30 ottobre 2022

Antichi specchi per qualche incantesimo

 

 


Finisce quasi sempre che le cose più vicine a noi, quelle che avremmo dovuto vedere e conoscere da tempo, le trascuriamo. Mi è capitato di frequentare persone che avevano girato per le grandi metropoli americane o asiatiche senza che si fossero mai volutamente perse nel centro di Perugia. Quando le ascoltavo, mi dispiaceva per loro. Infatti non trasmettevano nulla o quasi; non erano veri racconti di viaggio quelli che offrivano. Direi piuttosto esperienze di una vita impegnata, molto sradicata e distratta. Benché udire certe voci dall’oltremondo, da spazi a me lontanissimi e preclusi, mi lasciasse un qualche retrogusto mitologico. Istintivamente, forse per mia natura, inserivo io quelle parti letterarie e sentimentali mancanti. Ero molto giovane e avevo visto ancora pochino, poco anche di quello a me più accessibile o che almeno avrebbe dovuto esserlo. Ora, a maggior ragione, non mi farebbe più alcun effetto sentire questi racconti dalla superficie, da lontananze non vissute e direi alla fin fine incomprese anche da chi ci si è avventurato. Non mi porterebbero più nemmeno quel poco di leggendario che la mia testolina di ragazza era incline a vederci. Un amico poeta mi ripeteva che «c
è chi salta con disinvoltura da un aereo all’altro e poi non fa neppure il giro del quartiere». E io pensavo, se mi riduco così, che il dono di sentire, attraversare e prendere su me stessa le cose mi sia tolto all’istante. Ora so che se anche mi capiterà di sradicarmi, diciamo un po’ di più, ho in me il necessario. Ora sono quello sono e so abbastanza di me stessa e se vado incontro al mondo non ne vengo più trascinata ma resto salda e porto qualcosa agli altri, se ho l’occasione di farlo; né mi tiro indietro, perché i miei tratti sono più definiti e anche chi ho intorno lo sente e se ne giova, sentendolo.
Già dalla mia adolescenza – sarà che sono sempre stata un’infaticabile camminatrice – pensavo che la mia presenza si sarebbe donata solo dove ci fosse stato un motivo, un legame da intessere, una storia da raccontare che per qualche strano caso mi veniva sollecitata. Finora posso dire di aver avuto un legame emotivo profondo con tutto, e quando a momenti si lacera, soffro, soffro di una sofferenza indicibile, demoniaca, che fa spavento. Così io sono stata, veramente sono stata, con i luoghi e con chi ho incontrato, e se agli occhi di altri sembra meno, molto meno di ciò che normalmente si fa in questa grande fiera senza poesia, non scambierei la bella e misteriosa fiaba che da bambina mi è salita sulle ginocchia, e che pure non saprei spiegare. Ma c’è, sta lì. Come il duende di Garcia Lorca. Perché quando ero piccola ma proprio piccola l’ho intravisto, come lui stesso racconta di averlo visto, e io a questo esserino uscito dalla penombra non posso proprio voltare le spalle.

Mi sono decisa ad andare a Casale Marittimo, e avrei fatto bene a visitarlo da tempo perché fa parte delle cosiddette terre pisane e dove si hanno i propri natali bisogna per lintera vita continuare a portare, quando si può, un saluto. Bisogna rendere omaggio a quel piccolo demone fatale che da bambini le case della nostra nascita hanno preparato per noi.
In questo vasto territorio – parliamo comunque di un raggio di almeno cento chilometri dal capoluogo – ci sono i primi contrafforti di Maremma, un esteso e mutevole paesaggio, sfuggente e mai uguale a se stesso ogni volta che si torna a percorrerlo. Una terra letteraria per certi versi, ma di una letterarietà rude, nulla a che vedere con i panni risciacquati in Arno da Manzoni affacciato sui lungarni fiorentini.
Di recente si è anche scoperto che la prima denominazione della peste come “mal di contagio” (proprio in riferimento alla peste seicentesca affrescata nei Promessi sposi) non viene dal lessico del Fabbri pubblicato a Firenze nel 1722, come si credeva, ma dagli archivi della Val di Cecina che danno conto dellinfuriare del morbo tra i borghi toscani del sud. Quindi, pionieri anche nella lingua. Peraltro l’idea di scendere lungo la costa ad Alessandro Manzoni era anche venuta e se avesse avuto l’ardire di stare per un po gomito a gomito col popolo maremmano chissà cosa ne avrebbe sortito. Erano contrade di malaria e di lupi – di lupi lo sono ancora. Può darsi, dopo aver preso un po’ d’informazioni, che si sia risolto a lasciar perdere. A Livorno, in Via Grande, c’è una targa che ricorda il suo passaggio. Ci visse circa un mese, ospite di una pensioncina, ma il tormento delle zanzare, il caldo e il trambusto dei portuali lo fecero scappare tra fosche lamentele. Niente riva degli Etruschi, dunque. Tuttavia, nella prima metà dell’Ottocento, questa landa, che in alcune delle sue pieghe conserva ancora gelosamente la propria epica fatta di stivali fangosi, doveva essere proprio intatta nella sua selvatichezza. Con gente che di punto in bianco ti parla così: «Alla Firdusa stanotte è mancato poco bruciasse casa. Le hanno bagnato i muri mentre intorno andava a fuoco tutto il bosco». E poi: «Al pastore non passa notte senza che il lupo gli mangi una pecora». E ancora: «Non ci si mette in cammino se la bocca non sa di vino». La Toscana è per molti una “regione da cartolina”. Dipende, dipende dove si va, cosa si vuol vedere e sentire, e come ci si vuole stare.   

Quanto a me ultimamente sono tornata a fare il derviscio o il fachiro in posti strani. Cento, duecento chilometri solo per raggiungere un punto alto in collina, un punto silenzioso tra gli alberi in un giardino arruffato o su una piazza paesana incastrata ai piedi di una rocca. E da lì riposare gli occhi sul fondovalle, lasciarli vagare fino a una strisciolina sottile di mare su cui avanzano un paio di barche. Due puntini quieti, quasi proiettati in un’altra dimensione, eppure quella stessa quiete ravvisarla uguale anche in me. E lì raccolta poter scrivere, perché in pianura ormai, a contatto con gli smarriti che mi trasmettono questo loro smarrimento, non mi riesce più tranne che in rari momenti.

Dunque sono salita a Casale Marittimo perché un ragazzo mi ha detto che era il borgo più bello tra quei borghi che segnano l’ingresso in Maremma. Ma ancor più perché con la consueta spontaneità della gente del posto, neanche mi conoscesse da un secolo, ha raccontato che tre mesi prima aveva perso la nonna novantottenne. Era malata di leucemia da più di vent’anni, data per morta decine di volte. Invece, il dottore che gliel’aveva diagnosticata se ne era andato assai prima di lei e lei aveva continuato tranquilla anno dopo anno, ogni giorno preparando la colazione al nipote. Così per un attimo vedo questa donna aggirarsi la mattina presto nella sua cucina, nel silenzio del paese, e fare tutto per restare viva. Alla fine lui mi ripete: «Novantotto anni. La vita di campagna fortifica».

Quindi ho voluto visitare Casale, perché mi sono sentita depositaria di una storia. Né i messaggi di Casale per me erano esauriti. 

Neanche le otto del mattino. La prima cosa insolita mi è capitata col capotreno. Biglietti… ho problemi con lo schermo del telefono. Scusi eh, fra l’altro tra poco è la mia, dovrei scendere; pensa mi voglia defilare. Mentre aspettiamo che il biglietto riaffiori, mi viene da dirgli “abracadabra”. Rimane di sasso. Due secondi dopo ci rifletto: «Ma perché ho avuto questa uscita?». E poi, man, hai proprio delle belle spalle, te le guardavo già sulla banchina mentre mi camminavi accanto, spalle da disegnare… ma queste cose non te le posso dire. In funzione di pubblico ufficiale… Però “abracadabra” sembra aver avuto effetto. Mi lascia andar via.

E vado in collina a scrivere e camminare. Mi piace questa lunga strada collinare che mi ci porta: si chiama California, sarà che è molto assolata e molto fuori dal mondo. Non passano neppure due ore dallallunaggio californiano che i miei stivaletti sono diventati terrosi, i pantaloni impolverati dal ginocchio in giù. Mi aggiro così per le vie del borgo. Ci sto bene, qui non fanno caso a come si va in giro. Lavorano nei campi, sudano, si sporcano, si levigano agli elementi naturali; di una donna con i capelli spettinati e i vestiti coperti di polvere pensano torni da un uliveto: è una cosa normale.

Mentre riposo un po’ sulla piazza e cerco di darmi una ripulita, altrimenti poi nella civiltà si inquietano di nuovo, mi viene incontro una biondina minuta più o meno sui quaranta come me. Si trascina una bicicletta sportiva avanti e indietro. Buongiorno. Che vocina, proprio fiabesca anche lei. Abracadabra. Oggi va così, tutta colpa della mia prima formula mattiniera, buttata lì distrattamente.

Mi hanno detto che qui a Casale ci sono gli specchi. Io cerco gli specchi. Sai dove li posso trovare?

Penso che non ci stia con la testa, io poi tendo a rispondere subito un po’ piccata, perfino con irruenza se una cosa mi sfugge di senso. E poi sono sudata, sporca, non lo vedi? Secondo te ho voglia di mettermi a parlare di specchi? Oddio, anche alla messaggera di Hermes non va meglio: è sudatina pure lei, mandiamo tutte e due un certo odorino pungente. Comunque questa storia di fantomatici specchi quassù mi incuriosisce. Va bene, ti aiuto a fare una ricerca. Io sono brava a cercare. Mi si illumina tutta, quasi le avessi già risolto l’enigma. Seppure del tutto sfiduciata e contrariata, anche perché non amo stare al cellulare durante i miei cammini, digito “Casale Marittimo specchi artistici”. Mi sembra un’altra formula propiziatoria. Ci sarà un perché se oggi va così. Voglio vederci chiaro, allora. Porca miseria, la creaturina dalla voce gentile ha ragione. Salta fuori una scheda nel catalogo generale dei beni culturali che recita: “Specchio, serie bottega toscana, XVIII secolo”. Hai ragione, signora. Gli specchi ci sono. Lei risponde che cerca quelli nei crocicchi, agli angoli delle strade. Io non lo so proprio se ci sono ancora. Ma ci sono stati, la prova è nel rigo che abbiamo letto insieme. Continua a sembrarmi un colloquio surreale eppure allimprovviso, con mio stesso stupore, lo assecondo volentieri.  

Poi la vaporosa creaturina inforca di nuovo la bicicletta e se ne torna sui suoi passi, guardando all’insù ad ogni angolo. Grazie, grazie. È tutta contenta. Io resto lì a meditare, la solita Gorgone scontrosa e in disaccordo con tutto; lo specchio, il crocicchio, l’enigma a sfondo artistico piovuto in mezzo a stradine tortuose, che mi danno l’impressione di mutare continuamente intorno a me man mano che le attraverso. Proprio come nelle fiabe o in sogno. Per me resta un’insolvibile stranezza.   

Ora che ci ripenso, dalla mattina mi sono ritrovata in mezzo a dei giovani in maschera. La mente mi è andata ad Halloween, ma no migravano tutti a Lucca per i fumetti. O magari era per entrambe le cose. Un tipo con una coda di volpe e un trucco vistoso mi era passato accanto sullo scalone della stazione di Cecina, alle otto, appena dopo il mio abracadabra al capotreno. Era serio serio, tutto preso dal suo personaggio. E anch’io ero parecchio seria, e mi sono quasi spaventata. Una coda di volpe così, il sabato, di prima mattina. Neanche Lucca fosse dietro l’angolo. È andato ad aspettare al binario bardato a quel modo, come se nulla fosse, compunto come per una missione. Più tardi in serata parecchi di questi figuranti sciamavano ancora ovunque. Mi ci sono mischiata, sembrandomi più che coerente con tutto il resto.

(Di Claudia Ciardi)

 

*Per la rubrica «Calligrammi»

 

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