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14 novembre 2020

Κρίσις – Cronache dell’economia che non c’è

 

Per il secondo trimestre del 2020 l’Ocse certifica il reddito delle famiglie italiane a meno 7,2%. Nel medesimo periodo il Censis dichiara che sono a rischio chiusura 460.000 imprese. Dati da bollettino di guerra che sicuramente non sono ancora definitivi, in quanto manchevoli delle reali implicazioni delle nuove misure restrittive in vigore da poco meno di due settimane, con conseguente ulteriore rallentamento dei motori economici. La battuta d’arresto portata dall’epidemia negli assetti mondiali ha aggravato un quadro reso instabile da almeno un decennio di crisi, all’interno del quale la situazione greca ha toccato il punto più basso, pagando al contempo il più alto prezzo in termini di depauperamento sociale. Dal 2010 la Grecia vive in bilico, senza aspirazioni né progetti di lungo termine, e poco ha significato l’uscita due anni fa dal programma di austerity. La durata pluriennale di quei piani, l’introduzione repentina di riforme che hanno determinato un taglio netto del potere d’acquisto in ogni ceto, la conseguente prolungata contrazione dei meccanismi produttivi hanno fatto saltare i residui e già fragilissimi equilibri interni, gettando la popolazione in un tunnel depressivo, fatto di vulnerabilità e mancanza di slancio, esponendo il paese al miglior offerente. La Cina ha saputo introdursi sapientemente in queste crepe, prima stabilendo le proprie teste di ponte al Pireo, fiore all’occhiello tra le infrastrutture greche ed hub imprescindibile per il ripristino della via della seta. Poi firmando accordi per la cessione di asset strategici essenziali, come ad esempio quello energetico. Vanno peraltro in questa direzione le recenti aperture del neopremier Kyriakos Mitsotakis, che dopo aver lanciato accuse al suo predecessore Tsipras sulla svendita del paese a Francia e Germania, ha impresso una definitiva svolta a oriente. L’Europa, in una sorta di tacita connivenza che suscita inquietudine, ha lasciato fare, favorendo anzi questa tendenza proprio attraverso politiche antifrastiche rispetto alla capacità di ricucire e ridare linfa al tessuto sociale.
Tanto per ricordare alcune misure che hanno fiaccato il popolo greco creando una pericolosa infiltrazione in una delle frontiere mediterranee più delicate e nodali; fronte all’Asia, spalle ai Balcani con tutto ciò che si sta giocando su queste rotte. Tre bail-out che hanno disposto altrettante tranche di aiuti economici secondo i dettami della Troika. Tali imposizioni si riassumono in privatizzazioni e tagli a tutto il tagliabile. Un greco sorpreso a far legna nei dintorni di Atene disse in quei giorni che ci vuol tempo per abituarsi alla povertà; durante la guerra e nel dopoguerra avevano imparato a gestirla, ma trovarcisi in mezzo da un giorno all’altro significa soccombere.
Dura resistere, la voragine aveva iniziato a inghiottire centinaia di migliaia di vite. Alla fine del 2018, quasi dieci anni dopo la cura da cavallo, il 35% della popolazione era a rischio esclusione sociale (contro il 23% della media europea, comunque un valore alto). Più di mezzo milione di greci, per lo più giovani e neolaureati, ultimi figli di quella borghesia che per un po’ ha potuto contare su qualche rendita di posizione pur ridotta dall’impatto della crisi, sono emigrati. Il calo delle pensioni è stimato tra il 40% e il 60%. Il tasso di natalità è tuttora in caduta libera, il più basso del vecchio continente. Il potere d’acquisto delle famiglie evaporato per più di un 30% rispetto al periodo pre-crisi. L’introduzione di un rigido controllo sui capitali ha comportato fra le altre cose un limite giornaliero al prelievo pari a sessanta euro (rimosso solo a ottobre 2018 con la fine dell’ultimo programma di aiuti). Nei momenti più foschi di quelle imposizioni economiche si vociferò di riformare perfino l’alfabeto greco, troppo difficile, troppo fuori dal tempo, si disse. Se questa non era un’intromissione che andava al di là del rimettere in sesto i conti, come definirla allora? Alla resa economica si puntava anche attraverso una sconcertante resa culturale.

Nel mentre, cosa impensabile fino a pochi anni prima, dal maggio 2016 in accordo col Fondo Monetario Internazionale iniziò una concertazione per l
alleggerimento del debito greco, così da ridare respiro al paese. La questione ellenica si trascinava da così tanto tempo che i creditori avevano cominciato a valutare questa azione. Alleggerire significava ritardare le scadenze dei pagamenti sulle esposizioni che la Grecia aveva nei confronti degli altri paesi europei. Per anni ciò è stato politicamente impraticabile, in particolare per l’opposizione della Germania, che temeva di creare un incentivo perverso ad altri paesi europei. E proprio riguardo il debito tedesco, udite, udite: «Quanto ad affidabilità fiscale, la Germania ha già fatto bancarotta quattro volte. Il suo miracolo economico deve molto al taglio del debito postbellico ottenuto nel 1953. La sua crescita dopo l’annessione della Germania est nel 1990 ha goduto della indiretta ma congrua partecipazione europea al colossale trasferimento dei capitali verso i nuovi Länder, tuttora in corso (una Transferunion interna). Infine, da quando esiste l’euro Berlino non è mai stata sanzionata malgrado abbia violato almeno sei volte le regole di austerità da essa reclamate – tra cui lo stesso patto di stabilità – e abbia spesso ecceduto il limite del 60% fissato dai trattati per il rapporto debito/pil (oggi è al 74,7%). Per tacere del formidabile surplus della bilancia commerciale, squilibrio macroeconomico incompatibile coi trattati». (Dall’editoriale di «Limes», n.7, 2015, pp. 21-22; un numero direi canonico se ci si vuole documentare sulla crisi greca e le sue radici storiche – peccato solo per l’assenza di voci femminili – penso ad artiste, scrittrici, cantanti di rembetiko, in quanto il loro punto di vista avrebbe dato un contributo essenziale all’analisi).
Per ammissione dello stesso Jeroen Dijsselbloem, l’ex capo dell’Eurogruppo che riunisce i ministri delle finanze dei diciannove Stati membri: «Sulle riforme l’Unione Europea ha chiesto troppo al popolo greco in cambio del salvataggio. La loro crisi è stata così profonda che non si può certo definirla un successo».

Dunque, se dopo l’introduzione della moneta unica il risparmio ha registrato un’erosione costante negli anni – si è parlato in un precedente articolo dei rapporti Ires per l’Italia –  mancava un casus belli, qualcosa che mettesse alla prova il sistema. E prima venne la Grecia. Qui si è compreso, come mai in precedenza, che se vivere in un assetto comunitario implica certamente la condivisione delle regole, quelle stesse regole possono arrivare quasi a strangolare se la loro applicazione avviene in esclusiva osservanza ai protocolli, senza essere concertate e mitigate sulla base del problema da risolvere.
Un’Europa che perde pezzi – lo si è visto con Brexit – non la paventata uscita della Grecia, come si diceva all’indomani dell’esplosione del debito greco, ma quella di un paese che nella storia ha sempre mal digerito l’attorialità continentale della Germania e che una volta di più ha preferito guardare alla propria alternativa in materia di commerci e prospettive politiche, il Commonwealth. Un’Europa che annuncia un piano Marshall per fronteggiare la crisi innescata dal coronavirus, ma che rischia fortemente di frammentarsi ancora, sui tempi, l’entità degli aiuti, l’efficacia territoriale, veloce, precisa, consapevole delle difese da mettere in campo, per ora oggetto soltanto di fantasiosi auspici. E sulla quale perciò alleggia, ancora una volta, lo spettro di quei rapaci interessi esterni cui accennavamo nel descrivere la condizione greca. Un’escalation, lo ripetiamo, che non nasce all’inizio di quest’anno segnato dalla pandemia – anche se in molte analisi si è voluta enfatizzare una cesura tra il prima e il dopo, tra numeri che apparivano da boom economico se rapportati con i freni del lockdown, al punto da farci dimenticare quell’incubo quasi ventennale della cosiddetta “recessione in crescita”, su cui alcuni economisti più capaci e lungimiranti hanno provato a richiamare la nostra attenzione. Incubo che in maniera subdola ha preparato il terreno a un divario che se finora è stato in qualche misura relegato a sacche della società indebolite, instupidite e non comunicanti fra loro, corre pericolo, adesso, su numeri estesi e in rapido aumento, di uscire dal quel “caos controllato” e fare massa critica. Critica, crisi. Torniamo alla nota parola strapazzata dal dibattito contemporaneo.
Dal greco κρίνω = separare, cernere, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare. Originariamente di derivazione agricola. Il verbo era infatti utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività conclusiva nella raccolta del grano, consistente nella separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula. Da qui derivò sia il primo significato di “separare”, sia quello traslato di “scegliere”. A differenza dell’antico in cui descriveva un momento di passaggio, con le incertezze e aspettative che ciò implicava, nell’uso moderno si è connotata negativamente in quanto indicherebbe il peggiorare di una situazione. Ultimamente abbiamo sentito ripetere fino alla noia che la crisi può essere un’opportunità. Un concetto nobile in sé, ma come tutto ciò a cui si ricorre in misura eccessiva, purtroppo precocemente ammantato di banalità. Visto che la Grecia può essere considerata in maniera inconfutabile la prima esperienza di riassetto economico fronteggiata dall’Ue, e dati gli esiti complessi e poco lusinghieri che ha avuto, giusto per usare un eufemismo, c’è da chiedersi se l’Unione sia davvero pronta alle manovre di largo respiro cui sarà chiamata per la nuova crisi acuita dall’epidemia e che rischia di andare fuori controllo. In questi anni si è detto che c’è stata fin troppa economia, forse invece non c’è n’è stata abbastanza. Mi spiego. Laddove era necessario rimettere in discussione i modelli, la preferenza è stata accordata, per pigrizia e insipienza, ma anche per non toccare certi interessi, a cose note, alle lezioni del passato mentre i nodi che man mano abbiamo scoperto disegnavano scenari inediti, in continuo mutamento. A un certo punto le posizioni hanno iniziato a polarizzarsi, tra economisti osservanti dei metodi tradizionali e studiosi propensi a innovare. Ne sono nate discussioni, polemiche anche accese, in alcuni casi aperture ma tardivamente e sempre senza raggiungere obiettivi comuni. Avremmo dovuto essere incisivi, adattabili, visionari. E soprattutto ritrovare uno slancio politico autentico fuori dalle agende preconfezionate, impugnate a seconda del momento come fossero copioni intercambiabili. Il professor Canfora ha più volte citato la lunga guerra del Peloponneso per descrivere le dinamiche belliche di inizio Novecento. Non tanto due guerre separate da una ventennale crisi economica, piuttosto un conflitto permanente, che per certi versi rassomigliava alla sfibrante lotta intestina in cui la Grecia si dilaniò. Uno spunto che potrebbe tornare utile a descrivere anche le annose contrazioni e contraddizioni di questo inizio millennio, di fronte alle quali finora ci siamo arresi, subendole come fossero una necessità preordinata, anziché provare a convogliarle verso un orizzonte umanamente comprensivo e sostenibile.
Così invece ci ritroviamo frastornati, stanchi e sguarniti davanti alle sfide che ci attendono. La pressione scaricata sulle strutture ospedaliere che sono in questo frangente i bastioni più esposti, è solo uno degli indici che stanno marcando rosso e che ci avvisano che le nostre strutture, quelle costruite a partire dal dopoguerra e l’impostazione che gli abbiamo dato, sono compromesse.
Sviluppare strategie vincenti e vantaggiose comporta sacrifici e soprattutto avere carattere per superare la tempesta, da cui non si uscirà se non profondamente cambiati, il che non basta e non comporterebbe alcun moto in avanti senza il coraggio di prendere in mano questo cambiamento.

(Di Claudia Ciardi)


Per approfondire:

Tra Euro e Neuro. La tragedia greca spacca l’Europa, la Germania domina ma non guida e si scontra con l’America, «Limes» 7, 2015

Il rompicapo Atene sulle scelte di Draghi, «Corriere della Sera», 30 dicembre 2014

L’incognita Grecia scuote l’Europa, «Corriere della Sera», 30 giugno 2015

Il No greco spaventa l’Europa, «Corriere della Sera», 6 luglio 2015

La Grecia un anno dopo, «Il Post», agosto 2016

La Grecia è davvero uscita dalla crisi?, «Money»,  gennaio 2020

Weimar - La tentazione delle similitudini storiche

Luciano Canfora, 1914

Marco Revelli, Poveri noi, Einaudi


Il rompicapo Atene - 2014


4 aprile 2020

Italian dream


Qualche giorno fa mi è tornato tra le mani un diario che compilai nel novembre 2008, poche settimane dopo l’inizio della grande tempesta finanziaria che segnò quell’anno e le politiche dei molti a venire. Fu l’ultimo scritto a carattere sociale che destinai alla rivista universitaria, l’ultimo che accese la discussione coi miei compagni. Da allora non ho più fatto la prova di rileggere quei pezzi, con l’eccezione appunto di questo “Italian dream”. Il titolo richiama il cosiddetto “sogno americano” che dalla seconda guerra mondiale ha cullato l’occidente, per certi versi cullandolo ancora. Stride ovviamente con i tanti disastri cui l’utopia si è accompagnata, non ultimo il divario sociale che il diffondersi delle nuove tecnologie avrebbe avuto il compito di risolvere, salvo poi ridestarci nel bel mezzo del ciclone.
Come sempre accade mentre si vive un evento, è difficile valutarne pienamente la portata e le ricadute. In queste settimane abbiamo fatto esperienza del concetto di distanziamento. Abbiamo attuato una separatezza fisica tra noi e gli altri perché il contagio corresse meno velocemente. Una simile disposizione può giovare talvolta anche nel discernere i fatti. L’attesa si scopre spesso molto più proficua della riflessione a caldo. Mi son sempre chiesta come fosse possibile scrivere nell’immediatezza di un avvenimento; intendo una narrazione, una poesia. Son cose queste che necessitano di profondità e per andare in profondità, per scendere dalla superficie, occorre prendere le distanze.
Del 2008 si intuiva che sarebbe stato un anno di svolta, in senso peggiorativo. Tuttavia da questo peggio avremmo potuto trarre una lezione, cogliere un’opportunità per consolidarci in un assetto diverso che nel presente si sarebbe rivelato d’importanza strategica.  Di certo fu un anno che impattò negativamente e con sinistra accelerazione dopo il quinquennio e più di ricadute seguito all’ingresso nell’euro. E qui non si vuol fare una riflessione pro o contro la moneta unica, ma semplicemente constatare che quella scelta comportò una pesante erosione del potere d’acquisto e delle capacità di risparmio di una parte molto estesa dei nostri connazionali (si vedano i rapporti Cies sull’esclusione sociale dall’inizio del nuovo millennio). Quando il crollo del 2008 ci investì, le strutture erano già fragili e non si misero in campo provvedimenti adeguati, non si formularono piani coraggiosi di rilancio accompagnati da ammortizzatori sociali e strumenti di previdenza veramente inclusivi. Si preferì adattare le cornici dei bilanci, rimanere invischiati nella rigidità dei parametri, fare quello che si presumeva apparentemente gradito ai mercati – senza che peraltro vi fossero reali stabilizzazioni e ricadute positive neppure per quelli. Oggi che viviamo un’emergenza inaspettata scontiamo lassenza di tutele che allora andavano incardinate e i plateali errori di quel recente passato.
Il presidente dell’associazione dei comuni italiani, dunque un portavoce dei territori, ha dichiarato che oggi, il reddito di cittadinanza, in una situazione che ci sta facendo sfiorare il dissesto, si è rivelato l’unica misura che ha permesso di arginare i risvolti estremi del conflitto sociale. Ad ora il reddito di cittadinanza è la sola forma di accredito diretto di denaro che offra qualche garanzia agli strati privi di protezione, espulsi dal mercato del lavoro, parcheggiati in un incubo perpetuo di inedia e impossibilità di far valere i propri diritti. Adesso si è costretti a parlare di reddito di emergenza: allora perché, mesi fa, si continuavano a portare attacchi imbarazzanti contro tale misura che sta offrendo l’esempio per le politiche attualmente in discussione di sostegno al reddito? Perché ancora oggi, qualcuno, con scarsa lungimiranza e mostrando di non capire il quadro di crisi globale che va configurandosi, insiste col dire che si tratta di un provvedimento inutile, se non deleterio? Se questo strumento non fosse stato così osteggiato, già mesi fa si sarebbero potute stanziare risorse maggiori e arrivare meno impreparati all’oggi. Si poteva ampliare la platea dei beneficiari, perché molte attività e tanti liberi professionisti scontavano da lungo tempo situazioni ai limiti della sopravvivenza. Gettando lo sguardo oltre l’epidemia, la crisi del fattore lavoro è un elemento che non si può più fingere di ignorare: precarizzazione, caduta dei salari, automazione che sostituisce la figura del lavoratore, anche specializzato. L’epidemia sta solo accentuando un processo già in atto, è una sorta di “cigno nero” che incontra quello che aveva scosso le economie mondiali nel 2008. L’ortodossia liberista, al di là delle implicazioni sociali che disapprovo, non è più funzionale. Produce sacrifici che non portano da nessuna parte e non consente di riavviare il motore. È un tempo nuovo, occorre una mentalità nuova per interpretarlo. 

(Di Claudia Ciardi)


* Ripropongo la versione quasi integrale del 2008. La rilettura ha comportato qualche minimo intervento sul testo, alcune correzioni sulla punteggiatura, l’adattamento dell’introduzione, qui più sintetica rispetto all’originale.





Italian dream

(prego non svegliateci)

Questo breve elenco di sensazioni ed eventi è vicino ai due diari da me compilati sul marzo francese e la rivoluzione d’Ungheria, senza tuttavia continuare a svolgere i temi e le motivazioni che hanno portato alla scrittura di quei progetti. Non solo infatti è passato diverso tempo dai due precedenti lavori (entrambi si riferivano a fatti accaduti nel 2006) ma ciò che ancor più mi separa da essi è una sorta di rassegnata inquietudine, se l’aporia di questa espressione può essere accolta, che sembra approdare a un disincanto dalle ricadute nettamente fisiche e che mi impedisce di raccogliere qualsiasi energia per commentare.
In questo che non saprei definire né diario, né cronaca, né pamphlet, ho lasciato incontrare nel modo più semplice e asciutto possibile le date, i fatti, le impressioni personali.               
                                                                            

 Ai sogni non ancora saccheggiati              
                                                                           
22 ottobre

Cagliari. Alluvione. L’acqua e la terra scese dai monti investono le case costruite davanti al fiume. Da qualche parte dovevano defluire. Dispersi.

23 ottobre

Monitoraggio ambientale in ritardo. Visita di rito della protezione civile. Ci si sbriga tra sopralluoghi e bollettini. Poi via tutti. La gente resta in casa a spalare il fango e a prendersela col mutuo trentennale da pagare. 

Pisa: in ventimila. Si manifesta contro l’assalto alla scuola pubblica. Le ombre della crisi finanziaria fanno ressa quanto la gente per strada.

24 ottobre

Borse giù. Una caduta libera che dura da troppe settimane. I mercati bruciano, le cifre spargono ipoteche sulle vite di tutti ogni giorno che passa.
 
25 ottobre

Sabato sera. Al solito. Tutto inutilmente tranquillo. Fa quasi rabbia questo anestetico ordinato a larghe dosi dal Comitato di Salute Pubblica. In televisione gli fa da pendant la parodia del Ministro della Paura. Anche la satira diventa ripetitiva e doppia il senso di vuoto.

26 ottobre

In città, piazza centrale. Tra proteste e aperitivi. I graziati al bar e i tampinati seduti in cerchio a sputare rabbia negli altoparlanti. Ma forse anche qui più apparenza che  diversità. Bisogno di sentire la vita in un corpo. La sua casa, lontana da questo. Fuggo, credo. Facciamo l’amore. Discutiamo, proviamo a immaginare una serenità che si ostina a scappare, anche lei. Tutto ha l’aria di essere così poco serio, terribilmente serio. 

27 ottobre

La borsa in perdita, ancora. Si pensa a salvare altre banche. Inflazione a portata di mano. Forse ne faranno qualche gadget. Coro affannato di numeri che segnano la regressione, pesante. Stavolta è una disfatta ma chiamarla così per qualcuno è vilipendio.

Colpi di coda. Il gigante imperialista continua a contorcersi. Si diffonde oggi la notizia del raid di ieri degli Stati Uniti contro la Siria. Nove morti, fiancheggiatori di Al Quaeda si dice. Guerra preventiva?

Sparatoria in un ateneo dell’Arkansas: due morti. Il ballo delle armi chiede coerenza al sogno americano.

28 ottobre

Si decide l’integrazione ambientale dell’Ilva di Taranto. Insorgono le associazioni e gli esperti che hanno valutato l’impatto del polo industriale sul territorio. Nei bambini tumori inspiegabili. Taranto città più inquinata d’Europa.

29 ottobre

Massa. Eaton, industria siderurgica sotto il vessillo americano. Il crollo dei mercati si porta dietro il crollo del lavoro. Licenziamenti. La società venduta al taglio.

Il decreto Gelmini è legge. Previsioni di gettito fiscale ridotto, sull’onda della riduzione dei redditi. Tagli.

Si protesta. Volo di spranghe a piazza Navona. Antagonismi di destra e di sinistra, ideologie ricucite per buttare sul palco vecchie provocazioni che ancora possono far comodo.
La polizia carica i dimostranti a Milano. Ma il premier assicura di non voler pestaggi nei cortei. Aria di lotta tra poveri costruita a tavolino. Meglio, lotta per la sopravvivenza. Ecco quando l’essere umano dà il meglio di sé.

30 ottobre

Per scrivere la tesi ho impiegato un tempo esorbitante. Il caos della mia testa e i casini della mia famiglia. Un bel condimento come al solito. Ora son cinque mesi che l’ho consegnata. Ma non frega a nessuno. Non pensavo si dovesse chiedere anche di leggerla. All’università non si dice mai dello spreco riguardante il tempo degli studenti, che passa per cosa dovuta. Invece è la prima inciviltà che si tira dietro tutte le altre. Continuano a parlarmi di libri da citare, autori da inserire, altrimenti il mio lavoro non ha sufficiente dignità accademica. Mi sento stupida.   

Roma. Sciopero nazionale della scuola. Manifestazioni in giro per l’Italia. Milano, Bologna, scontri, due cortei a Palermo. Dall’alto si paventano arresti e fermi, solito tono velato. Senza parere, la galera è dietro l’angolo. Carcerazione preventiva, come la guerra, come il pensiero.

Calca davanti al magazzino hi-tech, periferia di Roma. Feriti e contusi. Ferocia commerciale suburbana. Almeno qualcuno pensa a razziare le offerte dei supermercati invece che a cambiare il mondo. La TV è generosa d’immagini a sommo scopo. L’isterismo fa buon latte.

31 ottobre

Mattina. Caffè letterario. Si discute dei Cantos. Un’isola di umanità troppo piccola, la forma di una bellezza troppo fragile, adesso.

Da giorni sanguina l’est del Congo. Li chiamano conflitti etnici. Calcolati, poi  imprevisti quando si tratta di fermarli. Il nuovo hotel Ruanda ha aperto i battenti.

McCain Obama. Il bianco e il nero. Manicheismo in scena, anche questo copione sembra scontato. E mesi che se ne parla……

1 novembre

Congo. Soldati governativi sparano a freddo sulla gente. I ribelli bruciano un accampamento di profughi. Bambini schiacciati nella calca mentre chiedono cibo. Dacci oggi il nostro pane. Il grido di un continente.

Polemiche con la Germania sulle stragi nazifasciste. Strumentalizzazioni sui risarcimenti, proprio in mezzo alla crisi. Infinita vergogna per chi è morto. Non era proprio il caso.

2 novembre

Domenica sera. Falso Clamore. Al solito. Dura meno di un attimo, poi silenzio. Resa incondizionata. Ormai è facile, so come si fa.

Scorrono le immagini della Formula uno. Modelle ai box coccolano settantenni in livrea da milioni di euro. Shock di cilindrata.

3 novembre

Il lunedì si comincia sempre dal conto delle perdite. Il Ministero dell’economia informa. Nei primi dieci mesi dell’anno il settore statale fa registrare un fabbisogno di circa 52,5 miliardi di euro. È un aumento, si dice, di circa 14,5 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2007.

Crisi Alitalia. Ci perseguita da settembre, anzi da prima. Pur con tutti i soldi pubblici che son finiti lì per far volare la bandiera, l’accordo è sempre in bilico. Si cerca ancora di raschiare il barile. Il tavolo dei debiti è tutto nostro.

C’è una donna che ha ereditato dal padre un mestiere bellissimo, salvare le piante. Sono alberi da frutto che nei secoli hanno sfamato tanta gente. Ma il mercato oggi li ha dimenticati. Bisogno di velocità, e in questo viene meno l’attenzione per le cose preziose e che vivono con maggiore lentezza. Naturalmente nessuno la finanzia. Così anche per le persone.

4 novembre

Anche le luci della sala computer hanno cominciato a stancarmi. Così, in biblioteca, alle spalle ho il solito ricercatore scosso dalla sua tosse isterica. Mi tornano in mente le mattine al liceo, l’arrivo in classe, odore di panni lavati, voce ancora assonnata, gesti impacciati di un’adolescenza tra mura malate. Fastidio e brividi.

Election day. Il mondo aspetta. No, il mondo aspetta?  

Dietro i vetri. Vento che scuote le case. Ma l’indifferenza è più forte.

5 novembre

Piove, i Senegalesi vendono ombrelli per strada. La bacheca davanti alle scale del dipartimento puzza d’umido e monotonia. Su pochi fogli imbarazzati gli accenni a una protesta che cerca di non soffocare. Accanto la lunga lista di saggi compilata da un giovane laureato in storia americana, impaziente di rivendere. Un altro cede il suo stipetto dei libri, con tutti i libri, per duecento euro. Rateizzazione del disincanto.

Si parla di campagna elettorale epica per le presidenziali statunitensi. Ma sembra più che altro che si elegga una reginetta del cinema o la nuova miss da calendario. A guardar bene le mitologie sono s-cadute dalle ginocchia delle società. Abbiamo ancora soltanto qualche simbolo che pare incepparsi di continuo. La crescita della percentuale di votanti è forse timore del fallimento della democrazia; ma il timore resta senza rappresentanza.
Si fa ressa sull’orlo della crisi.

Congo, centomila profughi. La versione ufficiale: è colpa degli Africani che geneticamente non sanno organizzarsi. Non si sono dati da fare in tempo e questo ci autorizza a depredarli.
Intanto vince l’uomo della speranza. Si mette a dormire la favola della libertà si comincia la nuova hope tale. Raccontata da uno di loro o uno di noi?

La forma di molte sere quaggiù, ombre masticate tra il ponte e il fiume, sentore d’esilio ma in mezzo agli altri, senza attraversare.

Exile’s song
And before the end of the day we were scattered like stars, or rain.
I had to be off to So, far away over the waters,
you back to your river-bridge.  (Ezra Pound)
   
(Di Claudia Ciardi, novembre 2008)


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