21 dicembre 2014

Dino Campana - Il fauno dell'Appennino


È un anno di anniversari e commemorazioni. Ne ho parlato non troppo tempo fa, in occasione del centenario della nascita del grande poeta toscano Piero Bigongiari. Non poteva mancare, a chiusura di un periodo assai impegnativo in materia di ricorsi storici, concomitanze e cabale, un ricordo per il compleanno dei Canti Orfici.
Una mia vecchia conoscenza soleva parlare con disprezzo di “quelli che non finiscono le cose”, essendo ciò, a suo dire, il sintomo di un temperamento artistico, buono a nulla. Era un concetto che gli piaceva ripetere perfino con un certo orgoglio, quasi a marcare la differenza tra la sua indole metodica e ben organizzata, un’indole di successo, e quei poverini che non riescono a stare sull’attenti. Mi chiedo come abbia potuto prestargli ascolto anche solo una volta, tanto più che nel suo discorso vi era un dettaglio particolarmente insopportabile. La donna, secondo lui, mostrerebbe verso tale disagio una sfacciata propensione. E puntuale, ad ogni sillogismo, se la prendeva con una delle sue amanti. L’unica colpa della sventurata era aver destinato un sentimento a un carattere tanto arido e maldestro. Ma questo l’ho saputo solo dopo, quando ho imparato sulla mia pelle con quanto rispetto quest’uomo considerasse l’amore. Il metodico ne risultava addirittura spaventato. Perché l’amore porta fuori strada, mette tutto in discussione, ci mette sottosopra. 
I poeti erano per lui deprecabili e pericolosi. Vite disordinate, anime fosche di squattrinati, desolatamente inutili. Però la poesia la leggeva. Più per dovere scolastico, credo, un retaggio liceale simile all’autoritarismo paterno, da cui aveva sviluppato un complesso; gli avevano insegnato che bisognava conoscerla, e ogni tanto sbocconcellava qualcosa. Di non troppo eterodosso, è naturale. 
Non so perché ma quando sfoglio Dino Campana, capita che questa storia mi torni in mente. Di sicuro, il fauno di Marradi era uno che “non finiva le cose”. Di sicuro fu poeta nel modo più triste ed esaltato che si possa immaginare. La nevrosi e la delirante grazia dei versi gli sono cadute addosso come lampi in un cielo chiaro. E lui non ha potuto altro che tenersele come le stimmate. Attorno ai suoi quindici anni aleggiarono voci paesane insistenti e poco lusinghiere: Campana divenne “el mat”. La sentenza è stata inappellabile. Non gli restò che darsi alla macchia, scappare in mezzo ai boschi e alle pietraie dell’Appennino, perché «lì c’è il silenzio». I suoi vagabondaggi sono scatti d’immensa foga collerica. Nel tentativo di respirare si spinse sempre più lontano. Pare che a diciotto anni abbia raggiunto Odessa e sia stato adottato da una tribù di Bossiachi, di zingari, coi quali avrebbe vissuto a lungo. Al ritorno si sarebbe aggirato per Faenza come un vagabondo, dormendo sotto i portoni, infagottato in un improbabile cappotto da ufficiale. Anche in seguito, il suo modo di vivere e abbigliarsi – soleva indossare scarpe più grandi del suo numero legate con spaghi – ne favorirono l’accostamento a un barbone. Inizia così il mito del poeta dei Canti Orfici, si inaugura «l’inquietante progetto d’esser Dino Campana». Man mano che la sua poesia prende forza lo lascia spossato sul ciglio di qualche strada, a scontare la propria solitudine, a maledire quei compaesani dal cuore duro e maligno che avrebbero voluto vederlo rinchiuso, sorvegliato, incatenato da qualche parte, pur di non averlo più tra i piedi. Dal 1907 al 1909 avrebbe vissuto come un disperato in Argentina: pianista di bordelli, fabbro, portiere, pompiere, operaio nella costruzione di ferrovie. La leggenda contamina sempre più la realtà, chi prova a seguire le sue tracce ne viene a capo con fatica e senza certezze. Accumula quell’esperienza che gli farà dire di essersi sufficientemente macerato nella vita allorché si troverà a perorare la causa della pubblicazione del suo testamento in poesia. Questo infatti sono i Canti, omaggio a Leopardi fin dal titolo, l’altro grande ingegno lirico irrisolto e incompreso, di cui Campana si professa l’erede. 
La prima parziale versione, intitolata Il più lungo giorno, affidata a Giovanni Papini e Ardengo Soffici venne smarrita da quest’ultimo. Un altro risvolto destinato ad alimentare rancori e veleni tra Campana e l’ambiente letterario, oltre a produrre tra gli studiosi una spropositata messe di elucubrazioni dopo la sua morte. Nella stesura definitiva, concepita durante forsennate marce sull’Appennino tosco-romagnolo, l’opera vide la luce il 7 giugno 1914 sotto il nuovo titolo di Canti Orfici, presso il tipografo Bruno Ravagli. Fu un caso di autopubblicazione, come si direbbe oggi. Al Ravagli andò un acconto di 110 lire, proveniente da una colletta sottoscritta da alcuni marradesi.
L’Europa era già in guerra, quando a settembre Campana si presentò a Firenze, raggiunta a piedi come suo solito, con i libri sottobraccio. Fu alle Giubbe Rosse e da Paszkowski per vendere le sue copie e farsi conoscere tra la gente, arrivò perfino a strapparne le pagine e a sventolarle sotto gli occhi dei clienti, sperando di smuoverli dalla loro indifferenza.
A Santa Maria Novella, mentre si sta davanti al tabellone delle partenze, capita ancora d’incontrare qualche poeta improvvisato alla ricerca di lettori. Vanno su e giù con i loro foglietti svolazzanti, fotocopiati, ve li mettono in mano dicendo “offerta libera” e aspettano che si ringrazi con una moneta. Sono poveri diavoli, sfrattati dal mondo. Ma se sarete generosi, di sicuro veglieranno sul vostro viaggio.

(Di Claudia Ciardi)




«Caffè, ora eterna – Pisa»

XXXI. Cartolina postale, inviata da Pisa a Sibilla Aleramo presso Villa Alba, a Marina di Pisa

(Campana a Aleramo) Marina di Pisa, 13 ottobre 1916

«Egregia Sibilla,
siete ammalata: me ne dispiace! Quanto a me ho perso l’abitudine di lamentarmi. La padrona voleva che vi scrivessi non so che cosa. Ho rifiutato. Poi le ho fatto dire: perché mi ricorda sempre la signora? So che vorreste avere la forza di seguire il vostro destino e di …papini [è Giovanni Papini direttore della rivista «Lacerba», il cui cognome viene scritto minuscolo in segno spregiativo] (tanto mi odiate?)»

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
preferisco il rumore del mare
che dice fabbricare fare e disfare
fare e disfare è tutto un lavorare
ecco quello che so fare. Scrivete. Addio»

XXXVIII. Cartolina postale diretta a Firenze

(Aleramo a Campana) Casciana, 26 ottobre 1916

«Ero abituata al silenzio: ma questo che s’è fatto dacché sei partito è così grande! Stamane (dopo dodici ore di sonno al veronal), ti ho telegrafato sperando nella risposta – che non è ancor venuta. M’han detto che ieri dovesti prender una carrozza e che forse perdesti il treno delle quattro. Dove e come avrai dormito? E tutte le imaginazioni per seguirti oggi son state vane. Firenzuola? Alla Casetta, ora che sta per tramontare questo sole pallido? Avrà tirato un vento furioso anche sulla tua strada? Io mi son levata alle undici, e alle tre son andata al bagno, poi tornata subito qui. M’han fatta sloggiare dalla saletta da pranzo, m’han messo un tavolino qui tra la finestra e il tuo letto. Così c’è un mutamento anche per me, e la mia stanza somiglia di più alla tua… Dino, Dino! Dove sei? Voglio esser forte come mi hai chiesto, non voglio piangere ma ho il cuore così gonfio! Quell’ultima ora, ieri, hai sentito come eravamo consacrati. Dino, vinceremo. Amor mio. Coraggio. Non so dire neanche per me altre parole oggi. Sono ancora così stanca, attonita. E tu, e tu? Quando saprò? Ho tanta paura che tu stia male? La Casetta ora dev’essere una tana. Dimmi, ti supplico. Dino, ma ho tanta fede, com’è che ho tanta fede come il primo giorno? Che cosa vuole da noi il nostro amore? M’hai detto  che mi tieni, vero? Felicità. Ti bacio. Scrivimi. Se lavorerò, te lo dirò. È arrivato il meta, [metadone, medicina] lo spedirò domani con la biancheria. Fatti dare delle uova, quattro al giorno, e manda a prendere la medicina a Firenzuola. È vero che vuoi che ci ritroviamo belli?»

tua Rinetta
(è la prima volta che mi firmo così)

XLVI. Lettera di un foglio, su quattro facciate, senza busta, scritta in inchiostro turchese.

(Campana a Aleramo) Marradi, 27-30 ottobre 1916

«Mia cara amica
sono troppo stanco e troppo ammalato per cercare di comprendere. Prendo il partito dei deboli, il mio solito partito: parto.
Regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può essere sorta in te dal nostro amore. Non posso dirti altro dopo questo. Mia cara sono realmente ammalato non ho potuto sopportare l’attesa e le tue lettere. Ricevo ora il telegramma. Parto domattina per la Casetta. Là c’è il silenzio.
Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa saprebbe baciare il tuo corpo di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa.
Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla – e senti la mia infinita desolazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia.
Ricorda quando soffrirai colui che ti ama infinitamente e porta per sé solo il tuo colore.
L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora»

XLIX. Lettera di un foglio, su quattro facciate, senza busta, senza data. Luogo e data sono stati attribuiti a seguito di alcuni raffronti col resto della corrispondenza ma non v’è certezza su quanto ricostruito.

Da: 
Sibilla Aleramo e Dino Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-’18, Feltrinelli, 2000  


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«Sensibilità profonda e raffinato ingegno, interprete acuto di uomini e culture, conoscitore di cinque lingue, lettore di Eschilo, fustigatore di caratteri ostili alla generosità e agli slanci, coscienza abbarbicata all’Appennino tosco-romagnolo, di cui conservava in sé il rude aspetto e l’antica saggezza. Dino Campana è stato un cantore in lotta col suo tempo, schivato e irriso proprio da quell’aureo mondo delle riviste letterarie in cui il poeta aveva stanato un provincialismo gretto e avverso a ogni ipotesi di una nuova concezione dell’arte e, dunque, della scrittura. E proprio in lui, il “mat Campèna”, non manca una chiara e netta adesione alla cultura e al retaggio storico d’Europa, molto più dei suoi sornioni colleghi, impegnati nei tristi agoni della carta stampata, tra accademismo e autocompiacimento». Recensione di Dino Campana, Io poeta notturno. Lettere, a cura di Pasquale Di Palmo, Via del Vento, 2007.
Su Sololibri.net il testo integrale della recensione.  

I Canti Orfici di Dino Campana. A cento anni la ristampa anastatica  
di Elisabetta Vagaggini

Il più lungo giorno di Dino Campana
di Paolo Pianigiani su «Transfinito»

Monti Orfici di Giovanni Cenacchi
Sui sentieri di Dino Campana

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