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18 gennaio 2022

Il fuori tutto del nostro patrimonio culturale

 


Vengo da due mesi di dibattito serrato e da un lavoro intenso, che mi ha accompagnata negli ultimi quattro anni, condotto su un pezzetto del nostro patrimonio, sulle sue prospettive di conservazione, sulle esaltanti scoperte nei documenti d’archivio che hanno aperto ulteriori vie di ricerca. Vengo dall’abbraccio di un territorio che non è quello delle mie origini ma di cui nel tempo ho amato tutto, perché la gente che ho incontrato mi ha trasmesso con cura, devozione, professionalità le proprie radici, condividendole. Il confronto, la costanza dello studio, le belle intelligenze si sono unite nella tutela, nella ferma intenzione di rendersi utili, di fare qualcosa per il paesaggio, la cultura, le persone. Questa entusiasmante avventura umana, delle arti e della mente, si è trovata a navigare in gran tempesta non solo per l’emergenza determinata dalla pandemia, il cui protrarsi è però a mio avviso ormai anche il frutto di una gestione inefficace che invece ci si ostina a divulgare come la migliore possibile. Ma anche per un’atmosfera politica e culturale – diciamo di politica culturale – che non giova affatto, anzi contribuisce all’ingessatura e all’accrescimento dei problemi. Ciò si riverbera peraltro in moltissime difficoltà pure in altri settori lavorativi che ruotano intorno alla cultura, e in generale negli impatti che si stanno osservando ovunque. La tensione del dibattito pubblico ne è un sintomo preoccupante. Anche nel privato di ognuno di noi accade la stessa identica cosa: nervosismo, confusione, disorientamento, mancanza di motivazioni, problemi a pianificare anche piccoli impegni a breve termine, spesso per l’assenza di prospettive. E tuttavia sinterviene di continuo in direzione contraria al mediare. Disagio, restrizioni, assenza di apertura mentale anche solo nel contemplare alternative, appunto meno restrittive, che ci permetterebbero di stare un po’ più tranquilli nell’immediato e di guardare più avanti con un minimo di sollevazione, sono acuiti da una strana marcia a senso unico, una mono-strategia che non ammette integrazioni. E siccome tutto è collegato, anche le nostre sorti culturali seguono quest’ordine, anzi questo arido disordine. La polemica fiorentina sul logo di American Express proiettato sulle architetture monumentali simbolo della città ne è un’altra misera espressione. Nel momento in cui più di qualcuno ha detto che il filmato era uno schifo, giustamente, ecco la contro polemica e la lezioncina sul fatto che i soldi servono, dunque bisogna solo ringraziare. Così dal giorno alla notte chi nel panorama culturale cittadino era considerato un visionario si è sentito dare del provinciale, chi ha preso le distanze è passato per antiquato. Benvenuti nei toni esasperati che accompagnano ormai qualsiasi avvenimento. E viva le etichette, complottista, terrapiattista, provinciale, conservatore, retrogrado... Al corso di economia a Firenze una delle cose migliori che ho ascoltato riguarda proprio la capacità di conservare: se non si sa cos’altro fare, meglio conservare. E guardate che proprio nel conservatorismo, specialmente adesso, anche nel pensiero, un atteggiamento di tutela, di cura, di protezione, un atteggiamento materno che mitighi e aiuti il patrimonio (che è pater!), che soccorra il nostro patrimonio umano, che ci tenga saldi nella disgregazione dei valori, può rivelarsi di gran lunga più moderno e lungimirante di molti presunti avanguardisti del nulla (lo sosteneva con finezza anche il compianto Roberto Calasso). Per quel che vale la mia opinione, il logo replicato stile timbrino postale sulla facciata degli Innocenti era inguardabile. Sia detto pure per gli addetti al marketing dell’American Express. Si poteva confezionare qualcosa di meglio, di molto più armonico, concordandolo con i responsabili dei complessi culturali interessati, senza offendere né ledere la sensibilità che si raccoglie intorno a questi luoghi che, ricordiamolo, ne è una parte tangibile, al pari della loro “immagine incarnata” (cito da un bel libro dell’architetto Juhani Pallasmaa). E poi, davvero un’amministrazione non vigila su queste cose, dunque non sa dei contenuti di una proiezione che coinvolge proprio i suoi monumenti?

Se su google si digita “svendita del patrimonio”, puntualmente il motore di ricerca corregge suggerendo “vendita del patrimonio”. E sia, va bene, proviamo ad affidarci alla diplomazia informatica. Ultimamente parlando con alcuni amici, sempre in scia alle nostre ricerche, ci siamo aggiornati sulla situazione di vendite, alienazioni (qui mi verrebbe da fare una battuta…), chiusure ingiustificate di complessi che potrebbero svolgere un’attività culturale di grande importanza per i territori. Di seguito una noticina minima, recentissima, uno spaccato di cosa sta accadendo mentre siamo tutti fagocitati dalla paura del morbo:

Vendita della Galleria Subalpina di Torino (uno dei luoghi più simbolici della città dopo la Mole)

Vendita di svariati immobili della Milano storica (valore di mercato oltre 1 miliardo di euro o di dollari, il gruppo di testa per l’acquisizione è il medesimo che ha comprato la Subalpina)

Vendita dell’Hotel Danieli di Venezia, il più antico in laguna

Terme di Montecatini (qui si può comprare tutto il complesso termale in blocco)

Innumerevoli castelli in vendita in ogni regione italiana. Anche luoghi che fanno parte di una rete di beni pubblici e percorsi storici che dovrebbero dunque rimanere di pubblica fruizione. Se non in vendita sono dati in gestione e tenuti puntualmente chiusi. Ripeto, luoghi strategici all’interno di itinerari culturali riconosciuti e di grande attrattiva.
Due casi su tutti: il Roccolo (Beni Faro) in Piemonte e Sammezzano in Toscana.

Ecco cosa si legge ad esempio raggiungendo il sito del Castello di Sammezzano (aggiornamento del novembre 2021): «Ieri sono stati resi pubblici i progetti che verranno realizzati con i contributi economici dovuti dal FAI ai luoghi più votati presso la decima edizione de “I Luoghi del Cuore”, censimento nazionale promosso proprio dal FAI in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Da quanto si è potuto leggere, al Castello di Sammezzano sarebbero teoricamente spettati 45.000 € in quanto si è classificato 2°. Somma che si sarebbe potuta eventualmente aggiungere agli altri 55.000 € che ha vinto dopo essersi classificato 1° nell’8° edizione del medesimo censimento, svoltasi nel 2016. Ma Sammezzano non godrà di nessuno di questi due contributi, in quanto è lo stesso FAI a spiegare che: “Resta invece congelato il contributo di 45.000 euro per il Castello di Sammezzano a Reggello (FI), al 2° posto della classifica nazionale con 62.690 voti, la cui attuale situazione proprietaria – a fine 2019 è tornato proprietà della Sammezzano Castle Srl, uscita da una procedura di fallimento, società di cui non sono noti programmi di lungo termine e in particolare l’intenzione di mantenere una fruizione pubblica, anche parziale, dell’edificio – non consente l’erogazione di finanziamenti de “I Luoghi del Cuore”».

E sul Roccolo: Da novembre 2021 ad aprile 2022 il Castello è chiuso. Si può visitare solo su prenotazione per gruppi e scuole (minimo 15 partecipanti). Giornate di apertura 2021: ... Domenica 5 settembre 2021 ecc…

Villa Aurora a Roma. L’annuncio per la vendita della dimora che ospita l’unico affresco al mondo di Caravaggio (cè anche Guercino tanto per non farsi mancare nulla) è comparso in questi giorni sul sito idealista.it, il prezzo fissato per la base d’asta è 471 milioni di euro. Indoviniamo un po chi dispone oggi di simili capitali per aggiudicarselo? Auguri!

Nelle quotidiane conversazioni con colleghi che operano nel settore culturale sono decine i casi che mi vengono segnalati. Mi viene in mente la locuzione sallustiana “omnia venalia”. Tutto è in vendita, e purtroppo va così perché le nostre sensibilità sono in vendita e inadeguate a fronteggiare quanto sta accadendo. Che paese è un paese che non si regge sulle proprie gambe, che non ha più idee né entusiasmo? Che cultura è quella che non dissente su nulla e si mostra allineata col proprio scempio? E così, avremmo ancora il coraggio di dire che amiamo gli artisti? Per quanto riguarda il mio futuro lavorativo spero prima di tutto di essere accompagnata da persone che mostrino un po’ di lucidità. Se questa è l’impostazione da horror vacui liberista, ne prendo ben volentieri le distanze. Sarebbe impossibile creare a fianco di mentalità che stanno svuotando ogni cosa e anche se stesse. Per giunta, in non poche circostanze, senza neppure accorgersene. Il che è ancora più miserevole. Sono sicura che la volontà di immaginare e costruire tempi migliori, in un quadro politico molto diverso e lontano dall’infinita palude che da anni ci condanna a disoccupazione, inflazione, svendita, non manchi. Ma le cose non vengono da sole, bisogna appunto volerle.
 

(Di Claudia Ciardi)

27 dicembre 2021

Editoria per l'arte

 


Una collana dedicata ai grandi musei, curata da Philippe Daverio, voce infaticabile e coinvolgente nella divulgazione della bellezza. La scrittura svela i capolavori e avvicina alla loro storia. Mentre i viaggi frenano e sfugge il recupero di una piena normalità, è questa un’occasione in cui la lettura si offre di farci da guida nella sale. Una delle tante vie per conoscere, approfondire e far correre l’immaginazione, volgendo l’incertezza di questo tempo in positivo, per diventare visitatori più consapevoli.
E per superare la selva oscura delle restrizioni, che tanto male rischiano ancora di causarci – ma non voglio qui tornare su cose delle quali ho già scritto – nell’affanno, nella confusione e nella delusione che purtroppo il cambio continuo di regolamenti ci getta addosso, ormai a una velocità esasperante, benvenute siano le scialuppe che ci portano altrove, sicure custodi del nostro sentire.
Un omaggio alla vivacità con cui Daverio ha sempre spiegato l’arte in un progetto che mostra come linguaggi diversi confluiscano in un terreno d’incontro capace di affascinare.
Se c’è un’eredità affiorata dall’epidemia, che così numerose contraddizioni ha fatto emergere, è quella del confronto e della condivisione. Incroci che diversamente non si sarebbero creati, stimoli e nuovi impulsi a progetti che nell’emergenza hanno rivelato all
improvviso le loro potenzialità. Un percorso individuale e collettivo che è solo agli inizi, che adesso ci sembra ancora barcollante, discontinuo perfino minacciato ma che infine potrà pienamente distendersi e dare risalto a ogni singola parte, proprio come in un quadro.
Il libro, è già accaduto in diversi periodi storici, viene a sorreggerci, accorciando la distanza coi luoghi, colmando i silenzi. Dal libro si rinasce, nel libro si trovano le mappe per superare le difficoltà, con un libro si può anche cambiare il mondo. Perché le parole sono le prime scintille della creazione.

Si comincia mercoledì 29 dicembre con gli Uffizi (volume gratuito acquistando il Corriere).
Ad maiora!


Piano editoriale: tutte le uscite


Lancio del primo volume


(Di Claudia Ciardi)





29 settembre 2021

In morte dei fratelli Lorenzetti

 

Ambrogio Lorenzetti, San Michele Arcangelo nel Trittico di Badia a Rofeno (1337 circa)



Durante le mie perlustrazioni nei rapporti incrociati fra letteratura e arte, ho riscoperto le prose di Paolo Volponi sulla peste del 1348. Scrittore politicamente impegnato, acuto interprete dei divari tracciati dal neocapitalismo nella società italiana fra il dopoguerra e gli anni Settanta, la narrazione del contagio è per lui metafora di una sindrome degenerativa che svuota l’organismo dall’interno privandolo di valori, forza, sentimento.
Quando mi sono avvicinata a quest’opera ho immaginato che avrei letto una vicenda completamente inventata, un’epidemia dai contorni surreali scoppiata in un luogo imprecisato, una peste psicologica alla Camus, il grande affrescatore moderno dell’alienazione e delle volontà malate. Aspetti che ci sono pure qui, tant
è che Volponi cosparge di tale semenza il suo terreno ma lo fa attingendo a un primitivismo descrittivo inconsueto, dove in parte si colloca anche la prosa di Verga, cui non a caso dedicò le sue curiose letture giovanili, elaborandolo in un tratto assolutamente peculiare della propria identità letteraria. Il risultato è una sconcertante sovrapposizione di accenti antichi che si dispongono su una partitura di stampo espressionista. Tetri presagi, strani lampi di luce, sangue di uomini e animali, sembra il crescendo della fosca agonia virgiliana nelle Georgiche (chiusa del libro III), quando un’inspiegabile strage cominciata nel Norico, una Totentanz bestiale, travolse la regione alpina, speculare a un altro contagio, le infauste premonizioni della guerra civile («armorum sonitum toto Germania caelo/ audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes», chiusa del libro I) che avrebbe cambiato per sempre i connotati dellimpero. E il volto ancor più enigmatico di questa scrittura è nel suo repentino precipitarsi in mezzo alle cose, una febbrile caduta nel gorgo della storia, per cui dopo poche frasi ecco aprirsi inaspettatamente davanti a noi la disperata oscurità della stanza in cui i fratelli Lorenzetti, Ambrogio e Pietro, stanno morendo di peste a Siena. Ormai spossati i loro corpi non hanno più la forza di niente, perfino le lenzuola nell’arsura che divora la carne sono gravose. Il lettore si sente come inghiottito, scagliato da un’immagine all’altra. Le poche frasi pronunciate dai due pittori prima della perdita dei sensi sono un canto abbandonato sul precipizio. Non doveva la peste mietere vittime solo fra i più poveri? Si diceva che i derelitti, i malnutriti sarebbero stati preda del contagio, che sarebbe durata poco e soltanto costoro ne avrebbero sofferto. Segue poi il rammarico per le opere non finite e le idee rimaste chiuse nella mente. Segue ancora il silenzio, lo schianto di un albero nell’orto, la morte. Ma non c’è alcuna tregua nella fine, perché subito giungono i monatti e un avido mercante che vorrebbe depredare la casa dei ricchi artisti. Sullo sfondo il fumo continua ad alzarsi dietro le mura cittadine, segno che il morbo non recede. In simili effetti coloristici e nella violenta isteresi dei comportamenti umani aleggia un’allegoria infernale, un girone dei dannati che dunque anche nella resa letteraria cerca i suoi modelli nel medioevo, con un sostanziale tributo ai toni danteschi.
Eppure, lungo le rive del fiume apocalittico che tutto trascina non c’è tempo per pensare. La morte dei pittori sfuma, è già lontana, sovrastata dall’istinto predatorio dei vivi e poi ancora degli animali, i veri padroni incontrastati della scena che subentrano all’uomo e fanno apparire logora, insensata la sua lotta per la sopravvivenza. Simbolo conturbante di disgregazione e catarsi un ariete, la cui forza bruta s’impone su ogni altra, figura sacrificale dai contorni ultraterreni ritualmente predestinata a scandire i momenti parossistici dell’epidemia e, quindi, la sua fine.
Nella prosa successiva e contigua si torna ancora sui temi della grande peste, sul suo potere indiscusso di palingenesi, signora che dà la morte e dà la vita. Al centro la figura di un monatto che non si mostra mai in volto e concentra in sé i più bassi istinti; l’avidità, la lussuria, e ancora una volta la violenza, cardine del racconto di Volponi, che intende così mostrare su quali ostacoli s’infranga l’utopia sociale.

Un versante che l’autore aveva percorso fin dalla gioventù con una precoce iniziazione fra le campagne dell’Appennino. L’incontro con Adriano Olivetti nel 1949, grazie alla intermediazione di Franco Fortini, allora presidente dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration)-CASAS (Comitato Amministrativo di Soccorso ai Senza tetto), aveva infatti generato da subito nella sua quotidianità molti cambiamenti, innescando esperienze in luoghi significativi per la sua maturazione letteraria. Olivetti lo assunse con il compito di svolgere inchieste nel Mezzogiorno, in Abruzzo, Basilicata – dove conobbe Carlo Levi e Rocco Scotellaro – Calabria e Sicilia. All’inizio degli anni Cinquanta venne inviato negli Appennini a coordinare, da Roccaraso a Cassino, le inchieste sulle condizioni sociali delle campagne e dei paesi devastati dalla guerra.
Successivi furono gli incarichi aziendali a Ivrea e a Torino, che gli diedero modo di sperimentare da un altro punto di vista, quello della vita di fabbrica con le relative tensioni politiche ed economiche, crisi e strappi nei quali si dilaniava la città e più latamente l’Italia, e che finirono per coinvolgere anche lui. Assunto dapprima con l’incarico di amministratore delegato in Fiat venne espulso per aver dichiarato il suo appoggio al partito comunista, che peraltro in quello stesso periodo (amministrative del 1975) ebbe una fortissima affermazione.
Che simili conflitti siano affiorati nelle sue stesure degli anni Settanta non stupisce. La peste è una compagna antica e insieme presente. Una volta passata l’epidemia, come lava vulcanica che incendia, dissecca e bonifica la terra, anche qui alla morte subentra la bellezza, dal dolore, dal sangue versato scaturisce una scintilla di vita. È la lezione, l’essenza di tutto il mito greco che lo scrittore estrae perché scorra nelle vene di una storia moderna in cui ha scelto uno spartiacque incredibile della modernità, la peste nera del ’48. Anno zero nella storia dell’arte perché molti talenti furono falcidiati e, secondo alcuni storici, vero inizio dell’umanesimo. Un riassetto fulminante, un dérapage di equilibri, uno spostamento di ricchezze che rimescolò la società. Da lì in poi nulla fu come prima. Un episodio che ci dice come il vero nuovo inizio passi per un brutale scuotimento perfino delle forze creative. Quale incredibile eco del nostro tempo e come si avverte vacua in queste pagine la retorica del vecchio potere che pretende per sé la vittoria e la possibilità di officiare la rinascita, senza accorgersi che è già stato superato dagli eventi.
Questo squarcio biografico rappresenta infine un punto di vista certo inusuale ma anche molto affascinante, per stimolarci a riscoprire l’opera dei Lorenzetti, che una volta incontrata ha un potere davvero ipnotico. Allora, grazie Paolo Volponi, che nel dramma di queste tue prose ci hai ricordato pure uno sfolgorante prodigio nell’arte, la sfortunata vicenda dei due fratelli geniali che pur così malamente sorpresi, quando vengono raggiunti dalla peste hanno già donato al mondo i loro capolavori.

(Di Claudia Ciardi)       




Edizione di riferimento:

Paolo Volponi, La pestilenza, a cura di Marco Rustioni, Via del Vento edizioni, collana Ocra gialla, 2002    


In copertina: xilografia di Lorenzo Viani

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