Analisi di un’emergenza sociale, denunciata a mezza bocca, molto più frequentemente sottaciuta dai canali ufficiali dell’informazione. In queste pagine, concentrate soprattutto sul quinquennio che va dal 2006 al 2010, si racconta, statistiche alla mano, come le economie del vecchio continente abbiano subito nel corso di quegli anni cruciali un riassetto senza precedenti, gettando i singoli paesi in un limbo in cui il meccanismo redistributivo è rimasto inceppato e l’incertezza è divenuta la regola del mondo del lavoro, via via più rarefatto e disgregato, incidendo pesantemente sulla qualità di vita di milioni di cittadini. Un racconto inchiodato ai numeri dei rapporti Cies – Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, della quale Revelli è stato presidente proprio negli anni dell’affondo fatale dell’economia italiana – e a quelli diffusi da Istat, Eurostat e altri organismi, che nel periodo posto sotto osservazione hanno fotografato la crescita di uno stato d’emergenza ripetutamente mitigato da narrazioni politiche e mediatiche incaricate di stemperare, se non di distogliere l’attenzione da un qualcosa di somigliante a un incidente di percorso, nulla di più. Come se la crescita della povertà non dovesse in fondo riguardarci, tantomeno preoccuparci, come fossimo di fronte a una caduta fisiologica, una delle fasi alterne che si sono prodotte nel recente passato dell’esperienza capitalista. Come se il rischio di deprivazione, per quanto vicino, fosse sempre un po’ più distante da noi, in una misura bastevole da farci sentire sicuri. Eppure, le statistiche, la crudezza dei numeri, i sondaggi negli umori della classe media italiana, condotti all’inizio del millennio e poi di seguito, fino all’esplodere della crisi dei subprimes negli Stati Uniti accompagnata dalla fiammata inflazionistica del 2008, ci parlano di una fragilità materiale in aumento e di una parallela esasperazione psicologica a livello familiare e individuale – presidio tutto italiano quello della famiglia, con i suoi punti a favore ma anche le chiare limitazioni che un welfare informale incentrato quasi unicamente sulla parentela comporta.
A
fronte di ciò, si è registrato un arretramento dell’idea, e dunque della
pratica, universalistica dei diritti, la cui latitanza, laddove il cittadino
tende la mano a determinate forme di tutela aspettandosi la loro attivazione,
risulta ancora più nefasta in periodi di difficoltà. L’allarme lanciato da
Marco Revelli, nella sua puntuale e articolata rassegna sugli anni neri della
crisi non mancando di trattare i suoi immediati prodromi, è di una contestuale riduzione
del concetto di cittadinanza, che si riflette inevitabilmente su quello di
democrazia. Uno scivolamento da considerare con inquietudine, che gli squilibri
politici odierni riflettono nella sua totalità – una politica che entra sempre
più spesso in fibrillazione e che è costretta a ripiegare in assetti dichiarati
fino a un minuto prima irricevibili – e sullo sfondo un panorama immobile, un
ascensore sociale pressoché scomparso, dove perfino l’ingranaggio di
cooptazione nel ciclo lavorativo pende in modo inaccettabile verso favoritismi
privati, centri di potere, rapporti di forza vantati a titolo personale. Lo
sguardo dell’autore coglie nella realtà che va configurandosi «il rischio della
regressione a forme servili della cittadinanza – in cui alla forza emancipante
dei diritti si sostituisca il mercato delle protezioni e delle fedeltà», e
ancora «la ricchezza dei ricchi, come nelle società di ceto tardomedievali, è
diventata intoccabile. Se redistribuzione dev’esserci, che sia tra le già
scarse risorse degli altri, chiamati a contendersi le briciole del reddito e
dei diritti che non sono ancora evaporate nei circuiti astratti della finanza
globale e restano “in basso”, sul terreno, fisicamente visibili nella loro
prossimità».
Tipologie
diverse di lavoratori per diverse tipologie di cittadini. Dalla fine degli anni
Novanta, nel vortice delle ristrutturazioni aziendali, nel progressivo
smantellamento dei grandi poli industriali, nella giungla sregolata e competitiva
dei subappalti, vi sono state trasformazioni e migrazioni del lavoratore garantito,
legato a un contratto stabile e a un posto considerato altrettanto sicuro, in
zone opache del mercato, settori che hanno generato situazioni atipiche
contraddistinte dall’assenza di tutele. Questa implosione del lavoro tradizionale,
almeno com’era inteso nel cosiddetto periodo aureo del fordismo dalla fine
della seconda guerra mondiale agli anni Settanta circa, ha gettato intorno a sé
frammenti, estensibili, di precarietà. Lavoro dipendente e lavoro autonomo si
sono ricollocati nella parte inferiore della scala sociale, costretti a subire
l’aggressività di leggi di mercato sempre meno mediate, portati a reinventarsi,
attori inediti nei fatti dotati di limitatissima capacità di azione e autodifesa dai
contraccolpi di uno sviluppo economico progressivamente più liquido e
indecifrabile. Forza lavoro di regola sommersa, molto più di rado salvata.
Da ciò deriva che pure l’esercizio della cittadinanza risulti esposto a una altrettanto forte divaricazione. Essere cittadino non è infatti giocare un ruolo passivo. La passività si attaglia a quella cittadinanza dimidiata, spinta sull’orlo del baratro, quando non spinta fuori dai riti regolati del vivere comune. Si coglie dunque «la divaricazione radicale tra élite e popolo, con le prime proiettate in alto, nel grande circuito dei flussi ad ampio raggio, e l’altro ancorato ai propri luoghi. Le une titolari di un’ipercittadinanza in un sistema-mondo a scorrimento veloce che riconosce solo la legge del più forte e le stelle di prima grandezza, l’altro di una cittadinanza dimidiata, inerte, inevitabilmente passiva».
Da ciò deriva che pure l’esercizio della cittadinanza risulti esposto a una altrettanto forte divaricazione. Essere cittadino non è infatti giocare un ruolo passivo. La passività si attaglia a quella cittadinanza dimidiata, spinta sull’orlo del baratro, quando non spinta fuori dai riti regolati del vivere comune. Si coglie dunque «la divaricazione radicale tra élite e popolo, con le prime proiettate in alto, nel grande circuito dei flussi ad ampio raggio, e l’altro ancorato ai propri luoghi. Le une titolari di un’ipercittadinanza in un sistema-mondo a scorrimento veloce che riconosce solo la legge del più forte e le stelle di prima grandezza, l’altro di una cittadinanza dimidiata, inerte, inevitabilmente passiva».
Essendo
trascorsi dieci anni da questa scrittura, possiamo affermare che le dinamiche
qui trattate si sono oggi espresse con brutale compiutezza, allargando questa
intollerabile divaricazione, scagliando moltissimi in quella zona d’ombra
tragicamente ampliata che segna il confine tra miracolati, nuovi poveri o a
rischio povertà.
Fenomeno
tuttora in atto questo del depauperamento di massa, che in occidente ha il
volto di un feroce disincanto: colpisce infatti una platea di consumatori in
preda alle più alte e ottimistiche aspettative, ma li costringe a scontrarsi
con le loro ridimensionate possibilità. Parlarne è quasi un tabù, perché la
povertà spaventa, e il solo evocarla è inteso come una iattura; non la
razionale riflessione su un problema che sta facendo deflagrare le nostre
società, ma una intollerabile lettura pessimistica di qualcosa di endemico,
vecchio quanto l’uomo. È questa attitudine, peraltro, a giustificare politiche
orientate all’indifferenza o al ridimensionamento. Basti pensare alla bufera
che ha investito il reddito di cittadinanza, ancora al centro di polemiche, se
non attacchi velenosi al limite dell’intolleranza, in un’Italia che nell’ultimo
decennio ha visto evaporare il proprio pil e buona parte delle proprie rendite
di posizione, arrivata nel bel mezzo della lunga crisi con ammortizzatori
sociali scarichi e senza salvagenti sociali, unico caso europeo insieme a
Grecia e Ungheria. E ancora si trovano argomenti per litigare perfino su questa
misura di civiltà, difesa a ragione dallo stesso Marco Revelli in un suo
recente intervento.
Senza
rientrare nell’ottica di uno stato di diritto, senza tutele degli ampi strati
sociali caduti ai margini se non fuori dal sistema, senza riattivare quei
meccanismi strategici e vitali di redistribuzione dei redditi, unica terapia in
grado di abbassare il livello o prosciugare i serbatoi di invidia,
livore, intolleranza, odio, il rischio concreto di una regressione dei
fondamenti democratici è dietro l’angolo. Tutti i giorni si abbassa l’asticella
e scatta un fosco preallarme. Implementare le tutele, significa garantire la
tenuta di quegli strati sociali che sono l’unico argine funzionale a contenere il
disastro. Qualche metro più in là c’è un fiume in piena. Stiamo camminando, in equilibrio
sempre più precario, a pochi passi dalla piena.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione consultata:
Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, 2010 (e ristampe)
Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, 2010 (e ristampe)
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