26 novembre 2018

Michele Pellegrino - Una parabola fotografica


A considerarlo uno degli eventi culturali di maggior caratura in Italia per l’anno corrente non si sbaglia. Si tratta della mostra sull’opera fotografica di Michele Pellegrino, dedicata all’intera sua attività estesa per un cinquantennio, che si è tenuta a Cuneo da luglio a ottobre, nel complesso monumentale di San Francesco. Questa rassegna non è stata solo l’occasione per presentare al pubblico, in un’esposizione tematica dalle cadenze originali, una delle ricerche di fotografia tra le più articolate che abbiano fatto la loro comparsa nel panorama culturale italiano. Nel nodo di suggestioni e rimandi, configurati nei decenni, e dunque nel divenire della sensibilità di Pellegrino, al di là dell’ambito rurale della provincia da cui il suo lavoro ha preso avvio, occupa uno spazio particolare il riverbero dell’immagine catturata dall’obiettivo sulla monumentalità letteraria di Cesare Pavese. Del grande scrittore delle Langhe ricorrono infatti i centodieci anni dalla nascita, e non a caso l’allestimento è stato concepito come un doppio omaggio all’epica narrativa, l’una intrecciata in parole, l’altra costruita per ritratti, di due grandi interpreti di un mondo ormai scomparso, o quantomeno mutato in profondo. Nell’idea di Enzo Biffi Gentili, direttore del MIAAO di Torino, Museo Arti Applicate Oggi, curatore della mostra, le frasi estrapolate dai capolavori di Pavese non dovevano essere semplice commento ma entità vive, presenze dialoganti coi quadri in bianco e nero. I due autori rappresentati hanno peraltro in comune l’esser stati costretti a misurarsi coi limiti di una catalogazione che molto ha tolto alla loro complessità. Da un lato Pellegrino, nella vulgata più superficiale, si è voluto definire “fotografo di provincia”, senza che tale appellativo abbia inteso problematizzare né attualizzare quello stesso concetto di provincia, dall’altro Pavese, nei panni di autore verista o realista, con ciò accettando che gli fosse sottratta la massiccia archetipica poesia che è il più esclusivo portato del suo ragionare sulle cose del mondo. Un occultamento similare lo si riscontra in Carlo Levi, le cui implicazioni vanno in scia a questa epica dei vinti, degli esclusi, di coloro che non fanno storia, pure in una dimensione che esce dalla contingenza politica e produce cerchi concentrici nello stagno delle epoche umane, oltre il tema della storia, perfino oltre il tempo. Anche per Levi, e per la sua produzione pittorica soprattutto, tanto che molti si sorprendono a scoprire le sue tele di cui non sospettavano minimamente l’esistenza, la fama di neorealista ha eluso, se non altro appiattito, il messaggio da lui affidato ai propri esiti creativi.       
Se la provincia non è un cosmo chiuso, quindi neppure statico, la fotografia di Michele Pellegrino diviene tabula synchronica, immersa nel momento dello scatto ma insieme proiettata al di fuori e al di là dei suoi confini spazio-temporali, simulacro aggettante, mutevole, elemento sul quale si addensano le eco delle generazioni e di una proteiforme presenza. L’ambiente di cui parla è dunque soggetto umbratile, sfuggente, figura dai contorni mitologici precipitata nei magli di un processo industriale che le aveva promesso di emanciparsi, progredire, conservarsi nel cammino della storia, per consegnarla invece, crudamente spossessata, a un muto risveglio.
Anche in contrasto a questa illusione di progresso, dopo gli anni Settanta, Pellegrino sfuma la persona umana, indirizzandosi all’umano del paesaggio o al fenomeno del misticismo: le amate montagne, le “nitide vette”, la Langa, le “ninfe idriadi”, la “madre mediterranea”, parabole spirituali, volontà di ascesi. Simboli, archetipi, sintomi di una natura estrema, inquieta, talora tenebrosa, che nella sua vastità inabitata rimanda pur vagamente a una presenza in riflesso, a una possibilità dell’esserci il cui sguardo su quell’immensità, leopardianamente, si posa e annega. C’è un primitivismo medievale e metafisico fra queste scaglie di luci e ombre, profili gotici, frammenti di allegorie giocati sui ritmi di un’affabulazione altra, diversa dal documento antropologico di Ugo Pellis e già più vicina ai nodi dell’epos paesano di Pepi Merisio.
Lungi dal raccogliere forme statiche, la fotografia di Michele Pellegrino si pone come un caleidoscopio in grado di mostrare quello che Pavese ha definito il «cammino dell’anima». Vibrazioni, sentimenti, scenari spirituali bucano quasi fisicamente lo scatto e, al fondo, ci rivelano l’occhio di un grande maestro.    

(Di Claudia Ciardi)


Catalogo:

Michele Pellegrino. Una parabola fotografica,
introduzioni di Enzo Biffi Gentili e Walter Guadagnini, Skira, 2018


* Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra



La miseria infinita



Le cime tenebrose



Dalla serie "Le cime tenebrose"



Dalla serie "La madre mediterranea"



Il CuNeo gotico



I cistercensi - Il CuNeo gotico



Un convegno internazionale per Giovanni Battista Schellino - il 1° dicembre 2018






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