25 gennaio 2014

Meeting Ost: «Most»



Parallelamente alla crisi economica che da diversi anni affligge gli stati membri dell’Europa occidentale, è cresciuto il dibattito attorno ai paesi che occupano la metà orientale del vecchio continente. Tra aspettative e demonizzazioni l’intellighenzia figlia di un occidentalismo oltranzista, in preda ormai alla stanchezza senile, continua a guardare a est con non poco scetticismo, mostrando spesso nelle proprie analisi scarsa obiettività. L’eredità di atteggiamenti coltivati in piena guerra fredda è dura a morire e continua a infiltrare l’evolversi dei rapporti tra europei occidentali e orientali.
Non è infrequente sentir dire che il recente allargamento dell’Unione sarebbe una delle cause della crisi e del suo acuirsi. Dirimere una tale questione implicherebbe incrociare diversi dati e perdersi in parecchi meandri statistici. Sia sufficiente dire che le letture sbilanciate verso una sola ‘verità’ in genere fanno rima con parzialità, e chi punta preventivamente il dito contro qualcuno, di solito ha più di una cosa da farsi perdonare. Ricordiamo, per chiarezza storica, che a Atene nel 2003, dieci paesi dell’Europa centrale, orientale e mediterranea firmavano il trattato di adesione alla UE, entrato in vigore il 1° maggio del 2004 con le quindici ratifiche dei vecchi stati membri. Si realizzava così quello che è stato ribattezzato come “allargamento big bang”, con il passaggio dei membri UE da quindici a venticinque, per poi divenire ventisette nel 2007 (con l’ingresso di Romania e Bulgaria). Di fatto, a partire dal 2004, l’Unione non è più soltanto tra stati occidentali. Saper guardare a questa nuova realtà implica uscire dalla sindrome del “blocco unico”, visione livellante e deliberatamente preclusa a qualsiasi approfondimento. Entità unica l’Europa orientale lo è stata, pagando peraltro, è giusto non dimenticarlo, un prezzo altissimo a livello culturale e identitario. Ciò che ha reso temporaneamente possibile tale assimilazione è una sovrastruttura politica, perciò quando parliamo di Europa dell’est si dà propriamente a tale espressione un significato politico e non geografico. Questa Europa infatti non è nata né culturalmente né etnicamente omogenea. Al suo interno vivono comunità di orientamento religioso differente: cattolico, greco-cattolico, russo-ortodosso, romeno-ortodosso, luterano, battista, ebraico e musulmano. Abitano in città cosmopolite o comunità rurali, appartengono a diverse aree linguistiche: slave, romanze, ugro-finniche, baltiche e germaniche. Si può parlare di una regione orientale, non senza periodi di insofferenza e turbolenze all’indirizzo di Mosca, in un periodo storico preciso, che si colloca tra il 1945 e il 1989. E anche all’interno di questa forzata koiné bisogna distinguere tra chi faceva parte dell’Unione Sovietica già dal 1917-’18 e chi è entrato nel blocco dopo la seconda guerra mondiale. Se poi ci si spinge ancora più indietro, alla dominazione asburgica e all’influsso veneziano, ad esempio, si scoprono ulteriori incroci e ci si imbatte in altre realtà peculiari e non meno complesse. La sensazione rothiana di «perdere una patria dopo l’altra» – dapprima la sua Galizia si dissolverà insieme ai fasti viennesi con lo scoppio della Grande Guerra, poi l’annessione dell’Austria da parte della Germania nel 1938, aprirà una falla irreparabile nella sopravvivenza di questo ‘mondo di mezzo’ – testimonia la labilità in cui è immerso da sempre il variegato cosmo orientale, inevitabilmente fascinoso quanto sfuggente agli occhi di chi lo attraversa.  
Dunque, come differenti sono le storie e gli apporti culturali dei paesi dell’est (una cosa sono le repubbliche baltiche, un’altra i Balcani, altra ancora Polonia, Ucraina, Romania, Ungheria), come differente è stato il loro complicato decorso post sovietico, altrettanto versatile, comprensivo e lungimirante dovrebbe essere il dialogo che i membri fondatori dell’Unione europea hanno interesse a sostenere con una realtà tanto frastagliata.
La tendenza che va per la maggiore, anche perché per proporzione inversa comporta uno sforzo minore a livello di studio e ricerca sull’altro, è invece quella della riduzione della complessità fino alla banalizzazione del passato storico. Non c’è da stupirsi dunque, se la dialettica ovest-est conosce periodi di allontanamento e battute di arresto. Il pregiudizio occupa un posto ancora rilevante nel dibattito, e il vederne affiorare per intero l’apporto negativo, quando maggiori sono le difficoltà per tutti i membri comunitari, invita a fare urgentemente autocritica e a svecchiare visioni politiche molestamente incardinate a una dottrina occidentalista ormai in affanno.
L’incertezza che costantemente paralizza l'azione, il rigore astratto dei dettati protocollari di Bruxelles, il calendario delle regalie da elargire non prima di aver dato prova di adesione incondizionata alle teologie della BCE, se tirati troppo per le lunghe e senza che si giunga a un maggior coinvolgimento delle parti, come in tutti i progetti, quindi anche in quello unitario, rischiano di produrre disaffezione e logoramento.
Di tutto questo ci parla con competenza e passione «Most», la rivista quadrimestrale prodotta dalla redazione di East Journal, sito di approfondimento storico e analisi politica dedicato a eventi rilevanti di Europa centrale, orientale, Russia, Vicino Oriente e Asia. Si tratta di un osservatorio quanto mai prezioso, che mi sento di consigliare a chi desidera documentarsi e tenersi aggiornato su questa parte di mondo, perché proprio qui sono in atto importanti redistribuzioni di potere non prive di conseguenze per il futuro dell’Europa.
Gli autori insistono a ragione su un concetto che, in questo momento di bonaccia e disorientamento nelle dinamiche europeiste, è bene non stancarsi di divulgare: «Il processo di allargamento è ancora in corso e i Balcani e la Turchia sono oggi le sfide che l’Unione si trova davanti. Nella storia degli ultimi sessant’anni di integrazione europea, allargamento e approfondimento dell’Unione sono sempre andati di pari passo. L’UE assomiglia ad una bicicletta, che funziona solo quando le due ruote, allargamento ed approfondimento, procedono insieme. Se l’allargamento dovesse veramente essere messo in pausa, come paventato da alcuni, il rischio è che anche l’integrazione si arresti».
Un’affermazione che proprio nell’Ucraina degli ultimi due mesi vede un banco di prova molto delicato. La protesta pro-Europa si sta allargando anche alla parte russofona della popolazione. Se in questa circostanza Bruxelles mostrasse un po’ più di coraggio, la Russia finirebbe per venire a più miti consigli. Una Ucraina europea farebbe cadere le minacce russe: davvero Putin insisterebbe sulla chiusura dei rubinetti del gas? Andrebbe avanti su una posizione che implicherebbe la perdita degli entroiti derivanti dalla vendita degli idrocarburi ai paesi europei? Improbabile. Si tratta più che altro di una guerra dei nervi. L’Europa teme una escalation delle ritorsioni e allora l’unica cosa di cui è capace, mettendosi nella scia di Washington, è agitare lo spauracchio delle sanzioni, che danneggerebbero inevitabilmente la popolazione, già provata da un quadro economico difficile. I tentennamenti europei nei confronti dell’Ucraina hanno ricadute immediate sulla gente che adesso è in piazza ma anche sulla tenuta e coerenza del processo di integrazione. La giornalista Julija Mostovaja ha dato voce alla drammaticità di questo stallo, riassumendolo qualche settimana fa su «Zerkalo Nedeli» con queste parole: «Un tempo l’Ucraina era considerata il ponte tra la Russia e l’Europa. Lo è ancora oggi, ma in questa fase i suoi estremi geografici stanno affondando in un mare di soldi russi. E in questo mare si trova anche Evromajdan ["Piazza europea", il nome con cui in Ucraina si indica la mobilitazione filoeuropea]. Mosca la odia, Washington è nervosa, Bruxelles la ama di un amore platonico».
Il laboratorio di «Most» contribuisce alla costruzione di un’alternativa culturale e politica. Attraverso la ricognizione di dati storici, alternati al racconto dell’ampio spettro dell’attualità, invita il lettore a esercitare tutto il proprio senso critico, perché essere attori di quel che sta accadendo, avrà una profonda rilevanza nel dialogo tra future generazioni.

(Di Claudia Ciardi)


Alcuni tra gli argomenti di maggior rilievo su «Most» #6:
  • L’avventurosa e difficile migrazione dei Trentini in Bosnia
  • La questione dei Rom in Ungheria: tra razzismo e degrado sociale
  • L’allargamento dell’Europa: il problematico dialogo con la Turchia, la costellazione jugoslava, le aspettative europee del popolo ucraino
Ulteriori informazioni sul sito di East Journal 

In questo blog:
Oriente-Occidente
oriente - come ‛ occidente ' (v.), o. per lo più è usato in senso generico, a indicare la parte dell'orizzonte dove sorge il sole, il balco d'orïente dell'Aurora (Pg IX 2), la plaga irraggiata e fatta ridente da Venere mattutina (I 20, XXVII 94), la parte del cielo ove, poco prima dell'alba, i geomanti (v.) vedono apparire delle stelle nelle quali possono scorgere la figura della loro Fortuna Maggiore (XIX 5).
Assume un significato metaforico e simbolico quando è designato come luogo di nascita di s. Francesco in sostituzione di Assisi (Ascesi, Pd XI 54). Un altro punto interessante in tal senso è quello in cui un'anima della valletta dei principi intona l'inno della sera ficcando li occhi verso l'oriente (Pg VIII 11).
In proposito il Buti commenta: «nome de' fare l'omo quando adora Iddio, che si de' volgere all'oriente: e però tutte le chiese antiche ànno volto li altari a l'oriente; ma ora, quando non si può commodamente fare, non v'è cura, imperò che Iddio è in ogni luogo».

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