6 ottobre 2016

Sosta d'autunno



La casa di uno scultore del legno a Moena


Per questi trentacinque anni, dedicato a tutti i miei lettori.


Di equivoci nella vita ne capitano molti, errori se ne fanno anche di più. Ma soste poche. Quelle rare tregue in cui il mondo ci dice qualcosa di sé sono sempre troppo rapide e stentate. E quando vengono non le riconosciamo, tanto siamo abituati a non dar peso a quel che ci passa per le mani senza avvertimento, chiedendo in cambio solo qualche attimo di abbandono, un gesto di riconciliazione al quale non badiamo quasi mai. Dipende da noi. Non aspettarsi nulla è forse meglio.
Ultimamente quando passeggio mi succede di fissare lo sguardo a una lanterna, un’opaca corolla che veglia il piano nobile di una villa tutta dipinta di bianco. Se ne sta timida e quasi corrucciata nell’attesa che l’ultimo sole di novembre le cada sul viso; e in quell’istante che precede la sera può finalmente sbocciare. L’autunno culla le cose come un’altalena, a ogni slancio le vesti si gonfiano sopra i ricordi, i sandali adescano l’infanzia. Nel giro di poche ore si annida un trapasso che è uno scolorarsi di tinte umorali di anni, dove la memoria si fa strada in ritardo. Il bambino è preso al capestro come una farfalla nella rete, la luce spalanca il cancello del giardino, un ditale stregato filtra dai muri di confine nel cartoccio delle ombre. E la lanterna aspetta di sapere, incerta se affidarsi all’ultimo caldo che il sole le offre o alle nubi dove la burrasca ha radunato le sue messaggere. Naviga nei rosoni orientali del cielo, con la fronte corrugata dietro scalmi di vetro e si lascia abbindolare. Tra poco verrà il buio, il lampo investirà le rotte dei navigli. Un viandante potrebbe portarla con sé, appesa al suo mantello e a una chitarra scortecciata, mentre in una piazza qualcuno si soffermerà su quelle risvolte lise. Però lei forse non vuole. Somiglia a certe donne che dentro al mondo ci si sono solo immaginate, e non si sa se cambieranno idea. 
Davanti al morire del giorno, gli orti sperano ancora che un inizio estate faccia di nuovo capolino. Resta fedele alla sua parete la lanterna, eppure si sente trascinata. Perde il controllo, ora si atteggia a meridiana confusa. Forse si strugge per un porto conosciuto dai versi di un poeta. Orme sulla prima neve, così pare recitasse una canzone, morbide chiazze nel mare della notte sui moli desolati di una città spazzata dal vento. Ballate di marinai, cartoline d’innamorati che mai più si vedranno. L’ago del sole cadente cuce gli orli alle gonne, lunghissime sono ora le ombre, vulnerabili e lente come una fine. Siedono gli amanti nei parchi, ogni cosa è fuoco e come fuoco si alza e muore. Le giovani camminano nel rosso del tramonto, hanno sui visi una smorfia di piacere. Tra non molto chiuderanno nel fazzoletto rosso la loro adolescenza, un pane lasciato a lievitare.
Un vagabondo disteso sulla sua sacca incorniciato dal solito angolo, idolo tinto di malta, suonando vuol dare una benedizione. Il suo corpo riflette ogni giorno l’inizio e il coricarsi del tempo, e l’unisono del suo ripetersi in stagioni, tutto lo sfiora senza mai assolverlo. A migliaia i cantastorie si sono addormentati sul dorso della terra, dondolante schiena di cammello che attraversa la vita, e molto fu scritto nei loro spartiti. Ovunque hanno sostato, saggiando il carattere degli uomini. Se uno moriva in una bettola o in mezzo a un campo, un altro veniva a dargli sepoltura e un altro ancora ne faceva il racconto. Così va la gloria degli ultimi e tali sono le loro gesta. Di mano in mano passa la fiaccola della loro arte, come una corona in una dinastia di re. Venivano, non è molto, sulle piazze coi panni stracciati a prendersi l’applauso e lo scherno. Ogni anno l’autunno versava le foglie sul loro spettacolo. Ma ora se ne vedono sempre meno. Qualcuno ha donato i suoi poemi, magari pensando servissero a consolare altri. Sia lecito nella poesia di novembre vedere anche l’opera loro, e quella di caldarrostai, ambulanti e artigiani e giocolieri improvvisati, maestose figure che orgogliosamente voltano le spalle ai rintocchi della fortuna o forse più di tutti lafferrano. Chi da piccolo ha tenuto in tasca le reliquie di simili santi, chi avrà conservato per sé questi lari graziosi, non smarrirà l’incanto che gli hanno gettato addosso. Ognuno si sente toccato dal ricordo, poveri resti d’uomini che agli uomini insegnavano altre vie e loro, pur rinunciandovi, erano felici di conoscerle. Questa e altre eresie s’ingolfano sui visi scarniti del fogliame rimasto in bilico sui rami. Arrossiscono i muri reggendo quei pudichi fantasmi; spoglie d’alberi che nessuno verrà a visitare, queste inutili ossa che sono state. Ma se ne ricorda l’odore e il brusio il bambino incerto che le calpestava, mosso ai primi giochi, vi affondava le scarpe, e quello spezzarsi di ali lo stringeva al mondo senza che lui lo sapesse. Spezzava un ramo, profanava un ossario e lì qualcosa nasceva, nell’andare sui prati, per quelle ignote terre con indosso il suo favoloso manto di piccolo re. Essere un tutt’uno col fiotto che esce dalla pelle di cose vive e non vive, essere tutto e confondersi.
La buccia dei frutti trasuda, separata dalla polpa eppure di un’unica sostanza. Il piatto è rotondo, brilla sotto la lampada accesa e sembra quasi non avere forma. Gli spigoli della tavola disegnano la stanza, intorno è già scuro, per strada non si sente nessuno. Davanti alla finestra nuota questa esile radura sulla superficie di un lago silenzioso, cola amaranto dalle nubi dentro le pupille dei tetti, scende un chiarore che ancora resiste nell’azzurro di qualche ruga. Siede al suo posto il figlio con un sorriso largo e la tovaglia manda un bagliore fatato. Tutto è all’inizio, si avvicina in punta di piedi alla soglia del suo cuore che non ha difese e attende di essere accolto. Lui stringe una bacchetta con cui s’illude di andare lontano. Oltre il celeste dei vetri, di là dalle rose autunnali che ne ricamano la fronte, avrà in dono i suoi pomi rotondi, diversi da quelli che la madre gli ha messo nel piatto. Imparerà l’amarezza dei nuovi frutti, li rifiuterà, ma altri verranno e finirà con laccettarli. Innanzi a quel vetro si sente vicino al mondo eppure respinto. Ancora non lo sa con certezza, prova unindicibile delusione nel guardare, e non la spiega. Cerca di mischiarsi alle cose ma neanche questo gli riesce. Comincia a dubitare se mai gli riuscirà di unire se stesso agli altri. La madre gli mette nel piatto la luna, rifila gli anni come una collana, impasta le sue tenere carni alle perle che ruba al mercato, vegliandolo. E la lanterna sempre ben salda sulla casa.
Il bambino vince il fazzoletto a rubabandiera e conquista metri alla sua ribellione. La corsa gli dà vigore. Avanza in mezzo alle foglie, l’autunno lo ritrova cresciuto. La sua inesperienza non è più il fragile spago con cui legava l’amore della madre. Adesso può tenere testa alle ombre del giardino, l’azzurra maschera della finestra non riesce più a catturarlo; ha tracciato un confine sicuro, lui crede, tra sé e il mondo. Non cadrà più nell’inganno di andare incontro alla vita. Ha imparato a non restare deluso, è la sua convinzione. Ma proprio da qui verrà la sua scontentezza. Nessuna tavola luccicherà più, il piatto dorato dell’infanzia rimarrà vuoto sotto la lampada che nessuno curerà più di accendere. Abbandonate saranno le stanze nell’opaco splendore di un’aspettativa fugata.
L’intera esistenza si aggira in questo sommesso limitare di cose. Gli argini prima o dopo finiscono travolti, atterrati. Si rimescola il tempo nella carne, occulte doline franano sui contrafforti che saldamente hanno spartito lo spazio. Un laccio stringe i polsi ai ricordi, e il sangue sgorga pesante e già rappreso, trafila da questo lembo di volontà troppo sottile che aspira a preservare.
Novembre tiene per le caviglie, gioca a tirare indietro, quasi camminassimo in mezzo alle onde. Dagli ultimi orti della città esala un fumo denso di sterpaglie. Le bacche si aprono sulla via dandosi agli insetti. Non so cosa porti qui, ad aggirarsi per queste bianche case dove non sincontro nessuno. I cortili vanno a morire nei campi insieme al sole. Tutto qui ha un riverbero di pace. Quanto più cedo a questa tregua autunnale, anche solo per poco, in questo strano confine di abitati e abbandono, più ancora ho l’impressione di udire una piccola morte farsi strada dentro di me, un palpito di fibre scivolate dal trapezio del mondo. Così vicina non l’ho mai sentita. Ma è la mia sosta, è calda come una madre, e all’infinito vorrei poterla assecondare.       


(Di Claudia Ciardi, novembre 2014)

2 commenti:

  1. Interessante, ma decisamente difficile, se posso azzardare un accostamento, direi un Curzio Malaparte barocco. Scusa la presunzione, ciao !

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  2. Leggendo Pesci rossi di Emilio Cecchi noto una certa somiglianza ...

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