Gettando
una luce insolita e vivace sulle radici di un territorio altrimenti poco noto,
le fiabe delle Apuane raccolte dall’anglista Paolo Fantozzi, appassionato di
folclore e cultura dei territori montani di Garfagnana, entroterra versiliese e
Lunigiana, contribuiscono a risvegliare una sana attenzione per un ambiente che
ha bisogno di essere tutelato, se vuole conservare la propria identità e integrità
fisica nell’immediato futuro. Perché l’Italia, in quanto culla degli italici,
nasce e si sviluppa essenzialmente attorno alle sue valli, nella lotta aspra e
magnifica delle comunità montane che col passare dei millenni hanno resistito
in questi territori difficili. Scriveva lo storico Appiano che la penisola non
tanto risultava divisa tra nord e sud ma ancor più longitudinalmente,
dall’Appennino, confine tra aree e popolazioni assai diverse. E però questa
imponente barriera naturale, per gli antichi in larga parte impenetrabile, ha
da sempre incarnato anche l’ossatura del paese, una singolare quanto vitalissima
colonna vertebrale in grado di mettere in circolo energie, risorse, visioni del
mondo e dunque quella somma di immaginari che non è esagerato definire il
nostro cuore pulsante.
Come
fa notare Paolo Rumiz nell’introduzione a uno dei suoi testi più noti, La leggenda dei monti naviganti, è nelle
nostre valli che si gioca anche la prossima sfida politica: «In questi spazi la
parola – il logos – sembra
riacquistare senso e rigenerarsi come in una cassa armonica. […] Mi piace
pensare che tali luoghi contengano i codici criptati della resistenza
all’annientamento, memorie orali antichissime dei principi della vita. Senza
questi invisibili rifugi, probabilmente la montagna si sarebbe desertificata da
tempo. […] Che i politici scendano dai loro elicotteri e imparino a camminare;
o l’Italia diverrà in breve una terra di locuste e avremo non una, ma mille
periferie di furore. Le periferie bastonate si vendicano, e la montagna è
periferia». È periferia ma anche centro, se appunto si impara a camminarci e
incontrarla. Per un territorio come quello italiano dove il mare e i monti sono
cardine e decumano di una tra le più poliedriche avventure culturali che si
siano viste affacciarsi nel mondo, si tratta di un’imprescindibile dialettica. Nei giorni che ho recentemente trascorso in
Val di Fassa e Val di Fiemme, sforzandomi di vivere la montagna soprattutto nella sua dimensione
più autentica e meno omologata, che oggi forse si fatica a cogliere, ho cercato
il contatto con i valligiani e soprattutto ho osservato. E tra i diversi
incontri ce n’è uno che mi ha fatto riflettere più di altri. Tra le vie quasi
deserte di Predazzo, dopo un’escursione di qualche ora sopra l’abitato, nei
pressi di una fonte dove intendevo rinfrancarmi mi sono sentita guardata. E in
effetti, dietro una finestra ho scorto per un attimo un
paesano che mi teneva d’occhio. C’era in lui chiaramente la curiosità di vedere
chi fosse “sceso dall’alpe” – quindi
immagino un certo stupore da parte sua nell’essersi trovato davanti una mezza
sciagurata lì da sola con una precaria attrezzatura da trekking. Ma posso anche
aggiungere, senza sbagliarmi, che il tipo mi stesse puntando come per dire
“vedi di non combinare qualcosa alla fonte o sono guai”. Penso di aver capito
in quel preciso istante, ben al di là di tante vane blaterazioni, cosa significhi
per la gente di montagna l’attaccamento alle proprie risorse, che passa di
necessità attraverso il presidio e la conservazione del territorio. E questo è
anche il motivo per cui mi vanno stretti certi esercizi intellettualistici in
cui si enunci di ridar vita ai borghi montani abbandonati usando la leva
dell’immigrazione, senza parlare di infrastrutture, investimenti e progetti
concreti. Non dimentichiamo infine che queste comunità, per loro indole solidali, hanno pur sempre una connotazione etnica propria con
cui non si può non confrontarsi. L’integrazione, che già di per sé è un processo
lento, quando si vuole realizzare davvero, perché passa attraverso la
conoscenza, l’avvicinamento e la negoziazione di identità diverse, qui dovrebbe adattarsi ai ritmi ancora più lenti imposti dalla montagna. Chi arriva bisogna che sia accettato prima di tutto dalla legge non scritta della vita in quota – il
che non è un automatismo – quindi dalle
comunità territoriali.
Aggiungo
infine che se certi borghi si sono spopolati, nonostante una secolare presenza
contadina, non è solo colpa delle sirene del capitalismo. In alcune frazioni
della Lunigiana mi raccontavano anni fa che la vita si faceva di anno in anno
più dura essendo l’acqua sempre più scarsa. Molte fonti erano ormai prosciugate e
si era quindi creato un problema di approvvigionamento quotidiano. Così torniamo
all’infrastruttura e alle risorse. Senza i necessari investimenti la montagna
muore.
Il
libro di Paolo Fantozzi mi è molto caro perché si pone come studio
antropologico che intende salvare una memoria territoriale tra le più
importanti. Il patrimonio fiabesco è infatti il collettore di una tradizione contadina
che attraverso i suoi riti e i simboli espressi nel racconto orale definisce le
coordinate della propria storia. Così queste fiabe apuane, raccolte negli anni
Ottanta dalla voce degli abitanti dei principali borghi alpini, sono un mezzo
d’elezione per comprendere vita e fisionomia di un territorio frastagliato e
complesso, dove oggi la parola dei vecchi tende ad affievolirsi e scomparire mentre
le nuove generazioni sono chiamate ad assumere sulle proprie spalle scelte
complesse, circa uno sfruttamento sostenibile del territorio e le modalità di traghettare
la cultura dell’alpe raccogliendo le sfide del nuovo millennio.
Si
tratta, dicevo, di un libro a cui sono affezionata anche per il modo in cui l’ho
scoperto. A passeggio per Pontremoli, caposaldo sulla Via Francigena, paese
incantevole e incantato di cui consiglio caldamente la frequentazione a chi non
lo conosca. Fra pellegrini muniti di bordone e conchiglia di riconoscimento che attraversano la
piazza, graziose librerie vecchio stile che tradiscono
una passione antica per la carta stampata e in generale per l’editoria,
risalente a secoli addietro, quando i contadini riempivano le gerle di viveri e
manoscritti in cerca di acquirenti che nella colta e curiosa Lunigiana non era
arduo trovare, non resterete delusi.
Le
fiabe apuane fanno volare la nostra immaginazione fin sugli alpeggi del
Corchia, della Tambura, del Pisanino. In mezzo a grotte presidiate da fate e
maghi capaci di rapire, imprigionare o compensare con tesori meravigliosi, nel
vortice di incantesimi che sovvertono la realtà e mettono alla prova l’indole
di giovani donne e uomini che si avventurano sui crinali, tra fantasmi, animali
parlanti, castelli fantastici, tocchiamo con mano l’indole di queste genti
montanare, misteriose e un po’ arcigne come le creature
che popolano i loro racconti.
E
scortati dalle loro parole prendiamo confidenza con un mondo che diversamente
ci sarebbe precluso. I nomi delle Alpi divengono pian piano familiari, punti di
uno spazio letterario capace d’invenzioni sorprendenti in cui il lettore, dopo
i primi brani, non fa fatica a muoversi, penetrando con disinvoltura in una
mentalità arcaica che tuttavia ha il dono di attrarre, manifestando una
versatile, spiazzante modernità.
(Di
Claudia Ciardi)
Paolo
Fantozzi,
Rupi e boschi incantati.
Fiabe dalle Alpi Apuane,
Apice
libri,
2016
Salendo per Bosco Fontana (sopra Predazzo)
Related links:
Rivista Meridiani - Montagne. Alpi Apuane - Numero 31 - Editoriale Domus
Disegni I / Disegni II – su «Il chiosco del flâneur»
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