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28 settembre 2016

I dilemmi della traduzione


Desidero riproporre ai lettori il saggio sull’arte del tradurre, steso prendendo le mosse dal densissimo scritto di Walter Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers [Il compito del traduttore], il 3 giugno 2013 per il blog «Quaderni corsari» a cura di Paolo Zignani, già intervistato in questo mio spazio. Causa la recente chiusura del sito di Zignani, che ne ha appena inaugurato un altro orientato al dibattito politico e all’analisi trasversale di diverse tematiche sociali e culturali, ho deciso di recuperare questo vecchio intervento in modo da renderlo nuovamente disponibile tra le mie pagine.


Chi è il traduttore? Un tecnico, un ingegnere del linguaggio che con operazioni di stile matematico razionalistico “traduce” come un prigioniero il significato in un’altra lingua? Oppure tradurre significa evocare quasi magicamente il genio dell’autore e dialogare con lui in un modo imperscrutabile? C’è una via non estrema, una fedeltà ardua, pensante, al senso del testo originale, di cui Claudia Ciardi, giovane studiosa toscana, racconta non senza partecipazione. Ha scelto proprio Walter Benjamin, autore quanto mai prezioso, che alcuni contemporanei trovavano incomprensibile, per affrontare un esercizio tanto delicato. “L’arte di tradurre si allarga a metafora del lavoro intellettuale” scrive Claudia Ciardi, riallacciandosi alle questioni più aperte e avvincenti dell’ermeneutica contemporanea, che abbracciano molti settori. Oltre ma anche nei reconditi risvolti, nelle evocazioni del testo qui sotto riportato, problemi comparabili si incontrano in altre discipline, nel diritto costituzionali, nella giurisprudenza (nell’applicazione delle leggi), nella filosofia politica. C’è qualcosa di antropologico, di viscerale, nella traduzione, c’è una questione etica di fedeltà e di rispetto del testo come anche della sua trasferibilità in altra lingua e altro contesto. Quante volte ci troviamo in situazioni paragonabili? Il tema ha una specificità assai intensa come anche un’apertura universale. Per questo è vitale sviluppare la lettura della seguente pagina sull’esperienza del tradurre. (Premessa di Paolo Zignani)




«Labyrinthus [labor-intus] dicebatur domus Dedali» [The labyrinth is called the house of Daedalus] 
Codicis Theodosiani libri sexdecim..., c. 801-900, Latin 4416, f. 35r, Bibliothèque nationale de France.


«La ricchezza di oggetti e di forme, il loro bagliore incantevole e il loro splendore sontuoso ci inducono a chiederci che cosa sia ciò che brilla in queste suppellettili e si cela nella loro luce. Le piccole statuette e le figure votive che si sono conservate non esprimono nulla di chiaro in proposito. Vi è forse qualche connessione tra il labirinto e questo lusso? Laggettivo luxus allude al fatto che qualcosa è stato rimosso dal suo luogo, spostato e distorto, così da essere distolto e sottratto da ciò che è abituale. Laddove esso è invece fine a se stesso, esposto in numerosi esemplari, ci imbarazza e ci confonde. È per questa ragione che tutti quegli oggetti si associano al labirinto, il giardino dellerrore [Irrgarten]. La fusione di lusso e labirinto del mondo minoico-cretese è dunque molto lontana dalla desolazione della superficialità e dal vuoto delleffimero. Ma che cosa risplende in questo bagliore fuorviante? O forse così la domanda è già posta male? Forse ciò che riluce non è altro che questo stesso bagliore, che nulla racchiude o nasconde».
Martin Heidegger, Viaggio in Grecia [Aufenthalte], Guanda editore, 2012


Ringrazio Paolo Zignani per questo spazio e ancor più per aver sollecitato un interessante confronto sull’inesauribile tema della traduzione. Un simile argomento mi permette infatti di tornare a quell’appassionante crocevia letterario attorno al quale si è decisa molta parte della mia iniziazione sul fronte della scrittura, raccontando alcune delle mie più recenti esperienze proprio nei panni di traduttrice. Tradurre è esplorare la lingua non sulla base di leggi e relazioni meccanicistiche, come in genere siamo portati a pensare quando si ha di fronte un testo che vogliamo ‘far parlare’ secondo i modi d’espressione a noi più familiari, ma suscitare corrispondenze che procedano oltre il medium, oltre le leggi grammaticali e sintattiche che inchiodano le parole alla loro qualità comunicativa. Si tratta di richiamare nel nostro lavoro un elemento per così dire trascendente, una tessitura di senso che si spinga ben più lontano della semplice riproduzione di significato. Come non ricordare, a tale proposito, le densissime pagine di Walter Benjamin dedicate al traduttore?
In questo breve saggio, apparso nel 1923 come introduzione ad alcune poesie di Baudelaire, la teorizzazione stessa pare volersi rappresentare su un piano ulteriore dell’esercizio critico, quasi intendendo suggerire un modus operandi valido anche a risolvere le aporie insite nella riflessione filosofica. Dunque si può dire che l’esercizio di traduzione, mirabilmente definito da Benjamin, pare un pretesto per parlare in generale del pensiero umano, l’arte di tradurre si allarga a metafora del lavoro intellettuale, il cui scopo non è la restituzione di una ‘letterarietà’, o almeno lo è solo per una parte minima dell’architettura che si propone di costruire. Occorre semmai, proprio come nello sforzo di ‘resa’ di una lingua in un’altra, accantonare l’inessenziale, leggere al di là del comunicabile per ricavare quel non-comunicabile, il cui carattere è tanto sfuggente in quanto non marcatamente né coerentemente radicato in nessuna articolazione del corpo linguistico e, quindi, del pensiero. Solo in questo modo si potrà assecondare quella libertà di movimento insita nella parola dalla quale viene distillata la vera vita cui appartiene l’opera di ingegno.

«La traduzione trapianta quindi l’originale in un dominio linguistico almeno in tanto – ironicamente – più definitivo, in quanto l’originale stesso non può più esserne trasferito da alcuna nuova traduzione, ma solo elevato sempre di nuovo e in altre parti di esso. Non a caso la parola “ironico” può ricordare qui argomentazioni dei romantici. Essi hanno capito prima di altri che le opere hanno una vita, e di questa vita la traduzione è una suprema conferma. È vero che essi non hanno riconosciuto questo valore della traduzione, e hanno rivolto tutta la loro attenzione alla critica, che rappresenta anch’essa un momento, benché minore, della sopravvivenza delle opere. Ma anche se la loro teoria non si è quasi rivolta alla traduzione, la loro stessa grande opera di traduttori implicava il sentimento dell’essenza e della dignità di questa forma». […] «… allora la traduzione […] è a metà strada fra la poesia e la dottrina. La sua opera è meno caratterizzata dell’una e dell’altra, ma non s’imprime meno profondamente nella storia». Da Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, 1962. Il titolo del saggio è Il compito del traduttore (Die Aufgabe des Übersetzers, in Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955)

Per Benjamin dunque l’autentico tributo creativo nei confronti della parola viene proprio dal lavoro di traduzione, e il suo scritto guida il lettore al salto concettuale necessario al realizzarsi di quell’‘ascesi’ del linguaggio, verso cui il buon traduttore è tenuto a impegnare tutte le proprie risorse intellettuali.
Nella mia esperienza posso dire senz’altro che studiare le lingue ha presieduto a una lunga e complessa rielaborazione dell’italiano. Credo anzi che il mio interesse per le lingue, a partire dalle letterature antiche, sia stato profondamente connotato da un’idea di scrittura che io vedevo, agli inizi in maniera inconsapevole, come uno spazio in cui far confluire una pluralità di accenti. E, in effetti, la lezione dell’avanguardia anglo-americana corroborata dalla lettura di Eliot, Pound, Yeats, Cummings, Ginsberg, Ferlinghetti, una lettura ‘mentale’ – piuttosto somigliante a un mantra recitato sottovoce – nel corso della quale passavo continuamente dall’inglese all’italiano e viceversa, produceva in me uno sconfinamento tra lingue che inevitabilmente ricadeva nel mio esercizio narrativo. Questa esplorazione soprattutto ritmica delle parole gettava i semi di una movimentata polifonia nell’italiano, che ha cominciato a rivelarsi tuttavia con maggior chiarezza, e forse con più interessanti esiti per la mia ricerca, solo dopo l’avvicinamento al tedesco. I sonetti di Benjamin, le voci dell’espressionismo, in particolare lo studio del verso heymiano, la prosa di Robert Musil, infine le tante incursioni (Heinle, Lichtenstein, Morgenstern, Rheiner) che alle mie pubblicazioni si sono accompagnate, hanno fatto da catalizzatori di un universo di segni e sonorità già assimilato dai poeti anglosassoni. Ultimo in ordine di tempo, e non meno importante, il lavoro su Catherine Pozzi, figura solitaria e ‘notturna’ della poesia francese di inizio Novecento, la cui scrittura straordinariamente evocativa si nutre non a caso dei modelli antichi e tedeschi.
Le considerazioni di Benjamin mi sono perciò particolarmente vicine dal momento che ho avuto modo di attuarle, per quel che vi sono riuscita, nel corso dei miei lavori. E a proposito dell’affiorare a più riprese nel saggio benjaminiano di una mistica legata alla parola di cui il traduttore, alla stessa stregua di un officiante, è chiamato a essere l’interprete, aggiungerei volentieri che ogni traduzione entra per così dire in una sfera sacra, in quanto riporta in vita il momentum creativo fissato nella propria opera dallo scrittore, quale somma di stati emotivi ‘salvati’ nell’anonimo fluire della storia.
C’è, negli autori di cui mi sono occupata, questo senso di deragliamento del tempo ed estinzione di se stessi, dovuto all’esperienza annientante della prima guerra mondiale. Il suicidio del giovanissimo Heinle che alimenta il singolare impegno dell’amico Benjamin a comporre versi per continuare un dialogo interrotto da un gesto tanto improvviso e inaudito, fino all’altrettanto tragico epilogo con cui si chiuderà l’esistenza del filosofo tedesco, racconta di due artisti letteralmente ‘strappati’ alle loro vite dalla drammatica progressione degli eventi. Come ebbe a scrivere Joseph Roth al giornalista italiano Enrico Rocca «Io mi riconosco nella comunità mondiale di tutti i partecipanti alla guerra, nella generazione dei decimati, dei reduci impotenti e dei morti» (lettera datata 6 maggio 1930).
Attraverso queste voci ho potuto anche approfondire la pesante mutilazione inflitta dalla guerra alle collettività coinvolte. Perché il trauma della violenza e della morte non si ferma affatto alle trincee né finisce con un accordo di pace ma continua a deflagrare per anni in un tessuto sociale angosciato e indebolito dai lutti, dal senso schiacciante di una precarietà della quale, dopo il battesimo del fuoco al fronte, sembra impossibile liberarsi. In una simile terra devastata accade così che vengano a mancare perfino i presupposti del racconto. Il filo che teneva insieme gli anelli della narrazione è ormai spezzato, nient’altro che frammenti alla deriva, schegge indecifrabili di una storia che si avvita su se stessa senza riuscire a descriversi.
Compagne di avventura e preziose collaboratrici, Angela Staude Terzani per la poesia di Heym ed Elisabeth Krammer per gli ‘alfabeti’ musiliani mi hanno aiutata a portare alla superficie l’anima nascosta dei testi. Questo scambio sui problemi della lingua, sulla necessità di penetrare l’originale nelle sue più intime sfumature ha senz’altro arricchito il mio bagaglio di conoscenze e, come si diceva all’inizio, ha influito sul mio modo di scrivere. Dunque, per quella che è la mia formazione, posso certamente affermare che l’esercizio di tradurre si è rivelato essenziale al mio percorso artistico e culturale.

(Di Claudia Ciardi)

25 febbraio 2015

Intervista a Paolo Zignani


Paolo Zignani l’ho conosciuto nel 2013, girando in rete alla ricerca di siti e pagine affini con cui scambiare esperienze culturali. Il mio blog aveva aperto i battenti appena un anno prima ed era in una fase per così dire di assestamento della propria linea editoriale. Trovarmi davanti una persona di buon senso, pacata, animata da sincera passione per il proprio mestiere di giornalista, creò immediatamente le condizioni per riflettere sul mestiere di tradurre e l’idea di traduzione, prendendo le mosse da quel saggio immenso che è Die Aufgabe des Übersetzers (Il compito del traduttore) di Walter Benjamin. Gli sono molto grata per aver stimolato in me quella scrittura e averla poi ottimamente introdotta, ospitandola nel suo spazio. 
Paolo ha una conoscenza profonda del territorio in cui lavora e un occhio di riguardo a quanti sono stati messi in seria difficoltà dalla crisi economica, ma più in generale da quella che si potrebbe definire una pesante incuria sociale, frutto di molte dissennatezze, di cui l’economia è solo una delle tante parti in causa – certo rilevante ma non così centrale. Negli ultimi anni si è creata una pericolosa sponsorizzazione della crisi che ha secondo me esagerato i danni reali da essa derivanti. Laddove si sarebbero potute creare condizioni di maggior collaborazione, dove si sarebbero potute reperire forze e energie per limitare i danni e forse avviare nuove iniziative per il recupero di persone e luoghi, ci si è abbandonati invece a una rassegnazione, in molti casi cialtrona e furbesca. Troppo in fretta si è radicata l’abitudine di dire: «C’è crisi, non possiamo venire incontro alle vostre richieste». Questa dinamica è molto pericolosa, in quanto estremamente mistificatoria. Nel caso della generazione cosiddetta “entrante”, i più giovani per intendersi, ha prodotto e sta producendo dei danni colossali. Il patto generazionale, rotto per paura e biechi egoismi, con eccezioni troppo rade per invertire la tendenza, ci ha oltremodo indebolito. Se le competenze, in ogni ambito della società, non passano dai più anziani ai più giovani, se non vi è volontà vera di insegnare, di coinvolgere, di seguire, di creare una massa critica alla quale i singoli contribuiscano ognuno per le proprie capacità, l’impoverimento generalizzato sarà prima di tutto un fatto culturale, indipendente dalla crisi economica. E questo, nel sistema dello slogan, del chi si ferma è perduto, dell’essere duri e puri anche quando il tetto della casa ti frana addosso, sta già avvenendo.
In una delle numerose lettere che ci siamo scritti Zignani si esprimeva così: «Slogan, mistificazioni, falsità e depistaggi sono utilizzati in modo pesante e insopportabile. Non ho mai sentito tanto forte il bisogno di chiarezza, coerenza e informazione come in questi anni così difficili e sofferti da troppe persone. Per molti la vita quotidiana è drammatica, per fragilità economica e situazioni ambientali dolorose, solitudine, emarginazione, incertezza, precariato: manca però secondo me la consapevolezza di un disegno complessivo che metta le persone in condizione di sentirsi efficaci.».
Invito a visitare il suo blog «Quaderni corsari», titolo dal sapore pasoliniano che ben sintetizza le difficoltà e le contraddizioni vissute ogni giorno, nel confronto sempre più teso e complesso tra città e periferie, tra centro e margini, tra rappresentati e dimenticati, tra politiche fatte sul territorio e politiche di palazzo. Per questo le problematiche raccontate da Paolo Zignani escono dalla loro appartenenza geografica, divenendo una fotografia di tutto il paese, e in generale di una globalizzazione sempre più lontana dall’essere umano.




Non sono un’entusiasta dei paralleli storici perché credo portino con sé il rischio di forzature e banalizzazioni degli eventi oggetto di paragone. Nell’attuale crisi economica c’è chi ha voluto scorgere delle affinità con la grande crisi del ’29 e, nel caso specifico della Grecia, si ragiona sugli aspetti comuni con la situazione tedesca nel periodo di Weimar.
Inoltre con il 2014 sono entrate nel vivo le commemorazioni legate al centenario della prima guerra mondiale. Anche in questo caso i paralleli con i conflitti e i problemi che riempiono la nostra attualità sono fioccati da ogni parte, a costo di non poche esagerazioni. Volendo valutare le effettive similitudini dei tempi e certi eccessi fatalisti cosa ti sentiresti di dire?

Le forme di stato e di governo democratiche esistono perché la cultura faccia accettare le forme economiche come necessità indiscutibili. I mass media e i giornalisti esistono per questo: far capire che la guerra è vita e la miseria è disgrazia. In Grecia però ci sono cassiere di supermercato che non fanno pagare la spesa a chi non ha soldi e casellanti che non fanno pagare il ticket dell’autostrada. In Italia ci sono insegnanti in pensione che fanno lezione gratis ai figli degli immigrati o delle famiglie italiane in difficoltà. La prima guerra mondiale è stata una scelta autoindotta da poteri economici e governi, che poi hanno dovuto giustificarsi con i “quaderni colorati” per dire ai cittadini che ogni Stato è intervenuto per legittima difesa. Gli eserciti sono stati costretti a combattere, i popoli non volevano la guerra. Nella Repubblica di Weimar certa propaganda puntava sulle convinzioni di un popolo legato alla memoria dello Stato tedesco forte, imperiale e umiliato nella Grande Guerra. Oggi i cittadini possono autorganizzarsi per iniziative sociali o imprenditoriali senza bisogno di affidarsi a grandi leader. Per questo ho fiducia. Stato e forze economiche nulla possono senza lavoratori e cittadini che dispongono dell’infinita forza creativa della libertà.

Dalle più recenti analisi economiche emergerebbe una ripresa, seppur fragile, ma con dati di disoccupazione nell’Eurozona ancora allarmanti. Inevitabile pensare al fatto che in un contesto del genere il divario sociale interno non possa che crescere. In base alla tua esperienza sul territorio come la vedi?

Conosco giovani laureati italiani che per anni e anni guadagnano poche centinaia di euro al mese, un terzo delle pensioni da 1.400 euro dei loro genitori, e madri di famiglia immigrate costrette a orari di lavoro stressanti per 500 euro al mese, mentre non hanno soldi per pagare farmaci e alimenti ai loro figli malati d’asma. Faccio interviste in case popolari fatiscenti dove le bollette sono spropositate rispetto ai redditi. Lo stato sociale dipende dai bilanci pubblici, ma i prezzi di materie prime come il petrolio sono imposti dal venditore, come i Paesi dell’Opec, e quindi dalla politica energetica statunitense. La ripresina, in questo capitalismo assetato di crisi strutturali e riforme incessanti, sarà accompagnata dall’ennesimo rinnovamento delle aziende italiane che vogliono maggiore redditività e forza nei rapporti con la concorrenza europea: i “garantiti” saranno sempre meno. Un bilancio statale migliore dipenderà, visti gli orientamenti, da una spesa selettiva e classista per il welfare, la sanità e la scuola. Allora chi può, chi ha energia morale e carattere, tempo, passione, partecipi a iniziative come quelle delle brigate di solidarietà. Crediamo nello stato sociale? Facciamolo come possiamo tra di noi: le istituzioni oggi hanno scarso potere e non abbiamo grandi statisti. Non provo sfiducia nella politica italiana: la vedo debole. Chi può osare strategie controcorrente sono i cittadini.

A meno di tre ore di aereo dall’Italia sono in corso due conflitti devastanti: Siria e Ucraina. La barbarie dell’Isis si intensifica con una velocità spaventosa. L’Ucraina è spaccata in due e vittima dei troppi tentennamenti dell’Europa che in politica estera, come in altri casi, fatica così a trovare una linea unitaria e, dunque, a dare continuità al proprio agire. Come valuti il ruolo dell’UE in entrambe le situazioni?

L’Europa è influente solo sul lungo termine, non ha gli strumenti per imporsi. Bismarck quando non faceva guerre [le guerre bismarckiane furono tre, dal 1864 al 1871, con cui venne realizzata l’unificazione della Germania] siglava trattati, sempre in nome di uno Stato nazionale molto forte e a servizio della sua espansione economica. La politica estera tradizionalmente si è fatta avendo un esercito alle spalle, tuttavia si può cambiare.
Quel che possiamo fare è partecipare a iniziative come la proposta di legge per una difesa non violenta. Pare utopia, sì, però è pragmatico attivare azioni di pace in zone di tensione per prevenire guerre e conflitti. Non è più tempo di protestare e basta, si può entrare in azione ciascuno come può. Possiamo discettare sull’estremismo islamico e lo sfruttamento abnorme dell’Africa nei secoli. Meglio, nel frattempo, sostenere progetti culturali ed economici nei territori di crisi. La Russia poi non va demonizzata e isolata. Meglio fare affari e scambi culturali. Un po’ di pragmatismo smonterebbe decenni di contrapposizioni ormai inammissibili.

Prendo spunto da una riflessione di Roberto Cotroneo che in un suo recente contributo per il «Corriere della Sera» ragiona sulla percezione dell’immagine nella contemporaneità: «La nitidezza è un’invenzione culturale non un traguardo tecnologico. Non solo i sogni più intensi non sono nitidi, e non lo sono i film più poetici, e non lo sono i fotografi geniali. Ma la nitidezza viene scambiata il più delle volte come realtà e il dettaglio come verità».
Mi pare un affondo interessante sulla mistificazione in cui ci dibattiamo. Vorrei un tuo parere.

La nitidezza dell’immagine non può sostituire la visione dell’essenza. Solitamente la conoscenza viene insidiata e minacciata da operazioni di conquista dell’ovvio. Contro l’oggettività della produzione tecnologica artificiosa, che seduce e sottomette, e contro la datità del banale che s’insinua passando inosservata, vale ancora l’alternativa dell’epoché [in greco antico: “sospensione”, in ambito filosofico “sospensione del giudizio”] fenomenologica. Mettiamolo tra parentesi questo mondo fatto di informazioni ossessive, propaganda martellante e nebulose di banalità. Lo sguardo che osserva, il soggetto che descrive con accuratezza, l’attenzione mirata alla conoscenza sono indispensabili: la fenomenologia presuppone una libertà che produce sapere partecipato, non intuizioni ermeneutiche individuali, geniali e isolate. Si coglie nelle parole di Cotroneo un riferimento alla poetica del Leopardi, il quale infatti era un genio della poesia che suggerisce, tratteggia ed evoca ma anche un razionalista demistificatore, un intellettuale che demoliva le illusioni costruite da borghesi e gazzettieri due secoli or sono, un pensatore duro, aspro, libero e aggressivo, non un venditore di prodotti commerciali: non lavorava su commissione per il mercato.

Mi collego alla domanda precedente per qualche considerazione finale sul potere dello slogan nella nostra cultura. In qualità di addetto all’informazione trovi condivisibile questo pensiero? E, in caso, come pensi si possa invertire tale tendenza?

Voglio dare una risposta ampia sull’uso di slogan nella politica in particolare, in quanto altri ambiti di conversazione e comunicazione, come l’intrattenimento, vi sono connessi e ne risentono, anche se drammatizzano, commentano o fanno umorismo su fatti di cronaca di cui la politica indirettamente si occupa perché legifera. La soggettività politica vuole autolegittimarsi tramite un consenso generato artificialmente dai mass media, usando tecniche di produzione di realtà fittizie: un vizio causato dalla cittadinanza debole e minimalista di questi tempi e dalla politica dotata di procedure fragili e priva della volontà di dare un indirizzo all’economia e ai comportamenti sociali, bensì protesa a rispettare normative e obiettivi di bilancio con scadenze stringenti. E dire che il primo mass media è la persona che parla e comunica quotidianamente con gli altri. Il corpo proprio, il comportamento, la parola sono strumenti di comunicazione, e in eventi come un corteo dimostrano la loro efficacia: il consenso diretto è però oggi quanto mai non solo mediato bensì tendenzialmente sostituito con tecniche mirate. Slogan, parole guida e immagini suggestive vengono usate a questo scopo, imposte dall’esterno del discorso che invece va sviluppato corrispettivamente alle esperienze vissute. Al giornalista viene così offerta una cornice di senso alla quale si chiede di adeguarsi introducendo varianti irrilevanti perché collabori a una produzione di consenso mai legittimata. Politici e amministratori, di governo o opposizione, costruiscono così un racconto fondato su un sapere comune, radicato negli insegnamenti degli educatori e nelle convinzioni più scontate e indiscusse (una Lebenswelt culturale ma spesso inconsapevolmente sedimentatasi) e inseriscono nel linguaggio regolato da convinzioni indiscusse alcune parole guida che instillano paura o speranza, cioè sentimenti così forti che, una volta evocati, possono rendere controllabile l’opinione pubblica. In questo modo sui mass media, grazie alla debolezza giuridica e contrattuale del giornalismo, passano per legittime strategie politiche mai approvate se non da uomini di vertice. La politica stessa è uno strumento di costruzione del consenso e della legittimità, ed è utilizzata palesemente dalle forze economiche prevalenti. Il mondo arabo e islamico di solito nemmeno arriva a essere conosciuto e compreso, sostituito e sequestrato da etichette inaccettabili e strumentalizzazioni sfacciate. Quindi non resta che raccontare le storie e esperienze degli immigrati quando i temi d’attualità lo rendono utile, connettendo vicende ed eventi inseriti in settori che pur restando distinti devono far parte di un disegno (welfare, economia, ambiente, politica, religione). I cittadini italiani, ogni giorno, d’altra parte hanno a che fare con islamici, persone non religiose di lingua araba, lavoratori africani: l’integrazione quando avviene è spontanea, non imposta; poi diventa storia.

(Intervista di Claudia Ciardi)


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