Visualizzazione post con etichetta Martin Heidegger. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Martin Heidegger. Mostra tutti i post

18 dicembre 2020

In osservanza degli augures


Nell’italiano letterario, soprattutto d’uso poetico, augure è un aggettivo che significa “di buon auspicio”. In un tempo di profonda comunanza spirituale con i fenomeni della natura, di fatale immedesimazione nei miti di uomini e dèi, figure favolose e prodigi destinati a scritture oracolari o alle sante prime codificazioni del diritto pubblico e privato quali le XII tavole, incuneate non a caso nell’epigrafe dei foscoliani Sepolcri [Deorum Manium iura sancta sunto], hanno disegnato i tratti fondanti dell’antica Roma. Sacri recinti, alberi benedetti, boschi abitati dalla divinità, inumazione di pietre o manufatti toccati dal fulmine, fonti protette da solitarie ninfe, ombre e altre ineffabili presenze negli horti custoditi dai Lari, vegliati dalle nuvole, dal vento, dal fluire delle cose in cui accogliere segni augurali. Fu questo un mondo di spiriti e poesia e creature vicine all’essenza dei cicli che regolano la nostra vita terrena, menti rivelatrici di quanto la modernità ci avrebbe tolto, «il riverbero di una luce votiva» per dirla con Heidegger, cui l’arido della tecnica, la freddezza del nuovo mondo non avrebbero lasciato scampo.

Nei pressi del comizio romano, il primo foro, si narra vi fosse un luogo recintato per il culto, ove sorgeva un fico anch’esso consacrato, pianta ritenuta in concordia coi fulmini. Qui venne eretta la statua di Atto Navio, l’indovino ammantato di un’aura leggendaria nel quale alcuni vollero vedere la lotta fra l’antica comunità teocratica latina e la nuova monarchia dei Tarquinii (Livio, I, 36; Dionisio, III, 71 seg.; [Aurelio Vittore], De viris illustribus, 6). Sacro e profano, il mutamento negli assetti di un organismo comunitario che passa dolorosamente per la profanazione dell’antico. Ma pure in tale profanazione i resti sono ancora palpitanti e sprigionano la forza che possedettero nella loro integrità. Chi li avvicina, sente e presente la materia che li ha animati, cosicché sfiorandoli la loro energia trasmigra nei corpi assetati che sono ancora in cerca di quell’autentico, del senso che non è andato perduto ma solo giace in attesa. E noi siamo ora più che mai su quella soglia, frammenti in bilico che potrebbero accendersi di una sorte presaga, ritrovandoci in un dopo finalmente liberato, ricomposto, autentico.


Seguendo la mappa dell’antico, Alessia Rovina ci conduce attraverso la liminalità dell’auspicio, riflettendo sulla mutazione necessaria, sulla capacità di cogliere in questa metamorfosi gli indizi che salvano, per una consapevolezza della rotta da tenere nelle prove che abbiamo di fronte.


(Di Claudia Ciardi)


I miei auguri, i miei auspici

Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

 

Auguri, auspici: due facce della stessa medaglia. Altre due roccaforti di uso quotidiano in cui i nostri Latini sono riusciti a stabilirsi, osservando da vicino quanto della loro sacralità sia rimasta in noi. Gli augùri, per noi, sono un sostegno fondamentale alla ritualità che distingue i grandi eventi: il Natale, la Pasqua, i compleanni, le tappe familiari e lavorative della vita di ognuno. D’altro canto, gli augures latini altro non erano che i grandi sacerdoti preposti all’interpretazione dell’augurium: il segno con cui gli dèi davano la possibilità di conoscere il loro responso in merito agli interrogativi umani, quali scelte, decisioni, in fin dei conti quale destino spettasse a ciascuno. Un destino che ognuno di noi immagina e desidera il più fulgido possibile, e a buon diritto: augurium è infatti stretto parente del verbo augeo, il verbo del titolo imperiale di Augustus, il cui significato precipuo è «far crescere», «far diventare grande», dunque «far riuscire». Questo continuo compimento umano verso una grandezza interiore, e dunque verso la piena maturità, poteva essere interpretato dai sacerdoti mediante l’auspicium: la visione attenta – spectare – del volo degli uccelli – aves – oppure mediante lo studio delle interiora animali; non ci sono altre vie al proprio destino di grandezza: la percezione attenta dell’Alto, la percezione attenta del Dentro, dunque del Basso. In questo particolare Natale, Alto e Basso sembrano pericolosamente disfarsi, e confondersi in un indistinto e tetro garbuglio. Una festività tanto fondamentale, di nascita, è più che mai annodata con il termine ultimo della Vita, e parrebbe inutile celebrare questa ricorrenza. Io non penso che sia così. Credo che l’umano dentro di sé porti una bellezza tanto grande e complessa, e che meriti di poter scegliere consapevolmente ogni giorno una via degna di tale tesoro, con i mezzi che ciascuno di noi dispone, e andando anzi a colmare, a «far crescere» la bellezza di chi, in sé e nel mondo, non la vede. Vorrei concludere questa nostra riflessione con un brano estremamente importante di Italo Calvino, autore magnifico che merita una rilettura continua nel corso della nostra vita, nella speranza che ad ognuno possa dare un fascio di luce dorata ed abbacinante, da riconsiderare ogni giorno.

«Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Italo Calvino, Le città invisibili, 1972

A tutti noi il mio augurio: di far crescere ciò che non è inferno, in noi e nel mondo, ogni giorno!

(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro, novembre 2020
account twitter: @rovina_alessia)


26 ottobre 2020

Il cammino e il dubbio


L’incertezza, la perdita di senso che una realtà improvvisamente mutata e, ancor più, mutevole gettano sulla vita umana, aprono le strade al dubbio. Questo cammino, per quanto accidentato e talora faticoso, prelude alla vera esperienza di sé. Somiglia secondo Martin Heidegger, in cerca dell’autentica grecità durante il suo soggiorno in quella che lui chiama «la terra degli dèi fuggiti», all’ambito che definisce ciò che è atteso. Un sentimento presagito, la traccia di un pensiero che scorre e non di rado è perfino più vivida e salda in confronto all’esperienza accumulata fino ad allora. Così la lenta preparazione alle cose, la poesia a lungo custodita sono il témenos (τέμενος), il sacro recinto di ognuno, da cui profondamente irraggia la verità dell’essere.
Andare nel deserto significa risalire alle fonti della propria interiorità. E lì, in quella permanenza rituale, offrirsi al messaggio che ne scaturisce. Già la lingua latina classica – vengono in mente autori quali Cicerone, Livio, Sallustio – esprime nella parola “solitudo” (deserto, solitudine, penuria) l’intensità del nesso tra luogo e affezione dell’anima. Metafora per eccellenza di pellegrinaggi e ascesi, la sua longevità letteraria dagli antichi, alle Scritture, all’indagine filosofica è il segno di una prova necessaria per la definizione degli umani orizzonti.
Addentrandosi nel suo viaggio argonautico, Alessia Rovina ci guida attraverso una sentita riflessione che con lo sguardo rivolto alle esortazioni del sacro tenta di indicarci le possibilità della rotta che sia apre davanti a noi.

(Di Claudia Ciardi)



Yehudah – l’Onorato. * Il rito nel deserto * Foto di Alessia Rovina,
16 ottobre 2018
©

L’uomo nel suo deserto

di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

Compagni di viaggio, l’estate è trascorsa, e con il ritirarsi del tepore dorato dei tramonti di Agosto così sono sfumati i nostri affannati tentativi di normalità. Nel benessere, che temevamo di dover solo immaginare, ci siamo gettati, convinti che fosse finalmente arrivato il momento della nostra overdose di esperienza, persuasi che finalmente potesse riprendere la nostra piena navigazione nel mare che noi avremmo potuto scegliere. Nei mesi trascorsi quanto dolorosamente abbiamo dovuto prestare ascolto al sorprendente proverbio tedesco che compare nel terzo capitolo de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, il quale recita «einmal ist keinmal»: una volta è come nessuna volta. In quella foschia che ci ha messo dinnanzi alla nudità, il nichilismo si è impossessato della nostra esistenza, che accade una volta. E una volta è come se mai fosse accaduta. In parte, noi siamo davvero una volta e nessuna volta. Siamo esseri mortali, destinati, come puntualizza il Coro degli anziani di Fere nell’Alcesti di Euripide, a pagare un debito che ciascuno di noi ha con gli Inferi, maturato nel momento stesso in cui emette il suo primo vagito (vv. 418-419). E ora, con gli ultimi accadimenti, la partita a scacchi di Bergman è ritornata ad essere un memento quotidiano. L’incertezza che tutti noi eravamo riusciti a tenere a bada è di nuovo tornata a bussare alle nostre porte. Anche la mia, quella di una persona che da quando ne abbia memoria ha sempre avuto una domanda ad ogni risposta. Per questo motivo ho deciso, intercettando gli umori dei miei interlocutori, in questo breve tempo autunnale, saturo di dubbi, di interrogare le traiettorie che fino ad ora ho percorso, in questo mio eterno viaggio verso il Vello d’Oro che a ciascuno di noi spetta, e solo una metafora sono riuscita a visualizzare: il pellegrinaggio… Nel deserto. Sì, lo stesso che incontrarono i nostri sodali Argonauti, quando per i venti avversi furono costretti a portare sulle proprie spalle la loro nave Argo nel deserto di Libia – il giogo dolce e necessario della responsabilità della propria vita – e lo stesso della più conosciuta tradizione antica, vale a dire quello che separa la terra d’Egitto dalla Terra Promessa, quel luogo agognato «in cui scorre latte e miele» (Esodo, 3,8), dato in eredità da Io Sono – affascinantissimo nome con cui il Dio dei Padri si presenta, tutt’oggi ammantato di ineffabilità nella tradizione ebraica. Un luogo a cui i salvati potranno giungere solo dopo una traversata che a prescindere essi considerano come impossibile, e verso cui manterranno un atteggiamento incredulo, arrivando all’ostilità aperta nei confronti di Mosè e di Dio, e soprattutto a rimpiangere la prigionia egiziana, che garantiva la morte, ma soprattutto la certezza di essa. Una morte… Senza rischi, per quanto paradossale possa sembrare l’affermazione. Ebbene, quello era uno dei primi grandi pellegrinaggi terrestri raccontati puntualmente: guidati da un puro desiderio di libertà, Mosè e Dio sanno che è giunto il momento di camminare verso ciò che spetta loro. Ma il gregge non è d’accordo. Litiga, s’azzuffa, pretende cibo e acqua, e poco importa essere finalmente padroni di sé, attraversare il Mar Rosso, conoscere l’amore del Cielo: l’uomo ha bisogno di concretezza, continua, immediata, costante. Di prove. Anche ora è così: ognuno di noi ha bisogno, in minima o in larga parte, della sua dose di garanzia quotidiana, della certificazione che nulla devierà dai propositi stabiliti con la grande assertività, ottundente eredità del nostro mondo multimediale. La ripresa autunnale ci ha rimpinguati di questa nostra abitudine: provare che la scuola ora è sicura, e che non succederà più nulla di brutto. Non è così. «Atreo non ti generò per essere fortunato in ogni cosa. Sei un mortale, devi conoscere tanto la gioia quanto la sofferenza», dice dolcemente l’anziano servo ad Agamennone nel prologo dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Tendo a dimenticarlo molto spesso, ma quando ricordo che ogni essere umano, dall’avanti Cristo fino a me, l’ha profondamente sperimentato, mi sento più leggera. A questo servono i Classici: amici eterni che non ci lasciano mai, e continuano a chiacchierare, ritardando l’ora in cui si spegne il lume, per continuare a parlare… Eppure, qualcosa accade, ad un certo punto. Prima, o poi. Lo chiamerò utilizzando la parola più abusata e più fraintesa: l’Amore. Un Amore così potente da mettere in crisi tutto. Per i nostri pellegrini antichi, questi erano i comandamenti del Sinai, in cui il Dio dell’Antico riversava la sua predilezione, e forniva, come fanno i genitori, un decalogo da seguire per poter essere sempre sul Suo sentiero. Ma, nella bellezza mai abbastanza valorizzata di questo momento, accade poi uno squarcio, che mette in crisi quella che era diventata una legge di comodità: Dio si rivela. E lo fa affidando al mondo Suo Figlio: Gesù. Costui, da uomo, prima di ogni azione legata alla sua missione pubblica, si ritira, e va nel deserto. Non un deserto qualunque; egli discende nello stesso luogo che aveva ospitato i Profeti, il Battista e Davide: il deserto di Giuda, ancora magnifico ed abnorme, nei suoi wadi sensuali e totali, una moltitudine di fianchi sdraiati tra il Giordano, Gerico ed En Gedi. Lo Spirito lo guida lì (Matteo, 4,1): è necessario che egli sperimenti, per il simbolico intervallo di quaranta giorni, la condizione basilare dell’uomo: la solitudine. L’uomo manca. Per definizione. Quanti dei nostri cuori ora sono un deserto. Deserti soprattutto di guizzo, di speranza e di creatività. A così poco serve la possibilità di guardare il mondo da uno schermo, se il mondo non fiorisce in noi… Sempre affascinante ed eloquentissima, in quella ricchezza che posseggono le lingue che s’affacciano sul Mediterraneo e sono nate dai primi grandi scambi culturali, è la resa ebraica dei lemmi «figlio d’uomo/colui che parla» e «deserto»: בַּר, bar, eמִדְבָּר, midbar. Questo perché ogni erede della Vita deve portare con sé il dubbio, la difficoltà, la durezza del deserto. Ma, anche perché quel deserto deve essere abitato, deve essere percorso, perché solo nel suo nudo silenzio possiamo sentire la nostra parola. Questi mesi più che mai mi hanno ricordato che il dolore è prezioso. Non portiamolo in giro come un vessillo consumato, non sminuiamolo con qualsiasi contatto possiamo intercettare. Osserviamolo, piuttosto, con passione: capiamo se al suo interno non ci sia un qualche petalo che stia spuntando. E, se dovesse capitarci di riuscire a vedere una sfumatura, anche debolissima, all’orizzonte di questo deserto, in questo viluppo di nervosismo e disfattismo, fermiamoci immediatamente a fissarla. E usiamole la più grande pietà: quelli siamo noi, che aneliamo a ciò che c’è oltre ogni desolante materialità.

(Di Alessia Rovina, classicista, appassionata di teatro, 16/10/2020
account twitter: @rovina_alessia)

Vorrei sinceramente ringraziare la preziosissima Claudia, Nume di questo angolo virtuale di bellezza, che con le sue parole mi ha dato la possibilità di riaprire le ferite del mio cuore, che da mesi cercavo di ignorare, per tornare a parlare del significato per me personalissimo del deserto, e dei dubbi che esso pone. E della fede, che spesso inconsciamente genera. Grazie anche perché ha contribuito a farmi ricordare il luogo in cui ero esattamente due anni fa e anche un anno fa, rendendomi conto del privilegio della nostra Vita, che vale la pena di essere anche solo per un secondo.


22 novembre 2016

Heidegger nella Grecia sequestrata





Con Paolo Zignani, amico e collaboratore occasionale di questo blog, mi sono data nelle ultime settimane un compito interessante e per nulla semplice: rileggere il resoconto scritto da Martin Heidegger in occasione del suo primo viaggio in Grecia. Il filosofo, fin dal titolo, avvisa il lettore. Non addomesticherà il suo peregrinare nelle forme accondiscendenti e un po’ assonnate della consueta narrazione diaristica – men che meno assecondandone derive consumiste più che familiari a noi figli sballottati dalla globalizzazione – ma ci offrirà una permanenza (in tedesco Aufenthalt). Stilettata filologica non da poco, che c’impone il tempo della sosta, cioè apre la spazialità a una precisa dimensione cognitiva. Lo spazio, dunque, come incubatore di pensiero. In scia con quel che il filosofo teorizza negli Holzwege, sentieri come vie di conoscenza; che si perdano o meno, favorendo la nostra stessa attitudine all’incompiutezza, è del tutto secondario, anzi forse perfino più coerente del palesarsi di una meta.
Si tratta in questo caso di una memoria assai densa. Non inganni la brevità del testo; la Grecia e il fraseggio che Heidegger costruisce attorno ai suoi monumenti danno luogo a un’architettura complessa che implica, da parte del lettore, più di un ritorno. E mi riprometto, infatti, di dedicare un ulteriore intervento proprio ai contenuti di questo affascinante librino che, allinizio del millennio, ci interroga senza vedersi superato in alcuna sua proposta. 
Negli ultimi anni, ci siamo abituati a veder entrare la Grecia nel nostro orizzonte di europei in preda a crampi identitari, parlandone unicamente in funzione delle nostre crescenti isteresi. Pertanto, facendo violenza a quel che la Grecia ha significato sotto il profilo culturale e che tuttora significa. Anzi, la Grecia sembra inserirsi esattamente in queste crepe occidentali, non come immagine in grado di rassicurare, cosa che invece ci si aspetterebbe da una culla di civiltà, ma semmai contribuendo all’inquietudine. E di ciò siamo responsabili noi in prima persona.
Prendiamo l’ultimo incontro politico in terra ellenica. Il presidente americano, reduce dalla sconfitta della sua candidata alle elezioni, ha inteso rafforzare la sua immagine di paladino della democrazia, scattando una foto di circostanza sull’Acropoli. Su di lui incombeva la responsabilità di una disfatta in patria e lo spettro, mai esorcizzato, di un popolo messo a dura prova dall’austerità, proprio lì, ai piedi di quella millenaria bellezza monumentale. Stridente il messaggio che si è voluto lanciare, tanto più che al tavolo del giorno dopo, a Berlino, Tsipras era già uscito di scena, relegato nelle sue turbolenze egee. L’ho trovata una scelta sbagliatissima e diciamo pure offensiva. Rilanciare la democrazia significa, adesso soprattutto, portare Tsipras ad ogni tavolo. Mentre la Grecia continua a dividere e a mettere in rilievo tutte le nostre imbarazzanti contraddizioni.
Tra le tante riflessioni che Zignani mi ha inviato nel corso della stesura del suo articolo, vorrei condividere un passaggio in particolare, perché esemplificativo dell’orientamento di quanto ha scritto: «La Grecia è stata, per così dire, sequestrata. L’industria del sapere prende il posto dell’autenticità e l’inautenticità non perde occasione per esprimere la sua tipica “dittatura” (è la traduzione di Pietro Chiodi). Secondo me quei riferimenti all’essere sociale e ai suoi modi d’essere, e al mondo del lavoro (curiosamente ce ne sono) si fanno più significativi negli anni successivi. È un argomento forte. Heidegger cercava anche lui una terza via non capitalista né sovietica per un’ontologia che avesse anche un senso per la vita. Si può parlare di una qualche forma di “critica sociale” da parte di Heidegger? Per me sì. Non credo che per Heidegger possiamo solo raccontare: quel suo vitalismo, che detesta tanto la storiografia, la cultura fatta con le tradizioni culturali e i libri polverosi, vuol prendere possesso della vita autenticamente; l’ontologia intende stravolgere la vecchia metafisica».
Per quanto mi riguarda, ha colpito la mia attenzione il fatto che il filosofo tedesco parli della Grecia, tutta, come isola. In questo suo viaggio persegue una rappresentazione “isolana”. Ora diciamo che il territorio ellenico è in buona misura insulare ma non è comunque solo questo. E tuttavia il punto di vista del viaggiatore nordico si concentra su tale “metafisico” peregrinare isola per isola, ognuna con la propria grecità e stratificazione storica. Quasi che i singoli approdi siano chiamati a dare concreta visualizzazione all’avventura del pensiero in cerca del proprio centro.
Tra gli altri, il passaggio sull’asiatico è forse il più notevole. A quel punto della lettura lo snodo oriente-occidente staglia la Grecia nella sua perenne dimensione di ponte, inteso ancora una volta in senso conoscitivo.


(Introduzione di Claudia Ciardi)


Heidegger nella Grecia sequestrata
di Paolo Zignani

Heidegger aveva messo tra parentesi la Grecia reale, per sostituirla con la poesia di Hölderlin e con sofisticate interpretazioni dei filosofi ateniesi, e il contraccolpo sopravviene implacabile, per la necessità di un intervento personale, un’intrusione dell’ontico capace di causare uno dei cortocircuiti che la sua filosofia, per quanto anti-idealistica, sa sprigionare nell'urto con la realtà. Il filosofo ha sentito il bisogno di andare oltre, preso dalla speranza di un nuovo inizio, che la sua filosofia non poteva dare. Di qui la necessità di un impegno personale, ma privatamente, in viaggio con la moglie. C’è un’ansia nel pensiero di Heidegger, che non vuole fare della filosofia ma dedicarsi all’essere. Invece, di nuovo, incontra una dittatura. Il desiderio di emancipazione – insopprimibile - ha necessità di rinnovarsi, altrimenti prevarrà la furia autodistruttiva dell’umanità.
L'unica dittatura denunciata da Martin Heidegger è stata quella dell'inautenticità, che si può esercitare solo perché la questione dell'essere è stata accantonata, in uno scenario tormentato. Kant poneva, in una famosa pagina della Critica della ragion pura, fra Analitica e Dialettica trascendentale, l'esistenza di un'isola della verità, dove vigono le norme dell'intelletto puro, circondata dall'oceano tempestoso delle parvenze. La condizione umana sembra molto più complicata in “Essere e tempo”. L'estraniazione è il modo di essere del Si, che è la dimensione della vita quotidiana impersonale: espropriato da sé per la sua debolezza, l'uomo, quando sopporta d'essere autentico, si apre a un qui e a un con chi fare storia: lo attende però una difficile battaglia. Strappato dalle sue radici, perso tra le cose, strumentalizzato dalla tecnica, l'uomo si accorge di far parte di un mondo in cui non è altro che un oggetto, un mezzo, a causa dell'organizzazione economica, politica e sociale, in una dittatura impersonale, implicita, che distrae continuamente e impone discontinuità all'Esserci, autoaffermandosi spontaneamente senza bisogno di legittimazione e di motivazione. Heidegger descrive nei suoi tratti ontologici la disponibilità umana alla sottomissione inconsapevole e anonima, con la sottrazione della Cura. Permane la tendenza al mimetismo del Si inautentico privo di sé. L'analisi del dominio della tecnica, però, nella "Questione della tecnica" (1953) dimostra che l'estraniazione è ben più vistosa e accompagnata dalla consapevolezza dello sfruttamento della natura, esseri umani compresi. L'inautentico inoltre sostituisce l'autentico e viceversa, questo è l'evento che avviene in un ritmo di cadute e riappropriazioni imprevedibili: uno scambio, non tra due realtà diverse e nemmeno in una relazione di circolarità ermeneutica che passi per organizzazione della conoscenza, nascondendo in realtà conflittualità non s'appianano. E' forse l'autentico a descrivere questi processi, ma una simile meta-fenomenologia non viene a parola. Senza l'autenticità l'Esserci si smarrisce: l'autenticità si fonda però su un discutibile concetto di storicità. Tra l'individuo e la storia non c'è infatti una relazione così diretta e immediata, se non nella prospettiva difficilmente comunicabile dell'individuo e delle sue relazioni: le autenticità come possono "comunicare", nella storicità comune, se non mediante la storiografia? Heidegger segue invece un vitalismo antistoriografico. La storicità comune incontra così il limite di una storicità autentica ma privata e incomunicabile. L'Esserci è un essere storico, e tuttavia in quanto mortale progetto gettato, non può far altro che aprirsi alla scelta delle possibilità tramandate, senza che la storiografia debba per forza occuparsene: l'autentico può non far rumore e non lasciare alcuna traccia. L'inautenticità invece è molto più organizzata e aggressiva, è pubblica, di massa, priva di soggettività, lavora inconsapevolmente per l'industrializzazione del mondo, mentre l'autenticità, malgrado il carattere originario e imprescindibile dell'essere-assieme - entra in azione soltanto nello scenario della vita individuale e rende soltanto possibile l'essere assieme storico autentico. La dittatura dell'inautentico produce una storiografia, che riesce a sostituire agevolmente, commercialmente, la storicità autentica e la conoscenza autentica che l'accompagna e che non necessariamente diventa storiografia dominante. L'ontologia esistenziale è inoltre un ritmo che si ripete, con due fasi che si alternano con variabilità imprevedibile. Quando l'Esserci diventa se stesso si ritrova ad appartenere all'Essere e deve affrontare la propria storicità prendendo la "decisione anticipatrice". Il -ci viene annullato in questa autenticità. L'Esserci viene richiamato nella storia, ovvero nell'istante in cui si confronta con le possibilità che gli vengono tramandate. Inevitabilmente l'Esserci ricade nel -ci, dove dovrà disperdersi tra le cose fino a quando la chiamata della cura, un silenzio angoscioso, lo riporterà di nuovo al suo destino di essere storico. Con questo ritmo l'Esserci si sposta nelle e fra le dimensioni della temporalità deformandosi come il tempo stesso. Struttura precaria ma complessa che si riconfigura continuamente, l'Esserci si realizza nell'anonimato di massa e poi si appropria di sè, annullando però la vita quotidiana. L'Esserci passa dalla dittatura del Si anonimo alla "decisione" (il suo destino) che lo rende libero e autentico. La chiamata della cura lo modifica all'improvviso. E' un flusso di modalità temporali ed esistenziali che si intrecciano congiungendo futuro e passato e abbandonando l'idea metafisica di soggettività sostanziale e di temporalità lineare.
Allora perché visitare la Grecia, se è la storicità autentica a farci comprendere il linguaggio in cui abitiamo, il linguaggio dell'Aletheia? Se è silenziosa la chiamata della Cura, perché il silenzio diventa lingua greca? Se poi la poesia di Hölderlin disvela l'eredità dell'antica Grecia, perché partire fra i turisti? Quando Heidegger nel 1964 visita per la prima volta la Grecia, la trova per così dire sequestrata, interpretata, come sostituita con una copia, invasa da un esercito nemico. Heidegger è inevitabilmente critico, viste le premesse, verso il sistema economico-politico nel diario di viaggio che dedica alla moglie: "Una potenza estranea aveva preso possesso di quella terra con il sistema delle prenotazioni e dei viaggi organizzati". E' l'industria del turismo che s'impone e allontana da "ciò che è", rendendo "incapaci di pensare alla frattura che separa l'oggi dallo ieri e di riconoscere il destino che regna nello spazio di questa frattura". "La tecnica moderna e, con essa, l'industrializzazione del mondo attuatasi con l'ausilio della scienza, si apprestano, con il loro elemento inarrestabile [Unaufhaltsames] a dissolvere ogni possibilità di soggiorno [Aufenthalt]". Non resta alcun luogo nel mondo industrializzato, amministrato, dominato dalla pianificazione calcolante, non c'è possibilità di pensare l'elemento greco, addirittura ci si sente in ogni luogo a casa propria; ma in che modo? Con l'aiuto della tecnica, come chi scatta fotografie "rinunciando alla propria memoria per sostituirla con un prodotto della tecnica". L'uomo è sostituito, messo da parte, la sua esperienza e la sua storia non servono più, soprattutto non è utile la sua decisione, la sua esistenza personale, caratterizzata e vitale. Oggi non si può soggiornare, dimorare, abitare, l'Esserci è nel mondo ma senza esperienza reale. Non si può nemmeno evitare di confrontarsi con la violenza dell'essenza della tecnica. Torna il confronto anche con l'elemento asiatico (pag. 38 di "Soggiorni. Viaggio in Grecia", ed. Guanda), ovvero probabilmente l'Unione sovietica e il rischio di una guerra atomica che distrugga l'umanità. Inevitabile quindi che la “chiamata” della Cura assuma un’altra forma.
L'industrializzazione, oggi, dopo Heidegger, è ancora più invasiva: ha conquistato ogni attività, l'elaborazione e diffusione del sapere, ha trasformato l'economia e ogni esperienza del mondo, occupato il tempo libero, colonizzato la socialità, trasformandola con dei programmi informatici. Sembra ad Heidegger che occuparsi della Grecia antica sia qualcosa di irreale. L'industrializzazione oggi appare più differenziata e caotica, capace di generare o sostenere nuove singolarità, meno trionfante eppure ancor meno contrastata. Heidegger non vede la crisi dell'industrializzazione stessa, una crisi continua, vede l'uomo "misero e confuso", in balia di un "progresso senza futuro". L'industrializzazione si rivolge a un consumatore che ha le stesse caratteristiche dell'inautenticità. L'inautenticità infatti fa sì che l'individuo sia sradicato, privo di un suo tempo e luogo, attivo anonimamente, confuso con gli altri, solo in una dimensione universale, in cui ogni tempo e luogo si equivalgono: è il fenomeno dello sradicamento, una delle categorie "abusive", non dichiarate, non fenomenologiche ma storico-culturali, che ricorrono clandestinamente in "Essere e tempo". 
Il § 27: «Nell'utilizzazione di pubblici mezzi di trasporto, nell'impiego di mezzi d'informazione [giornali n.d.r.] ognuno è altro fra gli altri. Questo esser- 'l'un con l'altro' omologa completamente il proprio esserci al modo d'essere "degli altri", e fa in modo che gli altri scompaiano ancora più nella loro diversità e nella loro distinzione. In questa non vistosità e non-constatabilità il Si dispiega la sua autentica dittatura» (pag. 185 trad. Marini, Oscar Mondadori) .
È questa la dittatura segnalata da Heidegger, che estrania e sradica l'Esserci, anche se l'inautenticità è tutt'altro che un fenomeno negativo: è la modalità forse prevalente ma provvisoria, destinata a uno scambio ritmico e imprevedibile con l'autenticità, possibile solo nell'intreccio di modalità temporali differenti e simultanee. La "chiamata della Cura" però è silenziosa. L'autenticità può interrompere il flusso delle chiacchiere in solo modo, con il silenzio. L'inautentico non ha territorio ed è sradicato, essenzialmente, dalla storia, perché la temporalità autentica gli rimane estranea. L'autentico invece ripete la possibilità ereditata nella lotta comune (paragrafi 72-75): la storicità autentica svela l'essere nel mondo autentico. Solo l'autentico ha un rapporto con territorio. È la temporalità autentica a disvelare l'ambiente in cui si trova l'Esserci. La storicità semmai si attua con questa lotta alla tecnica, nel tentativo che potrebbe ripartire dall'elemento greco, ammesso che si possa manifestare in modo genuino. L'inautentico mette l'uomo in balia dell'industria, del Gestell, della “imposizione”: Heidegger non vuole istituire il collegamento, che violerebbe la purezza della descrizione fenomenologica delle strutture esistenziali. Di fatto però, nel viaggio in Grecia, la curiosità dei turisti rende ancora più invasiva l'industria del turismo e l'esperienza della percezione dei monumenti di Atene diventa impossibile. L'inautenticità si rivela allineata all'industrializzazione del mondo. L'inautenticità consuma prodotti industriali, vive come deve vivere un consumatore, innanzitutto di informazioni. L'industria consente a ciascuno di produrre copie dell'ente alla mano, assecondando così l'avidità di possesso del Si inautentico, che vuol aver già visto e saputo tutto, in modo che nulla resti nascosto e misterioso. Non essendo nessuno, desoggettivato, è pervaso da un desiderio incontrollato e pantagruelico. È un desiderio di dominio: l'individuo desidera sentirsi al sicuro, avendo il controllo del suo mondo, poiché conosce ormai tutto. Il Si inautentico vuole impadronirsi di un mondo ma vive in una finzione e l'industria gliene fornisce i mezzi tecnici. Quel che conta però è che ciò che è visto è posseduto, lo si può quindi riprodurre: la tecnica è già attiva nel Si. L'industria così si afferma grazie a una volontà ben precisa di strumentalizzare le tendenze dell'inautentico: l'autenticità invece non incontra il mercato. E l'economia appassiona l'inautentico.
Soggiorni. Viaggio in Grecia. A pag. 49: «Ciò che oggi chiamiamo mondo è lo sterminato groviglio delle apparecchiature tecniche di informazione, che si è imposto alla physis intatta prendendone totalmente possesso, ed è ormai possibile conoscere la natura e intervenire sul suo funzionamento solo secondo un calcolo».
Heidegger prende le mosse dal vitalismo e dalla necessità di un'esperienza e di una decisione personali, non dal bisogno di una documentazione storiografica accurata. Questa eccezionalità dell'individuo si trova però a confronto con sistemi sociali ed economici organizzati per rivolgersi a un pubblico di massa. Il mondo è espropriato da una potenza anonima che funziona automaticamente, proprio come l'Esserci perde se stesso nell'inautenticità, che lo consegna a un gioco infinito e tuttavia insensato di rimandi da un ente intramondano all'altro. Questa pianificazione calcolante è tanto umana che disumana: l'Esserci si intrappola nel sistema razionale che ha creato con la forza della ragione. Il mondo vuoto di senso, abbandonato dagli dèi, dove i templi greci non riescono a esprimere l'elemento greco nella compagine delle percezioni, è proprio il mondo creato dagli uomini. L'umanità si auto-aliena, si auto-espropria, inconsapevolmente, seguendo semplicemente il proprio modo di vivere quotidianamente, che la allontana dall'Essere, dalla physis, dalla Grecia antica. Nulla è accaduto per colpa dolosa né per caso: Heidegger individua un'assunzione di responsabilità, non accusa un dominio ostile o una moderna forza di tirannia. La forza di questa desolazione è l'anonimato, il protagonismo di una folla coinvolta dalle operazioni degli apparati industriali che hanno trasformato il mondo in un meccanismo che a nessuno appartiene se non alla razionalità. Ma davvero non c'è un colpevole? Non c'è sfruttamento e tirannia? Sfruttamento e tirannia, classi dominanti, fanno parte della ratio dispiegata. Così il mondo è sparito: l'Essere è assente, quindi anche l'uomo perde senso, dominato dal suo razionalismo. L'inautenticità, modalità esistenziale, rende insuperabile l'industrializzazione con la quale si declina spontaneamente.


(Di Paolo Zignani)



Edizione consigliata:

Martin Heidegger,
Soggiorni. Viaggio in Grecia,
Guanda editore, 2012


Related links:






Powered By Blogger

Claudia Ciardi autrice (LinkedIn)

Claudia Ciardi autrice (Tumblr)

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...