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14 giugno 2021

Vignolo - Neogotico contemporaneo

 

Ragione e sentimento del commiato

Il rapporto con il lascito delle generazioni che ci hanno preceduto e, dunque, con le donne e gli uomini le cui vite hanno contribuito ad alimentare la nostra, molto ci racconta dell’idea di società alla quale ispiriamo le nostre azioni. In un tempo affrettato che spesso guarda alla morte come un disagio da rimuovere, che confina il morire in una dimensione di solitudine senza possibilità di consolazione – e i due anni di epidemia hanno ulteriormente contribuito a questo processo di rimozione nell’imporre il divieto di saluto ai propri cari – inevitabilmente anche la sfera del vivere risulterà contaminata da questo innaturale occultamento. Laddove non si danno cura e sollievo nella morte, non ve ne possono essere neppure in vita.
La questione si pose già tre secoli fa nel fiorire di una poesia cimiteriale che in un momento di profonde mutazioni dettate dal cosiddetto progresso, quando si ridiscutevano luoghi e tipologia delle sepolture, indicò la necessità della cura, della vicinanza al ricordo come unico sollievo, come strada maestra per meditare e mediare i cambiamenti prospettati.

Il carme Dei sepolcri, composto nell’estate del 1806, che Foscolo dedicò all’amico Ippolito Pindemonte, anche lui intervenuto su questi temi, è la più alta espressione nella poesia italiana di un sentimento che trascende lo spazio e il tempo e che perciò si fa interamente memoria. Se le tombe dei grandi in Santa Croce a Firenze, di uomini che hanno consacrato il loro ingegno ai pilastri fondanti dell’architettura sociale – Michelangelo, l’arte, Galilei, la scienza, Machiavelli la politica – sono esempi altissimi e fonti d’ispirazione di valori morali altrettanto elevati per chi le visita, anche i più dimessi tumuli popolari ci parlano con la bontà delle loro presenze lì raccolte di una quotidianità prossima alla nostra, di gesti e rituali che ci vengono incontro per proseguire un dialogo intimo e rassicurante con noi: «non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani».
I piccoli cimiteri di provincia sembrano offrire, più di altri, questo silenzioso travaso di anime forse per le caratteristiche della loro stessa collocazione, quasi accoccolata vicino ai paesi, e per dimensioni più limitate rispetto a taluni sterminati complessi urbani. Penso agli ingressi cimiteriali in certe frazioni lungo l’Arno, custoditi dalla maestà di cipressi centenari, dalla dolce grazia dei campi su cui si alternano tutti i colori delle stagioni, e vegliati dalla corrente del fiume. E ripenso alla bellezza selvatica delle tombe sparse intorno agli abitati di Langa, a Dogliani col suo tacito pellegrinaggio nella luce radente e calda dei tramonti invernali, ai fievoli lumi dei sepolcri che di notte punteggiano ogni collina come piccoli vascelli che trasportano un prezioso carico di sogni.
Tante volte ho riposato gli occhi su queste cittadine dei morti, segnacoli al mio tragitto, fosse la Toscana interna, l’Appennino umbro e abruzzese col suo volto corrugato, o l’aerea ascesa agli amatissimi paesaggi alpini del Piemonte. E ogni volta ne ho tratto la foscoliana poesia di un tempo che esce da se stesso e nella sua lingua spirituale comunica presenze vive al nostro sentire.
Il progetto dell’architetto Roberto Olivero per il cimitero di Vignolo in Valle Stura, che è anche memoriale di guerra, s’inserisce in una lunga e importante tradizione di riletture e interpretazioni del neogotico di montagna. Olivero, specializzato in recupero di strutture alpine, ha lavorato con scrupolo da filologo non tralasciando di cucire su ciascuna delle sue scelte quel peculiare patrimonio emotivo umano che nei luoghi del commiato è più stratificato e denso che altrove. Materiali e modelli sono radicati nell’artigianato locale ma tendono anche alle lezioni della Wiener Werkstätte, così come sono compresenti le tante suggestioni di uomini e di cose, le folli immaginazioni confluite in quella straordinaria e sempre sfuggente impresa dell’eclettismo irradiato dalle capitali culturali fino agli ambiti di provincia. A raccontarcelo è Daniele Regis in un articolo che non solo ci spiega tecnicamente il lavoro fatto ma lo definisce nel contesto specifico di memorie di paesaggio e d’architettura che ci riportano all’orizzonte poetico richiamato all’inizio. Le fotografie d’accompagnamento scattate da Regis replicano questa doppia polarità immaginativa, inserendosi peraltro nel gioco di rimandi e omaggi a Gabetti e Mulas, portatori di sguardi differenti ma pure fortemente compenetrati sul neogotico piemontese.


Neogotico contemporaneo in acciaio
di
Daniele Regis


 

Volendo indicare la modificazione decisiva per un percorso neogotico contemporaneo si può proporre quella lunga stagione oltremodo fertile di studi come di opere di alcuni tecnici intellettuali di vasta cultura che mostrano un interesse per la storia, per le radici romantiche dell’architettura ottocentesca, per il paesaggio e il giardino, ben addentro un Ottocento illuminato anche dalle letture di Shafetsbury o dello Hume, come elementi decisivi anche per la nuova architettura. La passione della notte evocata da Gabetti e Isola nella storica, celebre, lettera per la presentazione della Bottega d’Erasmo (neoliberty o neogotica?), mutuata da Karl  Jasper, era la manifestazione, il desiderio, l’esigenza, forse anche la ribellione - comportasse anche il naufragio – di non sottrarsi alle voci della Storia; con spunti di approfondimento per il Medioevo privo di canoni o di regole e adatto a interpretare le tendenze deformanti delle composizioni dell’Ottocento o per gli influssi dell’Oriente che ogni tanto rinfrescano l’Europa.  Una passione che riapriva le tracce preziose e le raffinate tecniche lasciate da una cultura critica che riannoda le esperienze di una grande tradizione politecnica, francese e poi piemontese e lombarda, cresciuta su di un sensismo illuminista che rivalutava le tecniche e mestieri, con sim-patia per l’eclettismo in tutte le sue declinazioni neoclassiche e neogotiche come «facce di un medesimo atteggiamento, all’apparenza ambivalente, in realtà molto univoco in senso romantico» (A. Griseri).

Il lettore vorrà perdonarmi per questa introduzione ondivaga e alta (alta per i protagonisti evocati), forse eccendente il tema, ma solo così riesco a collocare criticamente i riferimenti, le radici, di un’opera strana, quasi inspiegabile, strana anche rispetto agli esiti  precedenti per il giovane autore architetto Roberto Olivero, che si è cimentato per lo più in recuperi di architetture alpine con intelligente filologia (il grande Mulino della Riviera di Dronero ritornato alla produzione, l’antica casa nobiliare “Mosè” con facciata a vela a Marmora, entrambe  in pietra e legno).
Siamo nella provincia (di Cuneo) che annovera alcune delle opere più significative del neogotico ottocentesco nazionale e internazionale (le serre del castello di Racconigi, Il castello di Pollenzo, quello del Roccolo e di Envie) ma anche cento opere minori, folies, bizzarrie, arrischiate, curiose, tutte di derivazione neogotica.
Opere anche contemporanee. Acciaio Arte Architettura nel numero 16 (novembre 2003) aveva pubblicato un’opera simbolo del neogotico contemporaneo di uno dei maestri della “scuola torinese”, Lorenzo Mamino. «La scala torre del centro studi Cesare Pavese», scrivevo, «è un segno forte, condensato, catalizzante, misterioso che reinventa un paesaggio di pinnacoli, guglie torrioni, cuspidi, in continuità con le più belle invenzioni schelliniane per Dogliani e la Langa e che colloquia anche con immagini più esotiche come le torri faro marittime con le lanterne e specchi e lenti convesse, i disegni neogotici di Hugo o di Pugin: faro delle colline, luce della letteratura, missile del sensibile e del soprasensibile in un’immagine neogotica e di disegno urbano di livello europeo. È una torre o un campanile o una cuspide tra altre guglie e pinnacoli. La strana opera fronteggia infatti il volume della cappella dei Marchesi Incisa con tamburo ottagonale e cuspide aguzza su cipolla e il campanile su base medievale che culmina con un curioso ottocentesco svolazzo di falde, dati dall’incrocio di due tettini a capanna sormontati da un aguzzo obelisco»; quest’ultima (la copertura del campanile) quasi una citazione per il progetto di Vignolo (giocato  dall’ incontro di quattro tettini a capanna sormontati da una cuspide), un neogotico “minore”, campagnolo,  di periferia.
Il tema: la definizione di un disegno urbanistico cimiteriale (tema squisitamente ottocentesco) con la copertura dell’area del commiato per il cimitero del piccolo paese di Vignolo vicino a Cuneo.
Ne è scaturito il più neogotico dei cimiteri contemporanei cuneesi con un progetto per una tettoia risolta come un grande padiglione neo-gotico al centro dell’area tra cimitero antico e nuova espansione: uno spazio aperto, destinato al commiato, che funge da collegamento tra i vari ambiti del cimitero, un nuovo elemento gerarchico, centrale, visibile, allo stesso tempo funzionale e sacro.
L’opera è costituita da una copertura sorretta da struttura portante in acciaio, che si appoggia da un lato su pilastri facenti parte dei loculi dall’altro su nuovi pilastri in tubolare di acciaio. La forma della copertura in pianta e alzato richiama il simbolismo della croce, specie nell’intreccio delle strutture costituenti le nervature portanti delle falde, in verità senza mai citarla direttamente e riprodurla analogicamente. La struttura a falde triangolari e colmi inclinati, che si susseguono in un alternarsi di pendenze, tenta di tradurre  attraverso forme geometriche le suggestioni provenienti della natura circostante: i secolari castagni e l’intrico del bosco, sul pendio ad ovest, ma rimanda anche ai padiglioni neogotici inglesi  per i monumenti  funebri, alle folies neogotiche di un gotico campagnolo di provincia, componendosi come un padiglione leggero, uno svolazzante origami di acciaio.
L’elaborazione di coperture e orditure bizzarre era stato tema molto trafficato dal neogotico, dai pavillon rustiques, ai kiosques  alle cabanes, alle halles, con esiti arrischiati e curiosi come le coperture ad ombrello cinese (per un chiosco nel castello di Envie), i tetti a croce cuspidati, le volte stellate e a ventaglio; un repertorio di modelli, veicolati in numerosi splendidi manuali, ancora evocativi per la leggerezza, le nervature sottili, di strutture “sospese” tra gotico e neoliberty, e la varietà degli esiti specialmente nel disegno delle coperture.
Così è a Vignolo: una struttura strana, complessa, costituita nella struttura primaria in acciaio della copertura da doppi tubolari rettangolari disposti lungo le diagonali (quattro converse) affiancati e fissati sulla sommità dei quattro pilastri mediante flange imbullonate; verso l’esterno i tubolari si aprono a morsa per fissare il pluviale di discesa. Altri tubolari rettangolari della stessa dimensione corrispondono alle linee di giunzione delle falde triangolari in corrispondenza dei quattro colmi inclinati. Si vengono così a formare otto falde triangolari, che compongono a due a due le quattro capanne con colmo inclinato rivolte sui quattro lati.
Tutte le strutture primarie convergono al centro (culmine della copertura) dove sono congiunte a una serie di flange radiali, mediante bullonatura. Le flange sono saldate a un tubolare centrale che funge da monaco alla cui estremità inferiore, attraverso un’altra serie di flange radiali, sono ancorate le contro-strutture, che fungono da contenimento della spinta orizzontale lavorando nell’insieme come travi reticolari. Tali contro-strutture raddoppiano quindi le strutture primarie e sono anch’esse costituite da tubolare (100x50x4mm). In corrispondenza dei quattro timpani di facciata, completano il sistema di contro-strutture altre quattro travi reticolari.
Alla ragnatela d’acciaio è saldata la struttura secondaria sempre in acciaio, con un’orditura a maglia quadrata per realizzare il piano di appoggio del manto di copertura, suddiviso nelle otto falde triangolari, costituito da panelli isolati in poliuretano protetti da lamiera nervata e nell’intradosso da pannelli in legno per ridurre al minimo (nel sito del commiato)  il rumore dell’acqua piovana.
In altre parole, in una lettura spaziale: ci sono due capriate principali, inverse, impostate sulle diagonali del quadrato in pianta, e quattro capriate inverse in corrispondenza dei timpani; le capriate dei timpani sono tirantate con convergenza verso il centro attraverso collegamento monaco-vertice, per tenerle in posizione sul piano del timpano;  gli elementi principali di capriate e tiranti sono sdoppiati, ovvero formati da accoppiamento di tubolari per poter realizzare innesti a scomparsa e giunture bullonate.
I vantaggi di questo curioso sistema strutturale sono: la riduzione delle sezioni principali, l’alleggerimento complessivo della struttura in ferro, la reticolarità e distribuzione dei carichi (sistema gotico di scarico attraverso la materializzazione delle linee di forza), la possibilità di realizzare giunzioni a scomparsa e di rendere le giunzioni non iperstatiche.
Nel centro geometrico della struttura un lucernario piramidale trasparente permette alla luce solare di scendere a terra, con richiamo alla simbologia sacra. Una cuspide con scheletro portante in scatolari saldati e falde in lastre di policarbonato. La struttura del cupolino è vincolata a quella principale mediante un sistema “ad albero” con pignone verticale centrale imbullonato alla base nel punto di convergenza delle travature e con i quattro telai triangolari dei lati della piramide fissati al fusto centrale.
Di notte, la piramide illuminata diventa nuovo riferimento della città dei morti, una “lampada della memoria” sempre accesa, un piccolo faro per i pellegrini di terra. Lo strano “cappello” a falde pieghettate poggia su quattro pilastri tubolari – con capitelli rastremati collegati con piastre – che nascondono all’interno i pluviali. Curiosi i doccioni di raccolta sostenuti dal prolungamento delle diagonali di copertura, a formare una sorta di gargoyles tecnologici. Si viene così a formare un “nuovo centro” all’interno dell’area cimiteriale, che se dall’interno permette di accogliere persone nell’area del commiato (dedicata ai caduti in guerra e ai defunti vignolini), dall’esterno spicca con la sua guglia ferrosa, creando un dialogo ricco di rimandi con i campanili delle antiche chiese del centro storico sullo sfondo.
La struttura portante in ferro verniciato è stata scelta per la sua possibilità di assemblaggio, per la versatilità e leggerezza visiva e al contempo per la diversità rispetto ai materiali che costituiscono il palinsesto costruito circostante (cemento intonacato, pietre, marmi), in un assemblaggio delle componenti di carpenteria (tubolari, profilati, piastre, innesti) risolta tutta in laboratorio con elementi pre-assemblati con modelli che paiono richiamare i sistemi di alto artigianato della Wiener Werkstätte.
Un segno delle possibilità dell’architettura e dell’acciaio di innovare con attenzione alla storia e ai contesti ordinari, anche su temi minimi, qui nella periferia storica del Piemonte sud occidentale.

(Di Daniele Regis)


* Fotografie del Cimitero di Vignolo – Area commiato – Daniele Regis ©


  











30 settembre 2020

La fotografia di Riccardo Moncalvo

 

Pubblicato nel 1976 dalla Tipografia Torinese Editrice, questo catalogo di Riccardo Moncalvo è una delle più suggestive e complete panoramiche sulla fotografia del Novecento. Un volume che ogni cultore di quest’arte, e non solo, dovrebbe conoscere tanto è sfaccettata la materia qui offerta, raccolta essenziale ed esemplare di uno dei grandi maestri italiani che ha letteralmente attraversato il secolo. Di fronte a un’opera del genere si resta ammirati e subito dopo si avverte il bisogno di rinnovarne la divulgazione, magari percorrendo di nuovo quell’impresa editoriale che Alfonso Dellavedova, fotografo, ma anche grafico esperto ed editore, volle con estro tenace perché da queste pagine si scattasse un’altra e più compiuta fotografia alla mostra promossa in occasione del cinquantenario di attività dell’autore.

Il padre, Carlo Emilio Moncalvo (1887-1935), giunto giovanissimo nella capitale sabauda, radicato in una famiglia della vecchia aristocrazia piemontese, si forma presso l’atelier di Ferdinando Bietenholz, quindi, trasferitosi per un periodo a Napoli, realizza qui le inedite riprese della vita delle creature marine nell’acquario cittadino, riscuotendo il favore della critica per l’assoluta novità della prova. Tra il 1928 e il 1929, Carlo Moncalvo fonda – primo a Torino – il nuovo laboratorio per lo sviluppo, l’ingrandimento e la stampa del 35 millimetri – nel volantino della ditta si leggeva “stampa garantita in ventiquattro ore”. In questo antro delle meraviglie, il giovane Riccardo inizia a prendere familiarità coi ferri del mestiere, rivelando un’attitudine così spiccata da garantirgli un esordio assai precoce, ad appena quindici anni. Da allora la sua carriera non conosce battute d’arresto, consegnandolo a premi e rassegne nazionali ed estere. Incarichi, mostre, ma anche, soprattutto, tanta ininterrotta devozione che lo induceva a “vedere” l’immagine sempre, ovunque, a scovare l’incanto della composizione anche quando non lavorava.

Attraverso le parole di Angelo Dragone, Luigi Firpo, Michele Ghigo, Alfonso Dellavedova che dedicano autentici saggi di poesia all’opera di Moncalvo, prende vita un mondo culturale di ascendenze piemontesi che tessendo i più diversi talenti e stimoli creativi ha saputo fare scuola, segnando indiscutibilmente le arti e i saperi per mettere poi in circolo questi semi. Tra le tante voci citate non si può trascurare quella di Carlo Mollino, architetto e fotografo, autore del celebre libro Il messaggio della camera oscura che nel 1969 scriveva così: «le cose di Moncalvo sono ritratto, una rivelazione di una cosa che prima ci appariva senz’anima»

Quando a Torino ho visto l’album dei suoi provini sul Barocco sono rimasta folgorata. Già solo da quel campionario, quasi il quaderno di un sarto che colleziona stoffe per i suoi abiti migliori, s’intuiva una storia avventurosa ed estremamente densa di luoghi, soggetti, ispirazioni. L’occhio instancabile di Moncalvo ha infatti saputo rendere omaggio tanto alla natura, con le sue cadenze sospese tra estasi romantica e tempeste sublimi, quanto alle architetture industriali. Due versanti investiti dalle medesime venature simboliche, suggestioni e toni affini, sebbene si tratti di cose all’apparenza tanto lontane. Bellissimi i ritratti dei langaroli che ho amato dapprima nelle serie di Michele Pellegrino e che qui ho scoperto a uno stadio per così dire primevo, ancor più circonfusi e allo stesso tempo intagliati in quell’arcaismo terreno da cui sembrano affiorare direttamente.

Perché l’uomo è in queste immagini misura e compendio del tempo. È l’elemento da cui si rinvengono le proporzioni, anche in senso metaforico  – il fondovalle apuano con il piccolo gruppo in marcia, le orme sulla neve altrimenti immacolata e perfetta, i comignoli che fumano in un mattino di periferia. L’essere umano sia che si stagli in un paesaggio che lo soverchia sia che rimanga non visto nel chiuso delle case è una presenza che scandisce, un controcanto cromatico, un’armonica dissonanza su cui in ogni caso ci si trova a riflettere. Così pure nel caso degli oggetti i reticoli delle impalcature con la loro geometria ossessiva o il lucido speculare bilanciamento metallico dei binari si trasfigurano, quasi un voluttuoso ideogramma l’uno, e un morbido spago intrecciato alle mani per un gioco d’infanzia l’altro. Anche nell’apparente freddezza, estraneità delle cose avviene di sentirsi attraversati dal tepore di chi le ha fabbricate, dall’intima quotidianità di chi le utilizza e dunque da chi, il fotografo, fa per avvicinarcele. Dettagli – la catena di un contadino o la punta del suo badile –  che dominano la scena o panoramiche assolute che sembrano sfuggire e che si tendono in una coralità pur tesa, ma infine raccolta. E una religiosità dellattimo spesso affidata al titolo, segnacolo che richiama il potere magico dello scatto. Ci sono generi e stagioni nei temi prescelti da Riccardo Moncalvo ma anche molti ritorni, sintomo di una sperimentazione, di una volontà di rivedere quel che si era già visto sotto una luce nuova, investendolo delle attese di una ricerca in cammino, di un passo ulteriore. Non sorprende pertanto incontrarlo ancora all’inizio del millennio e sulla soglia dei novant’anni, allestire le sue ultime personali. Segno anche di una professionalità indiscussa e di un temperamento ammirevole, ben ripartito fra scrupolo dettato dal mestiere e straordinaria passione del creare.


(Di Claudia Ciardi)

 

Catalogo:

La fotografia di Riccardo Moncalvo, introduzione di Angelo Dragone, Tipografia Torinese Editrice, 1976


Link: Archivio Riccardo Moncalvo


Salgono le nubi - Champoluc (Aosta), settembre, ore 11 (1938)



Langaroli al mercato - Murazzano (Cuneo), luglio, ore 11 (1947)



Tempo d'autunno nel vercellese - novembre, nebbia, ore 10 (1938)



Cézar 'd la fisa - Antagnod (Aosta), febbraio, al sole, ore 14 (1938)


Appunto di paese - Racconigi, Cuneo, novembre, ore 9 (1937)




Fondovalle - Cave di marmo nelle Apuane, luglio, ore 13:30 (1975)

 

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