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18 dicembre 2020

In osservanza degli augures


Nell’italiano letterario, soprattutto d’uso poetico, augure è un aggettivo che significa “di buon auspicio”. In un tempo di profonda comunanza spirituale con i fenomeni della natura, di fatale immedesimazione nei miti di uomini e dèi, figure favolose e prodigi destinati a scritture oracolari o alle sante prime codificazioni del diritto pubblico e privato quali le XII tavole, incuneate non a caso nell’epigrafe dei foscoliani Sepolcri [Deorum Manium iura sancta sunto], hanno disegnato i tratti fondanti dell’antica Roma. Sacri recinti, alberi benedetti, boschi abitati dalla divinità, inumazione di pietre o manufatti toccati dal fulmine, fonti protette da solitarie ninfe, ombre e altre ineffabili presenze negli horti custoditi dai Lari, vegliati dalle nuvole, dal vento, dal fluire delle cose in cui accogliere segni augurali. Fu questo un mondo di spiriti e poesia e creature vicine all’essenza dei cicli che regolano la nostra vita terrena, menti rivelatrici di quanto la modernità ci avrebbe tolto, «il riverbero di una luce votiva» per dirla con Heidegger, cui l’arido della tecnica, la freddezza del nuovo mondo non avrebbero lasciato scampo.

Nei pressi del comizio romano, il primo foro, si narra vi fosse un luogo recintato per il culto, ove sorgeva un fico anch’esso consacrato, pianta ritenuta in concordia coi fulmini. Qui venne eretta la statua di Atto Navio, l’indovino ammantato di un’aura leggendaria nel quale alcuni vollero vedere la lotta fra l’antica comunità teocratica latina e la nuova monarchia dei Tarquinii (Livio, I, 36; Dionisio, III, 71 seg.; [Aurelio Vittore], De viris illustribus, 6). Sacro e profano, il mutamento negli assetti di un organismo comunitario che passa dolorosamente per la profanazione dell’antico. Ma pure in tale profanazione i resti sono ancora palpitanti e sprigionano la forza che possedettero nella loro integrità. Chi li avvicina, sente e presente la materia che li ha animati, cosicché sfiorandoli la loro energia trasmigra nei corpi assetati che sono ancora in cerca di quell’autentico, del senso che non è andato perduto ma solo giace in attesa. E noi siamo ora più che mai su quella soglia, frammenti in bilico che potrebbero accendersi di una sorte presaga, ritrovandoci in un dopo finalmente liberato, ricomposto, autentico.


Seguendo la mappa dell’antico, Alessia Rovina ci conduce attraverso la liminalità dell’auspicio, riflettendo sulla mutazione necessaria, sulla capacità di cogliere in questa metamorfosi gli indizi che salvano, per una consapevolezza della rotta da tenere nelle prove che abbiamo di fronte.


(Di Claudia Ciardi)


I miei auguri, i miei auspici

Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

 

Auguri, auspici: due facce della stessa medaglia. Altre due roccaforti di uso quotidiano in cui i nostri Latini sono riusciti a stabilirsi, osservando da vicino quanto della loro sacralità sia rimasta in noi. Gli augùri, per noi, sono un sostegno fondamentale alla ritualità che distingue i grandi eventi: il Natale, la Pasqua, i compleanni, le tappe familiari e lavorative della vita di ognuno. D’altro canto, gli augures latini altro non erano che i grandi sacerdoti preposti all’interpretazione dell’augurium: il segno con cui gli dèi davano la possibilità di conoscere il loro responso in merito agli interrogativi umani, quali scelte, decisioni, in fin dei conti quale destino spettasse a ciascuno. Un destino che ognuno di noi immagina e desidera il più fulgido possibile, e a buon diritto: augurium è infatti stretto parente del verbo augeo, il verbo del titolo imperiale di Augustus, il cui significato precipuo è «far crescere», «far diventare grande», dunque «far riuscire». Questo continuo compimento umano verso una grandezza interiore, e dunque verso la piena maturità, poteva essere interpretato dai sacerdoti mediante l’auspicium: la visione attenta – spectare – del volo degli uccelli – aves – oppure mediante lo studio delle interiora animali; non ci sono altre vie al proprio destino di grandezza: la percezione attenta dell’Alto, la percezione attenta del Dentro, dunque del Basso. In questo particolare Natale, Alto e Basso sembrano pericolosamente disfarsi, e confondersi in un indistinto e tetro garbuglio. Una festività tanto fondamentale, di nascita, è più che mai annodata con il termine ultimo della Vita, e parrebbe inutile celebrare questa ricorrenza. Io non penso che sia così. Credo che l’umano dentro di sé porti una bellezza tanto grande e complessa, e che meriti di poter scegliere consapevolmente ogni giorno una via degna di tale tesoro, con i mezzi che ciascuno di noi dispone, e andando anzi a colmare, a «far crescere» la bellezza di chi, in sé e nel mondo, non la vede. Vorrei concludere questa nostra riflessione con un brano estremamente importante di Italo Calvino, autore magnifico che merita una rilettura continua nel corso della nostra vita, nella speranza che ad ognuno possa dare un fascio di luce dorata ed abbacinante, da riconsiderare ogni giorno.

«Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo: - L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Italo Calvino, Le città invisibili, 1972

A tutti noi il mio augurio: di far crescere ciò che non è inferno, in noi e nel mondo, ogni giorno!

(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro, novembre 2020
account twitter: @rovina_alessia)


18 maggio 2018

Resistere, andare (L'Aquila-Paraloup)



Ovunque, quando mi ripetono i nomi delle montagne, per me è come una poesia letta ad alta voce. La decisione di salire lassù l’ho presa d’istinto non appena mi capitò di tornare in Abruzzo. Un po’ di presentazioni, qualche libro da distribuire, un bel viaggio dagli Appennini alla costa adriatica. Una via che potrei dire familiare, visto che dai miei vent’anni mi ha offerto con generosità tutta la sua poesia. L’Italia del centro-sud con la sua ruvidezza gentile, a misura d’uomo, i paesi guardiani arroccati sui monti nel loro arcaismo senza tempo, non ha mai smesso di attrarmi. Queste dorsali rugose, in apparenza severe eppure pronte a sguardi complici, sono capaci d’incanto come poche altre cose.
Era maggio, e dopo una mattinata di pioggia a tratti anche intensa arrivai a Sulmona, benedetta da un sole abbagliante. La bianca superficie dilavata di San Francesco, la linea metafisica dell’acquedotto romano e più sopra le montagne, dove per tutto il tempo della mia permanenza nuvole e vento si sono alternati sulle cime, gettando ombre tra misteriosi spiragli. Entrare in città, dopo una lunga passeggiata dalla stazione giù per il viale alberato, e posare gli occhi sui fianchi dell’Appennino lambiti dal tramonto. Sontuosamente scolpito in una primavera selvatica, un monumento incoronato dai campi e dalle poche tracce di neve non ancora dissolte in quota. Quelle striature vive, pulsanti come il dorso di un animale sconosciuto. E le voci nelle case mentre si preparava la cena, quasi risalite da un altro mondo, sorprese fra certi muri in rovina o in qualche sottoscala cadente, ma per il resto silenzio. Vento e silenzio ovunque a scandire un’antica lentezza. C’era un corteo di sbandieratori adolescenti quando sono arrivata. Il ritmo dei loro tamburi mi ha fatto da guida nei vicoli. A suo modo fu anche quello un segnale. Non so se sia stata una mia particolare disposizione d’animo in quei giorni ma ogni cosa, un incontro per strada, i miei vicini di tavolo a pranzo, il saluto di qualcuno avevano i toni di un insolito presagio. Infine, girando per consegnare i miei libri, mi son trovata davanti la porta della biblioteca comunale, chiusa: problemi di stabilità. Mi ricordai che qualcosa di simile era accaduto anche dalle mie parti, dopo il terremoto dell’Emilia. Una scossa arrivata di notte, il gelo nel corpo al pensiero che là vicino, senza sapere dove di preciso, ma vicino, era accaduto un fatto grave. Il sonno che alla fine ti riprende, per poi svegliarti di soprassalto in cerca di notizie. Anche da me chiusero la biblioteca, un edificio troppo antico cui quella scossa, nata a chilometri nelle viscere della terra, aveva inferto il colpo di grazia. Fa impressione quando a chiudere è un luogo che sta al centro della vita di una comunità. Ricordo pure come questa esperienza abbia maturato in me la consapevolezza di una fragilità dalla quale troppo spesso ci sentiamo svincolati.
Il terremoto, ferita aperta, continuava in Abruzzo a incombere sul vivere quotidiano. Davanti a quel portone sprangato, nella piazza deserta, ho sentito più forte il richiamo verso le montagne, per quel cuore di pietra che tanta distruzione ha dato ma pur sempre pulsante, origine di storia, fine e inizio, insolvibile legame.
Dunque, salii all’Aquila. A piedi, intendo, dopo essermi messa su un treno della mattina che mi ha portata sotto l’acropoli. Solo così, zaino in spalla, pochi libri con l’intento di lasciarli a qualcuno, un piccolo gesto per scambiare un po’ di solidarietà, esserci insomma. Perché solo così si tocca con mano ciò che è stato, il propagarsi di quell’attimo in un assordante allora e ora, ossessione del presente costretto a guardare indietro. Solo così, costeggiando la strada a passo lento, si incrocia lo sguardo coi memoriali, si scendono scale invase dai rampicanti, in punta di piedi, perlustrando vecchi giardini dove sorgono mute case. E vicino a una chiesa, sorretta da impalcature e puntelli, una cancellata sembrava indicare un biglietto, infilato lì di recente: un mese prima c’era stato l’anniversario e questo l’omaggio silenzioso dei vivi ai loro morti. Leggendo, guardando le fotografie appese ai muri, quasi col timore, indugiandovi troppo, di mancare di rispetto a qualcuno, si sente nella pelle cosa sia una perdita, il non esserci di chi una volta è stato lì e lì ha condiviso uno spazio e un tempo; poi all’improvviso, al suo posto, l’assenza.
Quando si posano i piedi in un paesaggio così devastato, che suscita ancor più sconcerto perché era città, con la sua affollata esistenza comunitaria, la sua sorte in bilico tra poesia urbana, ombre della storia e ansie moderne, questa sintesi a volte dissonante e allo stesso tempo necessaria per quanti fra quei tetti stanno, scomparsa infine da un momento all’altro, ecco quando capita di entrarci significa molto più che passare semplicemente in un luogo. È fissare uno specchio che rimanda a una consuetudine spezzata e a coloro che non vi prenderanno parte mai più. Una consapevolezza in lotta con un’accettazione violenta che implica violento dolore. Uno specchio su cui non si cammina in superficie ma dove ad ogni passo si scivola giù, corpo a corpo col vuoto di una rovina. E arginare fisicamente il nonsenso di questa devastazione significa scendere a patti con una forma di annientamento. Ma si può patteggiare con una cosa che ti sovrasta ed eccede di così tanto la misura dell’umano sopportabile? 
Sono salita all’Aquila in un giorno di nuvole e sole. Le braccia meccaniche delle gru si stendevano sopra le strade; masticato polvere, posato l’orecchio sul cuore dei cantieri. Otto anni dopo il terremoto, io che in Abruzzo c’ero anche in quei giorni. Sono discesa all’Aquila, forse è più giusto dire così, e ho pensato che son quasi passati dieci anni e sembra ieri. Camminato sullo specchio che mi ha fatto scendere dentro me stessa, ascesa e caduta, e sentire tutto daccapo, le pulsazioni della città fin nelle narici, gli umori, il calore dissolto, però sì, sotto quelle bende aver anche toccato, di nuovo, il risveglio di una vita.
 
Resistere, andare. Non so dire per quali traiettorie del destino qualche mese dopo mi son trovata ad attraversare le valli di Cuneo, i luoghi di «un paese ci vuole», l’epica struggente di Cesare Pavese che quei borghi ha cantato. L’invito a incontrare la gente della montagna, quella che lì ha vissuto, con le sue storie di resistenza e di attaccamento alle proprie radici, ruvide braccia ben piantate nella terra, assodate da stagioni tenaci, da un’idea schietta di appartenenza. Così sono andata, ad ascoltare non solo la storia di Paraloup ma anche di tutti gli altri che in quei giorni hanno disegnato la mappa, dai molti obliata, di una marginalità paesana, dalle Alpi agli Appennini. Lungo i tracciati di questa geografia dell’abbandono c’è il lavoro minuzioso di chi censisce senza pause il proprio territorio, di chi si fa narratore di genti e spazi dimenticati, di chi annota, scheda, fotografa ogni santo giorno perché sa che quegli atlanti sono un bene comune, uno strumento immersivo fra memoria e ricerca, una catalogazione che si annuncia paesaggio sentimentale.
La sera che ci siamo riuniti, in cerchio, come usava nelle vecchie cucine dei contadini davanti al fuoco, io, sì, ho seguito i discorsi di ognuno, me li ricordo anche abbastanza bene. Ma credo che una sola fosse la cosa su cui il resto faceva perno. Le mani della raccoglitrice di castagne seduta accanto a me. Mani forti e belle, con un filo di terra che correva tra unghie e falangi. Mi ricordava un compagno di classe che aveva la terra a Lari, nome gentile per frutteti e colline e antenati.
E poi ci son salita di nuovo a Paraloup, a piedi, zaino in spalla, un paio di bastoncini per non scivolare lungo il sentiero. Perché solo così puoi vedere quello che è un bosco d’inverno, un tempio consacrato ai suoi silenzi, strana vereconda creatura mentre compie la sua metamorfosi, come in attesa sul bordo di un sogno. Solo così attribuisci un senso ai tuoi passi perché hai il tempo di misurarli, di studiare il loro cadenzato oscillare sulla neve, perché è soltanto quando cammini lì che ti parlano con quella voce, risoluta e cedevole insieme. Lo spazio di quel sentiero è una strada che apri in te stesso, fuori e dentro il mondo che ti circonda, uno sconfinamento cui ti presti volentieri non tanto per la promessa di evasione che ti fa, quanto per la scoperta di ciò che non sospettavi esistesse di te intorno a te. Ogni orma non la imprimi solo nella neve, la disegni anche nella tua mente, ce la scrivi con un alfabeto solo tuo. Salire, discendere, salire di nuovo. Resistere, andare. È così che va.

(Di Claudia Ciardi)



 Paraloup, ottobre 2017



L'Aquila, maggio 2017



Sulmona, maggio 2017

Foto di Claudia Ciardi ©


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