26 agosto 2018

L'antropologia letteraria di Carlo Levi


Nell’attesa di tornare a scrivere più avanti qualche considerazione sugli aspetti letterari del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, stendo intanto alcune impressioni a caldo, dopo la lettura. Romanzo autobiografico sull’esperienza da confinato, vissuta a Grassano e poi a Gagliano in Basilicata tra il 1935 e il ’36, è da considerare fra le opere maggiormente formative e dense di implicazioni nel panorama novecentesco italiano. Per quanto possa sorprendere è assai poco uno scritto politico ma più che altro un affresco sociale, un documento di ritratti e riflessioni su quel mondo contadino escluso dalla storia, vessato e perciò poverissimo, a sua volta confinato in una dimensione parallela al tempo storico che non riesce a incrociare, di cui tantomeno può sperare di divenire interprete.

Se il fascismo è il facitore del trionfo di uno statalismo piccolo borghese che non sa e non vuole integrare la classe contadina né in alcuna misura emanciparla, Levi esprime notevoli preoccupazioni per quanto sarebbe accaduto in seguito. Le macerie dello statalismo fascista si sarebbero mischiate a quelle liberali con il pericolo di una dittatura ancora più estrema, perché instaurata sottotraccia, nella quale coscientemente si sarebbe continuato a escludere gli ultimi. Qualcuno può obiettare che l’avvento dell’industrializzazione abbia cambiato i rapporti di classe. Non più un mondo contadino da integrare ma un mondo operaio che in parte ha incarnato la forzata trasformazione degli spazi rurali. Le rivendicazioni di tanti uomini avviati alla marginalità si sono trasferite dalle campagne alle città. E non a caso, nell’Italia post bellica, sono proprio tali soggetti i protagonisti dell’opera di Pasolini, in una poetica epopea dei vinti; il ragionamento sociale alla base della letteratura e dell’antropologia pasoliniane prende le mosse, io credo, dalla denuncia di Carlo Levi. Levi incide la prima pietra e intuisce che la mancata integrazione del mondo rurale avrebbe seguitato ad essere un elemento destabilizzante per qualsiasi stagione di governo successiva, come anche non si sarebbe acquisita un’autentica e pienamente rappresentata idea di Stato finché tutte le componenti sociali non vi avessero trovato giusta e degna espressione.
Di fatto le tensioni mai risolte del mondo rurale si sono trasferite solo in parte nelle lotte operaie ed entrambe, quelle scaturite da chi è rimasto impotente ad assistere all’impoverimento delle campagne e quelle veicolate da coloro che hanno cercato altrove un illusorio progresso sociale, sono confluite in un’identica conflittualità, soccombente quanto ostinata, la medesima che lo storico F. Braudel registra nelle sommosse popolari delle civiltà mediterranee tra il Cinquecento e il Seicento. È un conflitto permanente, disperato e proprio per questo longevo, che allora non aveva i connotati della lotta di classe e che solo tra la fine dell’Ottocento e nel Novecento si configura come tale. Una lotta che non ha abdicato ai caratteri di una durevolezza quasi atemporale, pur essendo ogni volta costretta a tornare sui suoi passi senza che alcuna apertura nelle dirigenze statali abbia saputo sopirne le vertiginose fiammate. Tensione che, riportata ai giorni nostri, si riscopre anche negli attuali schemi politici italiani.

L’interrogativo di Carlo Levi sull’allontanamento dell’intellettuale borghese dalle istanze della massa, e dunque la sua incapacità di parlarle e interpretarne i sussulti senza voler rinunciare alla propria autoreferenzialità, alle letture di un buon senso classista che distolgono dalle possibili soluzioni, è tuttora aperto e all’origine di tanta accesa veemenza anche nelle polemiche odierne tra cosiddetto populismo e visione liberale dello status quo. Categorie che in questo momento appassionano l’intellettuale che crede di parlare al sicuro lontano dalla tempesta, mentre non si accorge che quella corrente di vendicativa esasperazione non solo lo tira dentro il conflitto – forza gravitazionale ineludibile – ma in buona parte ne ha già decretato la fine.

Proprio ora che il concetto di massa pare più fluido rispetto a ogni altra epoca, e tralasciarla o considerarla solo come astrazione significa in maggior misura far torto contemporaneamente sia alla sfera individuale sia alle possibilità del comunicarsi individuale nel collettivo. In questo inizio di millennio quelli che “non fanno storia” – i frammenti di una società rurale che ancora abitano le campagne, gli operai in cui essa si è in parte trasformata e infine gli esclusi di questi due mondi che non son riusciti a compiere le loro rivoluzioni e affollano le periferie urbane – vogliono entrare nella corrente della storia, vogliono poter dire qualcosa. Forse adesso, per la prima volta, sono loro i destinati a un tempo storico – non più semplice protesta e fiammata ma volontà di affermazione – mentre chi finora ne è stato attore e narratore rischia l’oblio.

Carlo Levi ha espresso tutto ciò un’ottantina di anni fa, e non lo ha fatto parlando di politica ma descrivendo lo stato miserabile della civiltà contadina. Uno spaccato tra i più alti che siano stati dedicati alla storia d’Italia, volume profondissimo di letteratura e antropologia, che contiene tra l’altro alcune delle pagine migliori mai scritte sulla questione meridionale. Per me il compendio assoluto degli altrettanto preziosi volumi di Ernesto de Martino, studiati durante i miei vent’anni, le cui conclusioni ho qui ritrovato in uno sguardo d’insieme, lucido e potente.  

(Di Claudia Ciardi)


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