Vincent van Gogh, Vecchio seduto, (1890) olio su tela, Otterlo, Kroller-Muller Museum
Era il 2006, un anno importante sul piano personale, per alcuni incontri che si materializzarono nella mia vita, quasi fossero stati preparati e rafforzati da certe letture in cui mi addentrai allora in circostanze assolutamente casuali. Mi riferisco alla saggistica antropologica e alla poesia americana. L’antropologia innescò un lento processo di apertura verso l’esterno, cosa che l’esperienza universitaria aveva offerto in dosi carentissime, e inaugurò una fase di rimozione di quelli che nella sfera culturale si potrebbero definire freni inibitori. Espressione questa che forse suscita qualche perplessità, ma non saprei trovarne una più appropriata ripensando dopo tanto tempo a come la pluriennale ligia attenzione da parte mia a programmi e studi troppo poco discussi nel divenire delle cose, avesse stemperato una certa vivacità critica, o meglio, l’avesse messa al bando sul nascere. E qui ebbe inizio anche una singolare rottura, che purtroppo non trovò altro sbocco se non in una definitiva presa di distanza. Il chiuso delle aule aveva un volto piuttosto compiaciuto, non vi era alcuna drammatizzazione al riguardo, il corpo accademico rattrappiva ingessato e contrapposto da presunte distrofie ideologiche o da semplice disinteresse verso un progetto comune. Siccome l’obiezione sarebbe riuscita a manifestarsi solo dopo aver intrapreso dei giri molto larghi e sempre trascinandosi dietro lo spettro del fraintendimento, fu abbastanza naturale arretrare. Chiaramente nella totale indifferenza, ci sarebbe stato da sorprendersi del contrario.
In parallelo, la poesia americana che cominciai a divorare allora, da Ezra Pound a Lawrence Ferlinghetti, gustati in piena beatitudine, nel rigetto istintivo di biografi e commentatori, mi aiutò a traghettare l’ormai appesantito bagaglio dei classici verso altre direzioni. Si può dire che sul piano letterario avvenne ciò che aveva insidiato, ribaltandolo, il mio sguardo sulla realtà. Era bastato entrare in una stanza e aprire una finestra per respirare un po’ d’aria fresca, gesti in apparenza banali ma non così tanto se qualcuno con una scusa o con un’altra ci tiene lontano dalla porta. L’ingenuità in cui mi dibattevo era tuttavia colossale. Non si tocca un personaggio ingombrante come Pound, pensando di campare solo dei suoi versi. Quello che io davo per scontato, non lo era per altri. Mi trascinai mio malgrado in una strana situazione, dove un interesse del tutto spontaneo per un poeta veniva stiracchiato e quindi platealmente tradito. Bisognava intanto capire chi fosse costei che parlava del poeta fascista. Una simpatizzante o un’innocua da palleggiare perché una bandiera fosse portata davanti a un’altra? Due aspetti che avrebbero potuto tranquillamente coesistere, sulla cui convivenza si faceva anzi un grande affidamento. Il bello però doveva ancora venire. La questione ebraica. Nel dubbio che fossi un’antisemita, l’indagine proseguì. Poiché avevo frequentazioni tedesche, pur non facendo parte di nessun empireo universitario, a che titolo soggiornavo in Germania, non avendo una borsa di studio né figurando il mio nome in nessuna zona franca nepotista? Credo di aver fatto un pieno di luoghi comuni come mai in nessun’altra stagione della mia vita. Per fortuna, quando questo controllo kafkiano mostrò il suo profilo dozzinale e abborracciato, i doni della poesia si erano già consolidati in me, e la seccatura in cui ero incappata non li poté disperdere. Fu come se stessi guadando un fiume in piena notte. Mentre qualcuno aspettava nel punto in cui mi ero immersa, pensando che sarei presto tornata indietro, i miei piedi poggiavano già su un fondale sicuro. E non se ne parlò più, com’era prevedibile, com’è sempre quando le cose cominciano mancando di autenticità, e su una forzatura così evidente pretenderebbero di accampare anche qualche diritto.
Estate di nove anni fa, dunque. Con l’insospettabile immediatezza di un’alchimia tutto bruciò in me a una velocità vertiginosa. A un tale processo contribuì molto l’amicizia e il dialogo con una cerchia bizzarra e tutto sommato eterogenea per età e inclinazioni che mi spronò a andare fino in fondo a quel ripensamento. La rivolta interiore insomma abbracciò felicemente i suoi complici.
Ma c’è un episodio che ricordo in particolare, fra le lunghe chiacchierate dell’anno in cui meglio mi sono conosciuta. Avvenne con uno studente fuori corso, ignoro chi me l’avesse presentato né come ci ritrovammo soli a un tavolino a parlare e parlare. Passarono due ore forse più e sembrava che ci fossimo appena seduti. A un tratto, confessò: «Io comunque mollo, ho bisogno di un lavoro. Non so neppure se lo troverò. Con questa roba non vado da nessuna parte. Qui siamo rimasti a Weber, te lo propinano come una Bibbia, e dopo sembra che non sia esistito altro. Siamo fermi al primo dopoguerra, quando va bene».
Fu una dichiarazione d’intenti abbastanza brusca e diceva tutto. Era anche molto più avanti di me. Se io avevo un’insofferenza generica verso alcune forme della ritualità accademica che mi sembravano indisponibili alla comunicazione e all’incontro, lui si era posto il problema di un’utilità reale, una ricaduta concreta di quello che era materia di studio. Fino a allora non avevo pensato di mettere in discussione, diciamo così, la sostanza del modello. Pur espressa in modo un po’ approssimato, la sua indignazione fotografava la comunità studentesca, nel suo intero o quasi, come un recipiente cui era destinato molto poco di quello che si sarebbe dovuto sapere, e quel poco era esposto a diverse storture se non proprio stravolto. Per lui, l’aver avuto coscienza di una cosa simile, bastava e avanzava a farlo desistere dal proseguire.
Qualche settimana dopo scrissi un articolo su questi temi, un articolo asciutto, direi maturo, che tuttora rivendica a pieno titolo l’attualità dell’argomento sollevato davanti a quel caffè, senza rivelare direi nessuna giovanile sfasatura, o se anche fosse, la si percepisce molto in sordina. Ecco perché mi sorprende non poco chi mi legge adesso, quando, inciampando in qualcosa che magari non gradisce su basi ideologiche, sposta il proprio fastidio su una mia presunta attitudine a imbarcarmi, a soggiacere a aspetti un po’ troppo ruvidi per una personalità femminile, a invischiarmi nella polemica – molto poco femminile anche questo – tutte cose che, volendo essere obiettivi, si sono sempre date, fin dal primo momento in cui ho cominciato a scrivere, e non mi pare abbiano corroborato nulla di eccessivamente indigesto.
Alcuni, quando leggono qualcosa senza aver prima allentato i lacci che legano la loro sensibilità, pregiudizi che condizionano irrimediabilmente il loro rapporto con l’altro, di cui credono di conoscere il carattere, tendono a scambiare un atteggiamento critico per una morbosa assiduità nel non essere in pace con se stessi. Quando dicono “arrabbiato” intendono “poverino”, mentre la rabbia è un sentimento pure molto nobile, quando è ragionato rifiuto di cose ingiuste e superficiali che attentano a un dibattito, al confronto di posizioni differenti, estromesse per impedirne l’integrazione, e non ha perciò nulla a che spartire con il pregiudizio borghese.
E vengo a quanto ha sorretto fin qui il mio ragionare. L’incomunicabilità. Le lacerazioni che attraversano il nostro mondo, quello in cui comprensibilmente rivendichiamo di voler stare tranquilli, un mondo che nulla potrà impedire vada nella direzione della pace, della cultura e della convivenza proficua tra esseri umani, non solo in occidente ma ovunque, le tragedie che scuotono quelle che un attimo prima pensavamo fossero per noi delle indiscutibili certezze, uscire, incontrarsi, visitare un museo, sono figlie di una incomunicabilità di fondo. Siamo divisi, violentemente contrapposti anche a casa nostra. Il divario sociale scava solchi spaventosi. Disoccupazione, sacche di esclusi, diseredati, gente per cui l’opportunità di un riscatto dovrebbe essere contemplata al pari di coloro che quell’opportunità riescono a coglierla assai precocemente nella propria vita. Non possiamo ignorare che tutto questo ci indebolisca e ci esponga. La scuola, l’università devono essere strutture formative vere, comunità condivise e frequentate dai cittadini, anche dopo che il ciclo di studi di ognuno si sia concluso. Io vedo, invece, un occidente sempre più frantumato, colmo di livore, di deliri revanscisti degli uni contro gli altri, in preda a falsi ideologismi, a atteggiamenti di sconvolgente incongruenza qualsiasi siano i problemi che ci pungolano a cercare delle soluzioni. È chiaramente una guerra, strisciante, brutale come solo una guerra può esserlo, una rappresentazione bellica in astratto, perché si annida in una mentalità, quella occidentale odierna, che non vuole riconoscersi anche nelle sue debolezze. Non ci sarebbe nulla di male, anzi, ne usciremmo rafforzati. E il terrore non troverebbe più dove ingaggiare la propria battaglia.
(Di Claudia Ciardi)
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