Duendecitos
Francisco Goya - Caprichos n. 49
Il riso abbonda e c’è poco da stare allegri. Non di cibo si discute ma di quella espressione liberatoria che solleva l’uomo dagli affanni quotidiani. Il parlare comune agita sulla punta della lingua una scorza di verità. Vi entra infatti un sentire che, applicando alla vita uno sguardo semplificato, ne ricava una saggezza tascabile, pur valida anche se non così esemplare. Il detto latino inclina forse troppo alla censura, «il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi». Chi non è stato motteggiato in questo modo? L’ammonimento è chiaro. Ridere, essendo una manifestazione di spontaneità, forse una delle più nobili di cui siamo stati dotati, non va d’accordo con l’eccesso né con la forzatura. Un sorriso non è solo l’affiorare sulle nostre labbra di un sentimento che improvvisamente ci innalza. È un moto di tutta la persona sul cui volto risale un’energia impulsiva, diffusa in ogni parte del suo corpo, della quale non si sospettava l’esistenza, e che invece se ne stava in attesa nelle sue più nascoste cavità. Non a caso avviene che la bellezza di qualcuno, mentre sta ridendo, si trovi accresciuta, come per un incantesimo.
Ridere in eccesso, a sproposito, è segno di insicurezza, nervosismo, finanche follia. Non ridere mai è ugualmente il sintomo di una perdita del sé. Scontare una delusione spesso basta a farci dimenticare per molto tempo questa sacrosanta valvola di sfogo. Del resto, a soffermarsi sull’etimologia di deludere, è chiaro come l’essere umano sia un pendolo destinato a oscillare tra felicità e assenza di felicità, che non significa con esattezza infelicità ma una gamma piuttosto estesa, per certi versi ancor più insidiosa, di stati d’animo, dalla poeticamente nota mestizia alla più decadente noia. Deluso è chi, suo malgrado, si è allontanato dal gioco, in latino ludus. Il che vuol dire non partecipare a una dimensione di leggerezza e divertimento, di cui il riso è appunto il veicolo di maggiore espressività.
La nostra epoca, che assomma le più diverse nevrosi e tende a trascurare con scientifica ignoranza gli aspetti essenziali del vivere, ha un rapporto alquanto controverso con l’emotività. Ama circondarsi di sensazioni artificiali, surrogati di mente e corpo, dove il coinvolgimento opera per induzione, e il più delle volte è tenuto a bada fuori dalla porta. È un’emozione addomesticata, svilita, prevenuta in ogni suo slancio. Quando in uno scambio epistolare o in una conversazione si affaccia qualcosa di somigliante a un sentimento, se una frase o addirittura una sola parola osano sfidare gli schemi della medietà, e va letta banalità, che in questo tempo sciagurato sorvegliano i pensieri di uomini e donne, scattano immediate le sanzioni del caso. La parola viene dispersa insieme alla voce che l’ha pronunciata.
Tutto ciò che invita all’approssimazione, alla fretta, all’opportunismo, perfino al delitto, ottiene il più largo consenso perché, come dire, queste cose sono smerciate ovunque e, tranne la rovina di chi le pratica, non richiedono altro. Quasi che andare al diavolo sia meno compromettente di capire qualcosa di se stessi. Ecco cos’è ora il senso comune. Ogni tanto riemerge il ricordo di un bel paesaggio, e ci scopriamo ambientalisti della domenica, oppure vestiti da cultori dell’arte seminiamo polemiche versando fiumi d’inchiostro sul tale e il talaltro giornale, una rubrica tiene alta la sua picca contro un’altra, ma in un simile baccano la bellezza di un ambiente, la pittura e la poesia restano obliate senza rimedio. E questa attitudine fallace non da altro deriva se non dal sentire poco o nulla le cose dentro di noi, per quello che sono.
Saper ridere allora, si capisce, diventa impresa assai complicata. Distanza e freddezza cui ormai si accompagna per rassegnazione la sensibilità nel suo complesso, producono una landa desolata sulla quale ci si adagia come bambini già vecchi. E così stando le cose, al ridere non spetta neppure un’esistenza larvale, l’unica sua strada è piuttosto la paralisi.
E mentre in molti lamentano la gran tristezza che li affligge, mentre è un continuo sparlare di problemi che attanagliano altri problemi, così pesanti e insormontabili da non ostacolare tuttavia la frenetica contemplazione dei difetti del prossimo, e l’isteresi vacanziera scambiata per viaggio, la poesia senza metrica mascherata da avanguardia; mentre è tutto un rumore di tenaglie, uno sforbiciare di astio e invidie, e punzecchiature di egoismo e incomprensioni, tutto pur di non volgere lo sguardo dove serve, navighiamo in questo artificio emotivo all’apparenza accogliente ma che prima o poi si deciderà ai soffocarci.
Così, per non abdicare con troppo clamore a ciò che natura vorrebbe, abbiamo fabbricato il riso per tutte le occasioni. Miracolo della grafica che dissemina i nostri messaggi di rotonde faccine con la lunetta della bocca sempre uguale, né più lunga né più corta, né più storta né meno. Il visino abbozzato si appiccica lì alla fine di una frase, stupidamente ridanciano, e anche un po’ in falsetto, quando parliamo del nulla e nel bel mezzo di un annuncio importante. Accade pertanto che l’intensità vera di una gioia non si avverta e l’invito a ridere o sorridere di una cosa suoni come un’equivoca appendice. E per non farsi mancare nulla, ecco venire a sostegno della risolina in scatola la giornata del sorriso: abitanti della terra, ricordiamoci almeno come ridere!
Si moltiplicano moine intorno a tutto quello che bisogna adescare – il riso e la sua preda, il riso e il suo pantano commerciale, la deriva televisiva, in un quiz si apre il pacco sorriso. Ma che felicità!
No, non abbonda il riso e neanche l’umano.
(Di Claudia Ciardi)
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