Regia: Emanuele Caruso
Con Lorenzo Pedrotti, Fabrizio Ferracane,
Viola Sartoretto, Cristian Di Sante, Giulio Brogi.
Genere: Drammatico
Durata: 110 minuti
Produzione: Italia,
2018
Ambientata
negli scenari selvaggi della Valle Grande, in Piemonte, estesa riserva naturale
a sessanta chilometri dalla Svizzera dove non vi è traccia d’intervento umano,
la seconda prova cinematografica di Emanuele Caruso non delude. Centra le
aspettative già create col suo precedente lavoro, E fu sera e fu mattina, esordio del 2014 tutto girato nell’Alta
Langa, sostenuto da una raccolta fondi di successo, ben compensata dagli ottimi
riscontri di pubblico. Una bell’impresa ripetuta con La
terra buona, narrazione poetica commovente sui tracciati di Ermanno Olmi e
Giorgio Diritti, dai quali il regista attinge per affinare gli accenti della sua espressione, fra i più singolari nel panorama italiano attuale.
Prendendo le mosse da una storia vera, il film esorta con delicatezza lo
spettatore a riflettere su temi importanti, quali il confronto coi ritmi
naturali dell’esistere, il bisogno di recuperare una dimensione spirituale
autentica, l’imprescindibile necessità di raccoglimento senza la quale l’essere
umano è sbilanciato, incapace di pensare, di farsi e fare del bene.
Nel
quadro di un luogo all’apparenza ostico, ma subito accogliente non appena si
entra in sintonia col suo respiro, si ritrovano Padre Sergio De Piccoli, monaco
benedettino, che in Valle Maira, nel cuneese, ha realmente raccolto
sessantamila volumi così da costituire la biblioteca più “alta” d’Europa, un
terapeuta che sperimenta cure alternative per malattie terminali, una ragazza
in cerca di guarigione e il suo amico d’infanzia che si offre di accompagnarla
in questo difficile cammino. Mastro, il medico che non si stanca d’insegnare
l’importanza del saper guarire interiormente come primo stadio di ogni terapia,
e il suo aiutante Rubio, irascibile quanto concreto e geniale, si sono
rifugiati da Padre Sergio perché il loro metodo è stato messo sotto accusa.
Sono dei perseguitati, come lo sono, per motivi diversi, Gea e Martino, i due
ragazzi che sfiniti e, quasi scacciati dal mondo, arrivano in valle. Gea, a
causa della malattia, non ha quasi più risorse fisiche, ma anche la sua mente è
indebolita – un rapporto complicato col padre scomparso recentemente e che
dunque non è più recuperabile, la consuma anche più del suo male. Martino, che
viene pure lui da Roma, come Gea, si sente altrettanto masticato e rigurgitato
dalla metropoli dove non ha saputo realizzarsi sul piano economico e dov’è è
costretto a guardare in faccia i suoi fallimenti. Fatica però a prendere coscienza di questa condizione, e perfino la sua nevrosi gli sfugge, attribuendola solo a quel che si trova a subire, come fosse qualcosa di esterno alla sua vita. La montagna lo aiuta lentamente a riconoscere se stesso, a riappropriarsi
di un dialogo con quella parte della sua persona ammalata che nella fragilità,
nel disadattamento continuo alle precedenti situazioni che ha attraversato,
avrebbe voluto costringerlo a fermarsi. Ci riusciranno i silenzi e gli sguardi
di padre Sergio, l’umile e umana comprensione di Gianmaria, il suo aiutante, il
confronto con Mastro e quell’antro meraviglioso pieno di libri e di sogni,
fiorito come per incanto in mezzo alle nuvole, in cui si trova all’improvviso
catapultato.
È
per certi versi una fiaba alchemica orientata alle energie che uomini e cose
sono in grado di emanare; una ricerca dubitante nella quale interiore ed
esteriore s’intersecano, generando materia vitale e inaspettate trasformazioni.
È anche la storia di come i destini di queste persone vengano scossi
inevitabilmente dal mondo esterno o estraneo, che non rimane certo quieto,
relegato nella sua lontananza, ma risale a cercarli, esigendo da loro una
presa di posizione, chi davanti alla vita chi davanti alla morte, marea che
incalza e che spinge per cancellare le orme appena impresse. È la storia di un
microcosmica comunità di caratteri che, pur diversi e sconosciuti fra loro,
riescono per un momento a trovare un equilibrio, un po’ di normalità, e in
questo momentaneo amalgamarsi raggiungono un affiatamento insperato. La
separazione è un epilogo inevitabile ma non viene rappresentata come un semplice
lacerarsi di legami, contiene un augurio più grande e profondo scritto intorno
al richiamo essenziale che ognuno ha la sua missione da compiere e perciò
si va avanti, si cammina, in cerca di qualcosa che, se anche non ci è chiaro, sa
farsi ascoltare tra le fibre del nostro andare, e voltargli le spalle non si
può.
(Di
Claudia Ciardi)
Mastro e l’aiutante Rubio sotto il pergolato
Una scena
Alcuni componenti del cast
Nessun commento:
Posta un commento