L’opera di Igort, disegnatore nato a Cagliari cinquantasette anni fa e bolognese di adozione, è stata per me una delle più interessanti scoperte narrative sulla vicenda ucraina. In generale direi che è finora una della più belle graphic novel che mi sia capitato di leggere. Un volume denso che ripercorre le principali e strazianti tappe della storia del paese, dalle collettivizzazioni staliniane, passando per l’invasione nazista e l’inquinamento radioattivo, a oggi. Un paese povero difficile, poco amato dai suoi amministratori, troppo spesso corrotti quando non spudoratamente collusi con la criminalità locale. Patria perciò di disagio, divario, scissioni, violenze, drammi. Luogo destinato a oscillare tra la farsa delle “rivoluzioni colorate” e i carri armati russi. Nel febbraio 2014 abbiamo visto com’è finita a piazza Majdan. Un massacro consumato tra un’opinione pubblica cosiddetta europeista che se ne sbatteva dei fremiti fascisteggianti di Kiev – come dire, va bene tutto, purché sia muro contro muro con la Russia – e dall’altra parte gli entourages sovietici sempre più determinati a trasformare la questione ucraina in una prova di forza. Intanto la crisi economica si è aggravata. Sempre nel 2014 i razionamenti dell’energia elettrica hanno comportato il ritorno all’utilizzo del carbone e della legna anche in città, con un conseguente aumento dei prezzi di questi materiali. Nella sua appendice Igort dedica una tavola più che eloquente alle foreste della steppa, minacciate dall’assalto al legname da parte di bisognosi e trafficanti.
Quanto a me, per tutto il periodo delle medie, associai l’Ucraina al mio manuale di tecnica. E più precisamente a una pagina di quel manuale che descriveva l’incidente di Černobyl’. Una striminzita cronologia sulle fasi del disastro, descritto ora per ora, da cui trapelava una crescente concitazione mentre la cosa scivolava di mano agli addetti. Insomma, nell’adolescenza l’Ucraina fu per me nient’altro che un incubo nucleare, rafforzato dalla presenza dei bambini contaminati ospiti di alcune colonie marine. L’Holodomor non sapevo neppure cosa fosse. La prima volta che ho sentito questa parola, prima ancora di capire a cosa si riferisse, ricordo di averla percepita in tutta la sua negatività; era a causa delle sillabe, come dire, mi suonava male. In genere succede così, i suoni mi influenzano, anche dopo averli riportati al loro significato. Qualora una spiegazione venga in soccorso e attenui l’effetto negativo, e non è certo questo il caso, la mia sensibilità si converte a fatica.
Holodomor, suono scuro, pesante, una di quelle parole che ti battono in testa fredde come il ferro. Dal ’31 al ’33 l’Ucraina, la regione del Kuban’, il Kazakistan sono falcidiati dalla carestia. Le vittime vengono stimate tra i 4 e i 7 milioni. Ci si liberava dei corpi scaricandoli in fosse comuni. Venivano issati a gruppi di venti sui carri, come si faceva durante le epidemie. Qualcuno, ancora vivo, si divincolava in mezzo alla catasta, troppo debole per liberarsi. I monatti ucraini arrivavano di notte, nei villaggi, un giro silenzioso, affrettato, con cui si cercava di occultare l’orrore. Questa la conseguenza degli espropri stalinisti. Un autentico genocidio che Igort evoca con struggenti litanie di volti disegnati a carboncino, fantasmi in giacca e colbacco, in fila con una valigia in mano, avviati alla deportazione. E poi le isbe, le fattorie abbandonate, corpi rantolanti di fronte a un focolare vuoto.
L’Ucraina è stata per la Russia ciò che l’Egitto fu per Roma: un immenso granaio, la dispensa dell’impero. Sotto Stalin venne avviato un programma a marce forzate teso a sostenere l’industrializzazione sovietica; i prodotti agricoli, principalmente il grano, furono prelevati per la quasi totalità dai commissari incaricati. Con un impatto devastante sull’economia e sui secolari equilibri di quel mondo. Annientata la proprietà, spazzate via in un soffio le relazioni che ruotavano attorno a questa. I funzionari furono così cinicamente zelanti nell’attuare il piano che lo stesso Stalin ebbe a lamentarsene. Tardi comunque e con lacrime di coccodrillo. Più che altro gli bruciava la consapevolezza che l’Ucraina sarebbe stata da allora in poi refrattaria al sentimentalismo russofilo. Solita cecità della politica di regime. Pretendere tutto e subito, bruciare le tappe a qualsiasi prezzo, fosse anche l’autodistruzione. Quello ucraino è un popolo paziente, avvezzo alla fatica, al sacrificio. Come in ogni società contadina, il carattere è dato dalle lunghe attese cui abitua la natura. Sfiancarlo, svilirlo, perseguitarlo è stato un errore colossale, irrimediabile. Un vulnus che resta lì, aperto, talmente sconcio da far rabbrividire. E anche ora la Russia, anziché assecondare l’indole di questo popolo, slavo di cultura, dunque vicino, più che mai vicino – impossibile non capirsi tra vicini, se non per una reciproca voluta sconsideratezza – insiste sulla strada dello scontro aperto, perfino del terrore.
Holodomor, suono scuro, pesante, una di quelle parole che ti battono in testa fredde come il ferro. Dal ’31 al ’33 l’Ucraina, la regione del Kuban’, il Kazakistan sono falcidiati dalla carestia. Le vittime vengono stimate tra i 4 e i 7 milioni. Ci si liberava dei corpi scaricandoli in fosse comuni. Venivano issati a gruppi di venti sui carri, come si faceva durante le epidemie. Qualcuno, ancora vivo, si divincolava in mezzo alla catasta, troppo debole per liberarsi. I monatti ucraini arrivavano di notte, nei villaggi, un giro silenzioso, affrettato, con cui si cercava di occultare l’orrore. Questa la conseguenza degli espropri stalinisti. Un autentico genocidio che Igort evoca con struggenti litanie di volti disegnati a carboncino, fantasmi in giacca e colbacco, in fila con una valigia in mano, avviati alla deportazione. E poi le isbe, le fattorie abbandonate, corpi rantolanti di fronte a un focolare vuoto.
L’Ucraina è stata per la Russia ciò che l’Egitto fu per Roma: un immenso granaio, la dispensa dell’impero. Sotto Stalin venne avviato un programma a marce forzate teso a sostenere l’industrializzazione sovietica; i prodotti agricoli, principalmente il grano, furono prelevati per la quasi totalità dai commissari incaricati. Con un impatto devastante sull’economia e sui secolari equilibri di quel mondo. Annientata la proprietà, spazzate via in un soffio le relazioni che ruotavano attorno a questa. I funzionari furono così cinicamente zelanti nell’attuare il piano che lo stesso Stalin ebbe a lamentarsene. Tardi comunque e con lacrime di coccodrillo. Più che altro gli bruciava la consapevolezza che l’Ucraina sarebbe stata da allora in poi refrattaria al sentimentalismo russofilo. Solita cecità della politica di regime. Pretendere tutto e subito, bruciare le tappe a qualsiasi prezzo, fosse anche l’autodistruzione. Quello ucraino è un popolo paziente, avvezzo alla fatica, al sacrificio. Come in ogni società contadina, il carattere è dato dalle lunghe attese cui abitua la natura. Sfiancarlo, svilirlo, perseguitarlo è stato un errore colossale, irrimediabile. Un vulnus che resta lì, aperto, talmente sconcio da far rabbrividire. E anche ora la Russia, anziché assecondare l’indole di questo popolo, slavo di cultura, dunque vicino, più che mai vicino – impossibile non capirsi tra vicini, se non per una reciproca voluta sconsideratezza – insiste sulla strada dello scontro aperto, perfino del terrore.
La terra, dunque. Questa sconfinata bellezza ucraina. Oggi i giovani non la vedono come una risorsa. È semmai qualcosa che suscita apprensione. Inurbamento e fine violenta di un microcosmo tradizionale, antico, cosparso di una grazia originaria. Morte pasoliniana di un mondo arcaico. Come è stato per il nostro meridione e per ogni collettività trascinata nel livellamento capitalista. Con l’aggravante del nazismo e dei soviet; proprio il caso di dire che gli ucraini hanno sperimentato tutte le “opzioni” politiche. E i segni sulla loro pelle sono ben visibili.
Igort punta la sua matita sulla leva biografica. Nel libro si alterna una galleria di ritratti, visi di anziani con una storia familiare sconvolgente alle spalle e davanti a loro. Perché sempre ci sono i figli, perduti allo stesso modo e forse anche peggio in questo Holodomor permanente, una carestia della storia, una vacatio di potere e progettualità politica che dura da troppo tempo. Holodomor, parola grave, di timbro cupo che suona ancora più triste quando si apprende che neppure sul riconoscimento della carestia come crimine contro l’umanità gli Stati sovrani sono riusciti a pronunciarsi in modo unanime. Fra i sottoscrittori pesano le assenze di Cina, Russia, Francia, Inghilterra e Germania, per citare le più vistose.
Molti sentimenti scuotono le pagine di questo reportage. Tutto ruota attorno a un’umanità gentile ma annichilita, rassegnata, ormai chiusa in se stessa, per aver visto oltre ciò che è umanamente sopportabile. E tutto torna sempre alla terra, eterno ciclo degli eventi. Quella campagna generosa ma anche estremamente desolata che Igort inserisce come un fondale ritmico nel suo racconto. Un personaggio silenzioso eppure potente che entra dappertutto, vero specchio dell’anima ucraina, radice della sua identità e resistenza.
(Di Claudia Ciardi)
Igort – Quaderni ucraini. Le radici del conflitto.
Un reportage disegnato,
Coconino Press, 2010 (2014)
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