A
considerarlo uno degli eventi culturali di maggior caratura in Italia per l’anno corrente non si sbaglia. Si tratta della mostra sull’opera fotografica di Michele
Pellegrino, dedicata all’intera sua attività estesa per un cinquantennio, che si
è tenuta a Cuneo da luglio a ottobre, nel complesso monumentale di San Francesco.
Questa rassegna non è stata solo l’occasione per presentare al pubblico, in un’esposizione
tematica dalle cadenze originali, una delle ricerche di fotografia tra le più
articolate che abbiano fatto la loro comparsa nel panorama culturale italiano.
Nel nodo di suggestioni e rimandi, configurati nei decenni, e dunque nel
divenire della sensibilità di Pellegrino, al di là dell’ambito rurale della
provincia da cui il suo lavoro ha preso avvio, occupa uno spazio particolare il
riverbero dell’immagine catturata dall’obiettivo sulla monumentalità letteraria
di Cesare Pavese. Del grande scrittore delle Langhe ricorrono infatti i centodieci anni dalla nascita, e non a caso l’allestimento è stato concepito come
un doppio omaggio all’epica narrativa, l’una intrecciata in parole, l’altra costruita
per ritratti, di due grandi interpreti di un mondo ormai scomparso, o quantomeno mutato in profondo. Nell’idea
di Enzo Biffi Gentili, direttore del MIAAO di Torino, Museo Arti Applicate Oggi, curatore
della mostra, le frasi estrapolate dai capolavori di Pavese non dovevano essere
semplice commento ma entità vive, presenze dialoganti coi quadri in bianco e nero. I due autori rappresentati hanno
peraltro in comune l’esser stati costretti a misurarsi coi limiti di una
catalogazione che molto ha tolto alla loro complessità. Da un lato
Pellegrino, nella vulgata più superficiale, si è voluto definire “fotografo
di provincia”, senza che tale appellativo abbia inteso problematizzare né
attualizzare quello stesso concetto di provincia, dall’altro Pavese, nei panni di autore verista o realista, con ciò accettando che gli fosse sottratta la
massiccia archetipica poesia che è il più esclusivo portato del suo ragionare
sulle cose del mondo. Un occultamento similare lo si riscontra in Carlo
Levi, le cui implicazioni vanno in scia a questa epica dei vinti, degli
esclusi, di coloro che non fanno storia, pure in una dimensione che esce dalla
contingenza politica e produce cerchi concentrici nello stagno delle epoche umane,
oltre il tema della storia, perfino oltre il tempo. Anche per Levi, e
per la sua produzione pittorica soprattutto, tanto che molti si sorprendono a
scoprire le sue tele di cui non sospettavano minimamente l’esistenza, la fama
di neorealista ha eluso, se non altro appiattito, il messaggio da lui affidato ai propri esiti creativi.
Se
la provincia non è un cosmo chiuso, quindi neppure statico, la fotografia di
Michele Pellegrino diviene tabula synchronica,
immersa nel momento dello scatto ma insieme proiettata al di fuori e al di là dei suoi confini spazio-temporali, simulacro aggettante, mutevole, elemento sul
quale si addensano le eco delle generazioni e di una proteiforme presenza. L’ambiente di cui parla è
dunque soggetto umbratile, sfuggente, figura dai contorni mitologici precipitata
nei magli di un processo industriale che le aveva promesso di emanciparsi,
progredire, conservarsi nel cammino della storia, per consegnarla invece, crudamente spossessata, a un muto risveglio.
Anche
in contrasto a questa illusione di progresso, dopo gli anni Settanta, Pellegrino
sfuma la persona umana, indirizzandosi all’umano del paesaggio o al fenomeno del misticismo: le amate
montagne, le “nitide vette”, la Langa, le “ninfe idriadi”, la “madre
mediterranea”, parabole spirituali, volontà di ascesi. Simboli, archetipi,
sintomi di una natura estrema, inquieta, talora tenebrosa, che nella sua
vastità inabitata rimanda pur vagamente a una presenza in riflesso, a una
possibilità dell’esserci il cui sguardo su quell’immensità, leopardianamente,
si posa e annega. C’è un primitivismo medievale e metafisico fra queste
scaglie di luci e ombre, profili gotici, frammenti di allegorie giocati sui
ritmi di un’affabulazione altra, diversa dal documento antropologico di
Ugo Pellis e già più vicina ai nodi dell’epos paesano di Pepi Merisio.
Lungi
dal raccogliere forme statiche, la fotografia di Michele Pellegrino si pone
come un caleidoscopio in grado di mostrare quello che Pavese ha definito il «cammino
dell’anima». Vibrazioni, sentimenti, scenari spirituali bucano quasi
fisicamente lo scatto e, al fondo, ci rivelano l’occhio di un grande maestro.
(Di Claudia Ciardi)
Catalogo:
Michele Pellegrino. Una parabola fotografica,
Michele Pellegrino. Una parabola fotografica,
introduzioni di Enzo Biffi Gentili e Walter Guadagnini, Skira, 2018
* Le prese sono state autorizzate dal personale della mostra
La miseria infinita
Le cime tenebrose
Dalla serie "Le cime tenebrose"
Dalla serie "La madre mediterranea"
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