione ufficiale: è colpa degli Africani che geneticamente non sanno organizzarsi. Non si sono dati da fare in tempo e questo ci autorizza a depredarli.
Intanto vince l’uomo della speranza. Si mette a dormire la favola della libertà si comincia la nuova hope tale. Raccontata da uno di loro o uno di noi?

La forma di molte sere quaggiù, ombre masticate tra il ponte e il fiume, sentore d’esilio ma in mezzo agli altri, senza attraversare.

Exile’s song
And before the end of the day we were scattered like stars, or rain.
I had to be off to So, far away over the waters,
you back to your river-bridge.  (Ezra Pound)
   
(Di Claudia Ciardi, novembre 2008)


16 novembre 2016

Lo sgambetto dove lo metto





Mi è capitato qualche giorno fa di infilare la porta sbagliata e finire in un cortile chiuso. Un posto proprio squallido, labirintico, come tanti ce ne sono in ogni città, e più t’illudi di trovare l’uscita più finisci nei guai. Vedi uno slargo, una propaggine di strada dietro il muro di un palazzo ma sono solo angoli ciechi. E tuttavia la cosa di gran lunga più sconcertante è stata entrare lì dopo aver chiesto indicazioni. Un’impiegata sorniona, che mi è venuto in mente d’interpellare quando ero ormai sulla soglia, ha agevolato con un gesto di stizzosa noncuranza la mia uscita nel nulla. Dico: avvertimi no, che da lì non si va in nessun posto. L’avevo evidentemente disturbata e il sadismo è prevalso sulla bontà. Gongolava già al pensiero di vedermi tornare nella stanza, scornata, lamentando la disavventura. Invece non è stato così, e poi figurati col carattere che ho se le davo una soddisfazione del genere, piuttosto avrei fatto notte nel cortile; ho trovato un’altra porta sul retro e finalmente un persona gentile che mi ha accompagnata. Ad essere sincera tutta la faccenda ha avuto un risvolto piuttosto ironico e l’epilogo si potrebbe definire soddisfacente. Ma è durata poco. Rimeditando i fatti, una cosa in cui cado purtroppo abbastanza spesso e che non mi giova per nulla, ho cominciato ad arrovellarmi e i fastidi sono aumentati in maniera più che proporzionale rispetto alla questione. Al punto da vederci uno spaccato dell’Italia di adesso, e in qualche misura anche delle mie personali riserve su certe azioni o più spesso inazioni.
Sarà che il confronto protratto in anni con un’altra cultura ha enfatizzato certe differenze – poi i difetti si sa son dappertutto – ma la dottrina del “lascia fare, lascia perdere” la tollero sempre meno. Se una persona sbaglia, si dice, se una cosa non va bene, si cerca una soluzione. Insomma ci s’impegna. Purtroppo però tra salvatori da bar, opportunisti, dissidenti a tempo perso, banderuole gonfiate dalla provocazione, tanto per non farsi mancare nulla, che di regola quando perdono tutti i denti si ritirano in un silenzio piccato perché non hanno più che mordere, è arduo incanalare le residue energie positive in un progetto anche pur minimamente incline alla pubblica utilità. È un po’ come guardare certe interviste dove la ‘gente semplice’, categoria piuttosto trasversale quanto astrusa, viene invitata a pronunciarsi sui problemi quotidiani: povero idiota, tutto bene, ma se un politico facesse davvero quello che dici, tu smetteresti di essere un semplicione e questo non conviene a nessuno. Chi fa l’intervista lascia quasi sempre scorrere un sottotitolo del genere.
Ecco come perdersi nel retro di un palazzo a causa della sadica frustrazione di un’impiegata può guastarti il pomeriggio.

Ma ci sono anche altre vie destinate a sfociare nel nulla e in quelle laboriosissimi tarli che indisturbati perseguono la loro opera di demolizione. Perché mantenere a tutti i costi un equilibrio, quando il carico nella stiva rotola e sbatte da tutte le parti, non è conservare ma distruggere il poco di sano che resta. Mi riferisco a un certo tenore del dibattito sugli ultimi clamorosi sviluppi in terra d’occidente – Brexit e Trump – anche se già limitare il discorso alla protesta denuncia un’incomprensione di fondo. L’anno scorso dissi che quel che la Grecia non aveva avuto il coraggio, ma forse è più giusto dire la forza, di fare si sarebbe di lì a poco materializzato in altre circostanze. Facile coalizzarsi contro una Grecia piccola, isolata, fiaccata da anni di crisi e compromessa dalla moneta unica. Un po’ meno lavorarsi gli inglesi che l’euro non se lo sono mai intascato. Ricordiamoci inoltre che la campagna referendaria nel Regno Unito è stata di inaudita violenza, culminando nell’omicidio della giovane parlamentare Jo Cox, dimenticata in fretta quasi fosse stato uno scomodo incidente di percorso. E di questo è responsabile la classe politica per intero ma il governo più degli altri in quanto attore principale chiamato responsabilmente a dare un indirizzo: non si incrudisce un appuntamento elettorale evocando ogni tipo spettro. Vale anche per questa brutta Italia esacerbata, che dimostra di non aver imparato nulla neppure da un episodio così sanguinoso.  
Volendo approfondire un pensiero che esula dai risultati delle ultime contese elettorali, il giudizio di molti osservatori lascia trapelare fin troppo scopertamente irritazione, se non astio, nei confronti di quei ceti impoveriti che vogliono far sentire la loro voce, valendosi del solo strumento che la democrazia gli mette in mano: il voto. Quello ha perso i suoi quattrini, ha uno stipendio, quando ce l’ha, eroso da ogni genere di gabella, che t’ha fatto di male?
Immaginare che il peso di scelte compiute in lontananze siderali si scarichi sugli stessi e che questi poveri stessi – poveri alla lettera ma più latamente esponenti di una società in cammino che è chiamata a innovarsi – insomma, che questo coacervo di esseri umani con le proprie aspettative non abbia nulla su cui risentirsi ma anche nessuna istanza da avanzare, è procedere coi paraocchi. Se una classe dirigente perde autorità, i cittadini scelgono in modo che certi privilegi non arrivino più dove fino a quel momento sono stati indirizzati. Perché ci si scalda così tanto? È un normale avvicendamento di potere. Se qualcuno si è compromesso troppo con certi caroselli, non occorre s’invelenisca a tal punto. Aumenta soltanto lo spessore della sua figuraccia. Buttarla nei sempiterni fascismi è troppo comodo. Nessuna fase storica calca esattamente le orme di un’altra. I conti che si stanno chiudendo o aprendo in diversi paesi occidentali traducono spinte ben diverse. Anche laurea pax che abbiamo declamato dal secondo dopoguerra – peccato però per quel suo terribile vero volto che è stata la guerra fredda – ha espresso i suoi aspetti elitari, esclusivisti, iniqui. La pace esige un prezzo talora non meno salato della guerra, peggio ancora se su una guerra si fonda. Quando gli esclusi dal sistema diventano troppi il sistema si rovescia. Accumulo curriculare, sbarramenti di ogni ordine e grado in una carriera, l’invocato liberismo che però nel caso di paesi arretrati come il nostro non genera mai vera competizione ma solo piccoli e mediocri potentati, corruzione dilagante. Se l’ascesa sociale te la devi pagare, se ciò che hai intorno non ti valorizza né cerca concretamente di incontrare le tue capacità, la classe dirigente invecchierà fino a dissolversi, non solo per ragioni anagrafiche.    
Io, dunque, mi sarei aspettata delle analisi più pacate. In fin dei conti si tratta di un fenomeno comprensibile, direi elementarmente leggibile. È accaduto che le crescenti difficoltà in cui siamo immersi, alcune lasciate maturare ad arte, abbiano creato una massa critica. Che poi questa massa cerchi il riscatto in personaggi non proprio piacenti ci sta, se d’altra parte mi metti di fronte a due candidature deboli, vado da chi non mi sembra vantare legami col già visto già sentito” – diciamo che affidare la rivoluzione a un miliardario è quantomeno inquietante però a livello di analisi sociale non è poi un così alieno paradosso. Si vuole smuovere qualcosa, la palude in cui ci siamo cacciati ha un costo che non siamo più in grado di pagare.
È una scelta d’azione. Se giusta o sbagliata, si vedrà. 

E vengo a un commento molto spassoso che mi è venuto sotto gli occhi mentre cercavo notizie sul ricorso di Onida contro il referendum costituzionale. Lo voglio trascrivere per intero perché indicativo di quell’atteggiamento di autoreferenzialità che diversi nostri connazionali continuano a incentivare, forse trovandolo rassicurante:

«Portiamo il ricorso alle sue estreme conseguenze giuridiche.
Onida chiede l’annullamento del DPR che indice il referendum e di tutti gli atti ad esso presupposti e cioè:
- la richiesta di referendum del comitato del sì (unica che ha raggiunto il numero minimo di firma previsto dalla costituzione);
- la richiesta formulata da un quinto dei deputati: il cui quesito è identico a quello contemplato nel DPR.
Bene, se venisse annullato il DPR e gli atti ad esso presupposti, non vi sarebbe alcuna valida richiesta di referendum; e siccome il referendum si celebra solo se vi sono valide richieste in tal senso (altrimenti la legge costituzionale entra in vigore), possiamo dire che laccoglimento del ricorso di Onida avrebbe come effetto giuridico quello della entrata in vigore della legge costituzionale!
A me va bene...»

In sostanza i giochi per chi scrive sarebbero chiusi, e gli elettori un superato complemento d’arredo. Come poi il ricorso avrebbe potuto determinare l’approvazione della riforma costituzionale senza passare dal voto, mi sfugge. Un giudice è chiamato a pronunciarsi sulla procedura ma l’eventuale applicazione di quanto stabilisce compete ad altri. Ammesso che Onida avesse incassato un parere favorevole, si sarebbe dovuto iniziare un dibattito, con il coinvolgimento di tutte le forze politiche, su come risolvere la questione. E non è detto che la data del referendum avrebbe subito variazioni. Del resto, in un clima così incendiario, chi si sarebbe preso la responsabilità? È un discorso simile allazione legale intrapresa contro la Brexit. Anzi, qui il caso è ancora più discutibile in quanto consumato ex post. Ho sentito persino qualche sedicente esperto di diritto sostenere a caldo che quel ricorso potrebbe rovesciare l’esito referendario. Poi sono intervenuti gli autori a fare chiarezza: rovesciare il voto non sarebbe possibile, si tratta solo di provare a dare un peso contrattuale ai sostenitori del remain nella trattativa con l’Europa.
È un po’ come quando si legge il commento del ragazzino fresco di studi esteri che si imbizzisce. Ma davvero credi di conoscere un paese solo perché ti sei fatto sei mesi in una metropoli? E poi intendiamoci mica sei stato in una banlieue. Le metropoli sono organismi complessi che riflettono la storia e le oscillazioni contemporanee in mille sfaccettature diverse. Sbagliato dire che non sono rappresentative delle dinamiche di un paese ma troppo affrettato pensare che tastandone il polso si ottenga l’immagine veritiera di tutte le forze in campo. Torniamo agli Stati Uniti. Io personalmente, in tutta la campagna presidenziale non ho sentito parlare quasi mai dell’America profonda: Alabama, Idaho, Iowa, Missouri, Montana, Nebraska, Wyoming dov’erano? I contribuenti stanno anche là. Il vecchietto dove lo metto cantava Domenico Modugno in un testo di sconfortante amarezza. E per il vecchietto posto non c’era mai, nemmeno al cimitero.
Nel racconto di una situazione tanto fluida infilare la porta del retro, mentre qualcuno indica una falsa uscita solo per farvi girare ancora un po’ a vuoto, tra uno sgambetto polemico e l’altro, è un rischio più che preventivabile.

(Di Claudia Ciardi)


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