Non
è bello quello che si è visto nelle ultime settimane. Qui nessuno si
scandalizza ma almeno un certo disappunto non si può tacere. Un giorno su due
abbiamo assistito a incollamenti e lanci di zuppe su quadri iconici del
patrimonio mondiale; e ultima in serie, per ora, la prodezza delle Veneri nostrane.
Leggendo i post delle ragazze in questione che tanto si sono inalberate
difendendo nel loro gesto una presunta necessità di emancipazione, il tono è da
bordello in giù (“fate una proposta, noi abbiamo pubblicizzato”…ecc… in riferimento all’utilizzo delle immagini). E
ripeto, nessuno si scandalizza; però si chiama esibizionismo, non emancipazione. Viene
anche da chiedersi se non abbiamo sbagliato in qualcosa o in più di qualcosa, dal
momento che certe persone si sentono all’improvviso avallate nell’agire così,
violentemente direi, attraverso i propri corpi e il proprio linguaggio in
rapporto a quel patrimonio culturale che con tanto sforzo, specie dopo i disagi
della pandemia, ci stiamo impegnando a difendere, custodire, tramandare.
Pare esserci materiale in abbondanza per un ciclo di lezioni di antropologia e
psicologia. Il che sarebbe anche utile per capire cosa ci stia succedendo. A
parte un’infinita decadenza di cui non si scorge appunto il fondo, sembriamo
degli ammorbati o invasati, come preferite. Dall’interdizione dei green pass ci
siamo catapultati in una strana dimensione pubblicistica, forse per recuperare
il terreno perduto, chi lo sa, e che al contrario sta rivelando tutti i suoi
lati più ambigui. Lati oscuri e perfino isterici. Diceva
bene qualcuno a commento delle tante scie luccicanti sull’ultimo red carpet,
che certa gente sembra proprio “morta di fan”.
Sul fenomeno social mi sono già
pronunciata e sono sempre più convinta che queste scatoline siano sulla via del
non ritorno. L’autoreferenzialità non paga in nessun ambito, e qui ormai è solo
un continuo rimbalzo entro dei confini già tracciati, delle regoline statiche, una
policy d’utilizzo altrettanto invecchiata e superata, legata a doppio filo a un’opacità
circa l’archiviazione dei dati che permane nel tempo. Senza innovazione, senza
la costruzione di un’interazione sana (ma è poi possibile?) poco o nulla
rimane. Tranne il clamore, la pose scomposte, la volgarità; e ciò aiuta il
comunicare o sottrae qualcosa? Direi più la seconda. Per non parlare delle
milionate di seguaci che ogni volta si tirano in ballo quando monta una
polemica. Ma dove, quando? Chi e cosa sono questi presunti milioni?
Ma per piacere…
I
declamatissimi spazi della novità sono dei fossili ripetitivi e scontati.
Sembra che Elon Musk dopo molti tira e molla abbia finalizzato l’acquisto di
twitter. A quel che si dice vorrebbe rimuovere la censura e dotarlo di elementi
più dinamici (qualcosa di più simile a WeChat); in teoria ha ragione. Finora infatti
si è solo involuto in un contenitore inservibile, anche molto infiltrato, e
chiaramente controllato. Ma io resto dell’idea che siano sfide già perse in
partenza. E poi, dibattere di queste cose nell’urgenza che stiamo vivendo? O
non ci sembra ancora grave quello che abbiamo sotto gli occhi? Si
pensa forse che questi strumenti, in un imminente accrescersi dei conflitti nel
mondo, possano offrire aiuto? Che la profilazione e la circolazione delle
notizie sulle piattaforme aiuti a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra?
Può darsi. Del resto la guerra tra Russia e Ucraina ha dimostrato come in larga
parte si stia combattendo proprio sul terreno del focus mediatico.
E
che incubo! In quale incubo ci stiamo cacciando! Presi dalle nostre Pomone
scollacciate, dalle professoresse del “corsivoe” (anche qui topici
momenti di popolarità televisiva) e dagli attivisti imbrattatori, mentre a
occidente e oriente si lavora con alacrità a rinforzare gli arsenali nucleari.
A che punto siamo!
Sempre
in questi giorni mi capita sotto gli occhi un post di Silvia De Felice,
produttrice di programmi d’arte per Rai 5. Parlava con cognizione e giusto
scontento della sua pessima esperienza in visita al Louvre; la torma dei
visitatori rendeva impossibile non la vista ma “l’avvistamento” delle opere. Cito
una sua frase che fa riflettere: «Sono pienamente a favore dello sfruttamento
economico dell’arte, perché la cultura sia auto sostenibile, ma credo anche che
sia necessario definire un punto di equilibrio tra la commercializzazione e la
corretta fruizione». Un intervento molto commentato dai lettori che non hanno risparmiato
critiche a diversi dei cosiddetti musei più blasonati. Il punto di equilibrio tra necessità pubblicistica e sfruttamento
commerciale da una parte, e dall’altra rispetto della dignitas del luogo che custodisce un patrimonio culturale
e che è anche impegnato a continuare a produrre cultura, ecco questo è ciò che
ci manca. E si ricollega ai problemi, alle “sindromi degenerative”, alle
situazioni tragicomiche di cui si è detto sopra. Perché il rischio, non mi
stanco di ripeterlo, è di offuscare il gran lavoro che, nonostante le non poche
difficoltà, si prosegue dentro queste istituzioni. Gli scatti di Onlyfans non
ci salveranno dagli affanni gestionali, dai budget assottigliati, dalla penuria
di contenuti, dall’ignoranza dilagante, dal mancato ricambio del personale,
dalla conflittualità ovunque crescente che genera disparità, rabbia sociale,
che fa lievitare i costi e che distoglie, allontana, fiacca al punto che anche lo
stare davanti a un quadro rischia di non sollevarci più, di non farci più stare
bene. Anzi, ciò che sta accadendo intorno a noi e che noi lasciamo accada senza
neppure una doverosa considerazione, accelera semmai questo allarmante processo di
distacco. Se svendiamo definitivamente la capacità di produrre contenuti veri
che aiutino i contenuti generosamente lasciati da chi ci ha preceduto, se
calpestiamo questa possibilità, ci resterà solo la spazzatura e sarà difficile,
molto difficile dopo, vedere qualcosa oltre l’immondezzaio.
(Di Claudia Ciardi)
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