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15 dicembre 2015

Peter Fröberg Idling - Potere e verità





Il corposo saggio di Peter Fröberg Idling è una delle opere letterarie che hanno ricevuto maggiori attenzioni in Svezia negli ultimi anni. Uscito nel 2006, quando l’autore allora trentaquattrenne si è imposto al pubblico come giovane esperto di storia e cultura cambogiana, l’anno successivo viene votato dai lettori svedesi come miglior libro. È stato quindi stampato in Italia nel 2010 dalla casa editrice Iperborea, con il contributo per la traduzione dello Swedish Art Council. Siamo davanti a uno dei più dettagliati resoconti sulla storia contemporanea del sud-est asiatico. Mi sia concesso di dire, a titolo di premessa, che l’impresa di Idling è degna di un paese nordico che non ha verso la letteratura, e in generale la ricerca, il rapporto ambiguo, spesso nutrito di una certa freddezza, che hanno i paesi del sud europeo. Laddove il merito si trasforma concretamente in spinta creativa e realizzazione personale, anche e soprattutto nella sfera del lavoro, al di qua delle Alpi finisce per essere percepito come un appesantimento della persona, impantanandosi e in parecchi casi perdendosi. Tale riflessione è qualcosa di organico al processo che ha accompagnato la mia scoperta della prosa di Idling, e che forse lui stesso tende a suggerire ai suoi lettori, insieme al resto, più specificamente legato ai contenuti storici e antropologici di cui si occupa. Questo giovane intellettuale, infatti, ha avvicinato numerosi protagonisti tra cui diversi sopravvissuti alle persecuzioni di regime e alcuni importanti ex esponenti della dirigenza khmer, oltre a essersi spinto in ogni angolo della Cambogia, un paese le cui infrastrutture sono ancora deficitarie, causa i danni subiti durante i bombardamenti americani, nel corso della guerra civile, sotto il regime di Pol Pot che propugnò il ritorno a un primitivismo agricolo, e poi ancora con la liberazione vietnamita. Un lavoro monumentale, verrebbe da dire, incentrato sul valore della testimonianza, che lo scrittore cerca di riabilitare a pieno, denunciando la leggerezza con cui una buona parte dell’intellighenzia l’aveva liquidata nel corso della barbarie. Inevitabile perciò che la nostra mente corra ai lati pratici del narrare di Idling, in che modo è riuscito a portare in fondo la sua inchiesta, quali difficoltà ha incontrato e su quali aiuti ha invece potuto contare. A fronte di una vicenda tanto complessa e scottante come il potere dei khmer che si impose in Cambogia dal ’75 al ’79, non sono aspetti secondari, e insisto, non considerarli quanto dovremmo è indicativo di un tirare frettolosamente a diritto davanti alle necessità del mestiere letterario.
E proprio sulla letterarietà dell’opera, prima ancora di dedicarmi al fatto storico, desidero accennare qualcosa. Né romanzo né saggio tout court ma neanche completamente reportage. Il racconto procede secondo le movenze di un diario peraltro incompiuto. C’è un po’ del miglior Dagerman redattore delle cronache dalle macerie tedesche nel dopoguerra. Anche qui uno sguardo che si aggira nello spazio in cerca di tracce scomparse, impressioni, atmosfere che riempiano il vuoto incombente su una delle vicende più fosche del Novecento. Forse è il senso di devastazione senza i tratti apparenti della devastazione a fare della Cambogia l’incubo surreale che continua a perseguitarci come un rumore di fondo. Troppe lacune ne infittiscono il mistero, dilatano i dubbi, sviano l’osservatore. E in questo risiede il mio personale interesse verso un argomento altrimenti lontano da quanti di solito attirano le mie riflessioni.
Idling annoda la trama intorno a un nucleo essenziale, la spedizione compiuta nella Kampuchea Democratica da quattro connazionali nell’agosto del ’78, con lo scopo di descrivere in patria e al resto dell’occidente i benefici della rivoluzione. Dalla caduta della capitale Phnom Penh il 17 aprile del ’75 la Cambogia, ribattezzata Kampuchea secondo l’antica parola khmer, aveva infatti tagliato ogni comunicazione col mondo esterno. Vietate le visite straniere, chiuso l’aeroporto con l’unica eccezione di un volo da e per la Cina una volta ogni quindici giorni, niente giornali o bollettini radio. Un black out che non lasciava intendere nulla. Il sospetto non avrebbe osato spingersi tanto a fondo e sostenere lo sguardo della vera tragedia che si stava consumando. Poi uscirono i primi racconti di sopravvissuti cambogiani, in fuga dai carcerieri khmer. Diversi intellettuali di sinistra, solidali con la rivoluzione, minimizzarono la portata delle testimonianze, mettendo in guardia l’opinione pubblica circa la loro autenticità. Il dibattito si infiammò. A posteriori è interessante vedere come l’ideologia riuscì a travalicare il buon senso di troppi. Idling dedica non a caso molte pagine alla questione. Potrebbe sembrare semplicissimo, un moto riflesso, accordare fiducia a un profugo uscito da un paese lager, e invece nulla di più complicato. Tra i detrattori scopriamo anche Noam Chomsky, voce dissidente e impegnata, tuttora attivo sulla scena del dibattito interno americano. Ma pure dopo, quando emerse la brutale realtà del genocidio, ci fu chi volle discolparsi dagli errori di valutazione commessi. Sì, il dramma era ormai cosa nota, però sui numeri non si poteva fare affidamento, insomma la portata della vicenda era soggetta ancora a non poche oscillazioni. Come se ciò dovesse influire sul giudizio morale circa i risvolti della politica khmer.
Lo scrittore è molto abile nel salvare ogni sfumatura caratteriale dei suoi interlocutori e anche il particolare all’apparenza più contraddittorio diviene così elemento di rilievo per una ricognizione complessiva. La Cambogia è il frutto di un contesto, uno scenario storico che vede fortemente destabilizzata quella fetta del continente asiatico. La corruzione interna dilagante, i problemi economici e infine i bombardamenti decisi a tavolino da Nixon e Kissinger, scavalcando il Congresso, per uscire dalla palude vietnamita. L’ascesa dei khmer rossi va collocata entro un tale degrado, in una fase convulsa che portò alla guerra civile prima e alla presa del potere da parte dei comunisti di Pol Pot, alias Saloth Sar, subito dopo. Avviate le collettivizzazioni, sgombrate le città, simbolo del parassitismo e della corruttela dilagante nelle classi più agiate, dal paese non filtrò più nessuna notizia. Solo qualche rapporto ufficiale, proveniente da Phnom Penh, e null’altro. Materiale che affluiva, ad esempio, nella sede della rappresentanza diplomatica della Kampuchea a Berlino Est e che veniva puntualmente rimaneggiato dai suoi impiegati, per renderli più appetibili, più “all’occidentale”. Uno di questi uomini, Someth, sposato alla svedese Marita Wikander, alla chiusura della sede venne richiamato in Cambogia; da quel momento se ne persero le tracce. La Wikander prese poi parte alla spedizione svedese col segreto proposito di rimediare informazioni sul marito, senza riuscirvi. È probabile che quando avvenne il viaggio, fosse già morto, una delle tante vittime dell’S-21, la sede del braccio armato dell’Organizzazione, oggi museo della memoria, dove la polizia segreta seviziava e uccideva i prigionieri. Tra questi si contano anche due cittadini americani, due ragazzi che si erano avventurati sul Mekong in cerca di marijuana, anche loro inghiottiti nel nulla. In seguito si seppe che vennero arrestati e portati all’S-21 con l’accusa di spionaggio.
Dei quattro membri della delegazione svedese, uno è un nome di rilievo. Si tratta di Jan Myrdal, uomo allora sui cinquant’anni, figlio dei premi Nobel Alva e Gunnar Myrdal. Giornalista, intellettuale di sinistra, il suo resoconto cadde come un macigno nell’opinione pubblica del suo paese. Tutto in Cambogia procedeva al meglio, i khmer avevano attuato un programma efficace per riparare i danni del colonialismo e svincolarsi in via definitiva dalle insidie imperialiste dei loro vicini. Su questo ragionamento poggia la domanda che scuote dall’inizio alla fine il libro di Idling: possibile che non si siano accorti di niente, che i quattro ospiti abbiano coperto più di un migliaio di chilometri attraverso le campagne cambogiane e che nulla del disastro sia trapelato? Malafede, ignoranza colossale o incredibile perizia dei funzionari comunisti? Myrdal aveva l’aggravante della maturità, rispetto ai suoi accompagnatori trentenni. Di sicuro poteva vantare una preparazione più solida e tuttavia nessuna incertezza ha scalfito le sue tesi.
Si coglie nella cosciente irresolutezza di tali interrogativi un andamento alla Rashmon, secondo cui più si corre dietro alla verità più questa si nega, mostrando mille volti, tanti quanti sono coloro che cercano di dare la loro versione dei fatti. Il fascino di una simile lettura è quasi tutto riconducibile al tentativo di esplorare le zone meno note della mente umana. Al di là del contenuto storico, ammetto di essermi avvicinata al libro principalmente per capire come e se sarebbero arrivate certe risposte. Diciamo pure che l’interesse psicologico ha di gran lunga sovrastato gli altri. L’esito, lo ribadisco, vale lo sforzo di addentrarsi in questo robusto volume. Il fatto che le soluzioni che aspettiamo sfuggano di continuo, mostra per contrasto la sconvolgente ossessione del meccanismo: quando ci si crede lucidi, si è invece spesso distanti dalla realtà. Nel caso cambogiano, inoltre, l’attuarsi della violenza assume un che di distaccato, è un qualcosa che accade certamente per programma politico ma allo stesso tempo si ha la sensazione che buona parte di quanto viene eseguito sia l’estremo effetto di un qualcosa che è fuori dal controllo e dalla volontà dei singoli. Un’agghiacciante computisteria di regime. Impossibile non riandare alla banalità del male della Arendt.
C’è anche un altro lato selvaggio nella ricerca di Idling, che a mio parere ci riguarda da vicino. E ruota intorno alla raccolta di informazioni sul conto di qualcuno. I khmer, questi strani esseri vestiti di nero – anche qui il parallelo con altri estremismi sembra naturale, il nazismo, l’Isis –  venuti dalla giungla, che pure da ragazzi avevano avuto il singolare privilegio di studiare a Parigi – in un paese dove appena duecentocinquanta cambogiani nell’arco di mezzo secolo avevano fruito di quella possibilità – misero in campo uno spionaggio capillare mischiato a forme di superstizione e altri aspetti irrazionali: se un badile si rompeva o l’acqua si scopriva contaminata, era opera della controrivoluzione e il presunto responsabile veniva giustiziato. Del resto, controllare qualcuno implica di per sé un atteggiamento ostile, e diciamolo tradisce un eccesso di difesa: ti controllo perché ho un sospetto o solo perché non mi piaci e voglio crearti dei problemi. Non è raro che un simile atteggiamento sconfini nella paranoia e che l’ingranaggio finisca presto o tardi per mettere in mezzo degli innocenti. Nei regimi succede con esasperata crudeltà. Ma attenzione, siamo noi al riparo da fenomeni di questo tipo? Magari dai più estremi. In ogni modo si percepisce tra le righe del libro un invito a riflettere. Accodarsi a qualcosa che somiglia a un indizio, solo perché esiste nella nostra testa, millantare, confondere, illudersi di ricavare un’idea valida da certi angoli sbrecciati delle vite altrui, perché non si riescono ad avere informazioni di prima mano, è chiaramente un modo di danneggiare e screditare gratuitamente qualcuno. Cose che finiscono per avere ripercussioni sulla società nel suo complesso. In Cambogia, e altrove, le vittime si sono contate a milioni. Nella Babele d’occidente, in preda a crisi d’ansia e rutilanti esternazioni pubblicate sui social network, il pericolo si mostra meno grave, ma non per questo va ignorato. 
Passiamo tre, quattro volte al giorno davanti a un barbone e non lasciamo un’elemosina ma la stessa foto di un poveraccio postata sui magici davanzali dei nostri profili può riscuotere migliaia di consensi. Quando il lavoro di Idling è uscito le cose non avevano ancora preso questa piega, eppure molti dei quesiti che ci poniamo adesso, nelle sue pagine sono affrontati con sorprendente lungimiranza. 

(Di Claudia Ciardi)


Peter Fröberg Idling,
traduzione di Laura Cangemi,
pp. 344
Iperborea, 2010

17 luglio 2015

Franco Cardini - L'ipocrisia dell'occidente



Franco Cardini,
Lipocrisia delloccidente.
Il califfo, il terrore e la storia,
Editori Laterza, 2015


Il saggio di Franco Cardini, di cui qui ci occupiamo brevemente, è uscito lo scorso aprile. Ribadirne la data di stampa è importante, perché l’autore tenta l’analisi di un fronte assai movimentato, che va dai conflitti che scuotono il Medio e Vicino Oriente alla posizione alquanto scivolosa, quando non apertamente contraddittoria, dei paesi occidentali. Dunque, trattandosi di una materia che più di altre è soggetta a continua mutazione, si rende ancor più necessario circoscriverne con precisione i limiti temporali cui ci si riferisce.
L’autore apre con l’attentato a «Charlie Hebdo» per poi intraprendere un cammino a ritroso, dall’invalicabile linea rossa dalla quale Obama si scagliò contro Assad nelle ore delle concitate notizie sull’uso di armi chimiche ai danni di civili siriani, alla nuova intifada tra israeliani e palestinesi, passando per l’escalation del califfato. Questo flashback ad alta densità si conclude con il violentissimo attacco talebano alla scuola gestita da militari a Peshawar: su 145 morti, 132 erano giovanissimi studenti dell’istituto. Il sanguinoso episodio sarebbe stato una ritorsione contro l’appoggio del premier pachistano Nawaz Sharif alle offensive con i droni statunitensi. Un attentato che ci riporta alla mente la barbarie dei 1200 piccoli ostaggi dall’1 al 3 settembre 2004 di un commando di fanatici nella scuola Numero 1 a Beslan, dove a morire furono centinaia di persone tra cui 186 bambini. Anche nel caso della strage in Ossezia, per quanto si debba andar cauti col prospettare delle sovrapposizioni, l’obiettivo dei sequestratori non era limitato all’indipendenza cecena ma si inseriva nel progetto fondativo di un emirato islamico nel nord del Caucaso.    
Nell’ultimo decennio la matassa si è drammaticamente ingarbugliata, trascinando con sé molti interrogativi circa la pesante compromissione delle lobbies occidentali che, ipotizza Cardini, pescano nel torbido al punto da servirsi di frange dell’islamismo radicale armato per destabilizzare a proprio vantaggio un’area, quella mediorientale per l’appunto, di notevole interesse sotto il profilo economico e geopolitico.
Districarsi tra gli attori in campo e le rispettive posizioni non è semplice, soprattutto perché, come lo storico si premura di far notare a chi legge, ciò che all’apparenza risulta contrapposto, a guardare da vicino, condivide interessi col suo presunto avversario. Non scendo troppo nel dettaglio, in quanto non sarebbe possibile in poche frasi; del resto Cardini provvede a farlo magistralmente nel libro, riuscendo in circa centocinquanta pagine a toccare i punti nevralgici della questione, comparando quel che avviene adesso con ciò che fu il potere califfale nel Medioevo e ancora nel corso della restaurazione ottomana ad opera di Selim I, durante il ‘500.
I rapporti tra mondo arabo e Europa di allora si scoprono complessi, talvolta tesi, ma continui e estremamente proficui. Cardini riporta le cose nell’alveo del tempo, e mostra come tutto quello che ha riempito in maniera anche sanguinosa il nostro oggi, si collochi al di fuori dei sentieri tracciati secoli fa. Da una parte vi è un’enorme ignoranza storica di chi pretende di raccontare le dinamiche in corso – l’autore è molto severo verso certa propaganda mediatica – dall’altra c’è la vulnerabilità di chi a quella propaganda è esposto, spesso senza avere adeguati strumenti per giudicare, che saremmo noi. Infine, c’è un elemento che sgombra il campo da molta retorica sul conflitto di civiltà, ed è il problema della sottoproletarizzazione delle società contemporanee, o disagio sociale che dir si voglia, al quale Cardini attribuisce in larga misura i problemi che ci troviamo di fronte. Dal momento che la ricchezza va concentrandosi in una élite sempre più ristretta, e finché accettiamo passivamente questa tendenza, per paura o per una sorta di rassegnata incapacità a intervenire, non potremo evitare che la progressiva marginalità vissuta da centinaia di milioni di esseri umani non sfoci in fenomeni violenti. L’autore insiste più volte sul dato incontrovertibile ma forse non assimilato come tale dal cittadino medio d’occidente, che il mondo scosso dalla maggiore conflittualità è anche quello in cui più estesamente sussiste, peraltro aggravandosi, il divario riguardante la distribuzione di risorse, ossia l’Africa e l’Asia orientale. C’è anzi, denuncia Cardini, un insopportabile banalizzante manicheismo che colloca alle nostre latitudini le patrie di ogni moderna libertà, mentre a oriente le matrici di un pericoloso regresso. È un po’ la storia del parente ricco che accusa il parente povero di essere un inguaribile fannullone, ma che sa bene come la propria fortuna si regge sulla truffa al suo consanguineo.
E per suffragare tale manicheismo che ancora con malriposta acredine filtra nei discorsi di certa intellighenzia nostrana, vorrei tornare un attimo ai fatti della Grecia. A questo paese si possono rimproverare a volontà la disinvoltura e le corruttele nella gestione della cosa pubblica, però è uno sproposito buttare tutto il discredito da una parte e farci paladini – nel caso di noi italiani men che mai – di un modello che sappiamo contenere fin troppe ingiustizie. Nella giornata del referendum, il commento di un giornalista di una nota testata nazionale mi ha lasciata di stucco: «È la lotta di chi non sa l’inglese, non viaggia e non ha nulla da perdere, contro gli altri». Il sessantuno per cento dell’elettorato che si era pronunciato per il “no” alle ricette di austerità, si appiattiva nell’informe massa dei diseredati, persi al sistema liberista. Ci sarebbe molto da discutere attorno alla frase che ho citato, mi limito a dire che è desolatamente volgare perché dipinge un mondo in scala insopportabilmente ridotta, e si libera del disagio altrui sfiorando quasi l’autocompiacimento.
Per tornare alla prefazione di Cardini, che affronta il problema del crescente divario tra ricchi e poveri in modo del tutto diverso, senza ipertesti che con troppa leggerezza scivolano nel luogo comune, ecco ciò che dice di certa faziosità mediatica: «la vulgata continua a trionfare, bella semplice pulita. E maniacale, repellente nel suo manicheismo che si spera sia almeno in malafede, perché altrimenti sarebbe troppo idiota». Me lo auguro anch’io, ma che le cose stiano davvero così non mi consola per nulla. Anzi, la malafede per questioni di carriera su cui si illudono ancora certi giovanissimi, mi crea una ripulsa anche peggiore rispetto all’opinione dell’attempato giornalista di cui sopra. Vi è nel libro in questione una chiosa illuminante, presa in prestito da Bertolt Brecht: «Quando marciate contro il nemico, state attenti che il nemico non marci alla vostra testa».
Leggetelo questo saggio di Cardini, perché vi aiuta a ragionare, nella prospettiva storica, sui dilemmi che ci esortano a prendere posizione e che stanno mettendo alla prova la tenuta stessa dell’unione europea. 
Si può essere in disaccordo su alcuni punti, su certe proposte e soluzioni – nel mio caso difendo le “primavere arabe” come autentica volontà di rovesciamento di assetti che ormai non erano più percepiti come rappresentativi, né credo all’opportunità di interventi di terra per uscire dal pantano-Isis; non riesco neppure a immaginare come potrebbero essere concepiti perché abbiano una qualche efficacia, se non per il sostegno indiretto che si può dare ai curdi. Ma al di là di queste e altre riflessioni, Cardini ha il merito di tenere i fatti a distanza dalle campane dell’allarmismo o di retoriche ormai scadute. Ripercorre gli eventi e li puntella con le solide e rassicuranti impalcature della storia. Un buon diario di bordo, con molte osservazioni utili e sagge, in un periodo di rischiosa navigazione a vista.

(Di Claudia Ciardi)
      

25 febbraio 2015

Intervista a Paolo Zignani


Paolo Zignani l’ho conosciuto nel 2013, girando in rete alla ricerca di siti e pagine affini con cui scambiare esperienze culturali. Il mio blog aveva aperto i battenti appena un anno prima ed era in una fase per così dire di assestamento della propria linea editoriale. Trovarmi davanti una persona di buon senso, pacata, animata da sincera passione per il proprio mestiere di giornalista, creò immediatamente le condizioni per riflettere sul mestiere di tradurre e l’idea di traduzione, prendendo le mosse da quel saggio immenso che è Die Aufgabe des Übersetzers (Il compito del traduttore) di Walter Benjamin. Gli sono molto grata per aver stimolato in me quella scrittura e averla poi ottimamente introdotta, ospitandola nel suo spazio. 
Paolo ha una conoscenza profonda del territorio in cui lavora e un occhio di riguardo a quanti sono stati messi in seria difficoltà dalla crisi economica, ma più in generale da quella che si potrebbe definire una pesante incuria sociale, frutto di molte dissennatezze, di cui l’economia è solo una delle tante parti in causa – certo rilevante ma non così centrale. Negli ultimi anni si è creata una pericolosa sponsorizzazione della crisi che ha secondo me esagerato i danni reali da essa derivanti. Laddove si sarebbero potute creare condizioni di maggior collaborazione, dove si sarebbero potute reperire forze e energie per limitare i danni e forse avviare nuove iniziative per il recupero di persone e luoghi, ci si è abbandonati invece a una rassegnazione, in molti casi cialtrona e furbesca. Troppo in fretta si è radicata l’abitudine di dire: «C’è crisi, non possiamo venire incontro alle vostre richieste». Questa dinamica è molto pericolosa, in quanto estremamente mistificatoria. Nel caso della generazione cosiddetta “entrante”, i più giovani per intendersi, ha prodotto e sta producendo dei danni colossali. Il patto generazionale, rotto per paura e biechi egoismi, con eccezioni troppo rade per invertire la tendenza, ci ha oltremodo indebolito. Se le competenze, in ogni ambito della società, non passano dai più anziani ai più giovani, se non vi è volontà vera di insegnare, di coinvolgere, di seguire, di creare una massa critica alla quale i singoli contribuiscano ognuno per le proprie capacità, l’impoverimento generalizzato sarà prima di tutto un fatto culturale, indipendente dalla crisi economica. E questo, nel sistema dello slogan, del chi si ferma è perduto, dell’essere duri e puri anche quando il tetto della casa ti frana addosso, sta già avvenendo.
In una delle numerose lettere che ci siamo scritti Zignani si esprimeva così: «Slogan, mistificazioni, falsità e depistaggi sono utilizzati in modo pesante e insopportabile. Non ho mai sentito tanto forte il bisogno di chiarezza, coerenza e informazione come in questi anni così difficili e sofferti da troppe persone. Per molti la vita quotidiana è drammatica, per fragilità economica e situazioni ambientali dolorose, solitudine, emarginazione, incertezza, precariato: manca però secondo me la consapevolezza di un disegno complessivo che metta le persone in condizione di sentirsi efficaci.».
Invito a visitare il suo blog «Quaderni corsari», titolo dal sapore pasoliniano che ben sintetizza le difficoltà e le contraddizioni vissute ogni giorno, nel confronto sempre più teso e complesso tra città e periferie, tra centro e margini, tra rappresentati e dimenticati, tra politiche fatte sul territorio e politiche di palazzo. Per questo le problematiche raccontate da Paolo Zignani escono dalla loro appartenenza geografica, divenendo una fotografia di tutto il paese, e in generale di una globalizzazione sempre più lontana dall’essere umano.




Non sono un’entusiasta dei paralleli storici perché credo portino con sé il rischio di forzature e banalizzazioni degli eventi oggetto di paragone. Nell’attuale crisi economica c’è chi ha voluto scorgere delle affinità con la grande crisi del ’29 e, nel caso specifico della Grecia, si ragiona sugli aspetti comuni con la situazione tedesca nel periodo di Weimar.
Inoltre con il 2014 sono entrate nel vivo le commemorazioni legate al centenario della prima guerra mondiale. Anche in questo caso i paralleli con i conflitti e i problemi che riempiono la nostra attualità sono fioccati da ogni parte, a costo di non poche esagerazioni. Volendo valutare le effettive similitudini dei tempi e certi eccessi fatalisti cosa ti sentiresti di dire?

Le forme di stato e di governo democratiche esistono perché la cultura faccia accettare le forme economiche come necessità indiscutibili. I mass media e i giornalisti esistono per questo: far capire che la guerra è vita e la miseria è disgrazia. In Grecia però ci sono cassiere di supermercato che non fanno pagare la spesa a chi non ha soldi e casellanti che non fanno pagare il ticket dell’autostrada. In Italia ci sono insegnanti in pensione che fanno lezione gratis ai figli degli immigrati o delle famiglie italiane in difficoltà. La prima guerra mondiale è stata una scelta autoindotta da poteri economici e governi, che poi hanno dovuto giustificarsi con i “quaderni colorati” per dire ai cittadini che ogni Stato è intervenuto per legittima difesa. Gli eserciti sono stati costretti a combattere, i popoli non volevano la guerra. Nella Repubblica di Weimar certa propaganda puntava sulle convinzioni di un popolo legato alla memoria dello Stato tedesco forte, imperiale e umiliato nella Grande Guerra. Oggi i cittadini possono autorganizzarsi per iniziative sociali o imprenditoriali senza bisogno di affidarsi a grandi leader. Per questo ho fiducia. Stato e forze economiche nulla possono senza lavoratori e cittadini che dispongono dell’infinita forza creativa della libertà.

Dalle più recenti analisi economiche emergerebbe una ripresa, seppur fragile, ma con dati di disoccupazione nell’Eurozona ancora allarmanti. Inevitabile pensare al fatto che in un contesto del genere il divario sociale interno non possa che crescere. In base alla tua esperienza sul territorio come la vedi?

Conosco giovani laureati italiani che per anni e anni guadagnano poche centinaia di euro al mese, un terzo delle pensioni da 1.400 euro dei loro genitori, e madri di famiglia immigrate costrette a orari di lavoro stressanti per 500 euro al mese, mentre non hanno soldi per pagare farmaci e alimenti ai loro figli malati d’asma. Faccio interviste in case popolari fatiscenti dove le bollette sono spropositate rispetto ai redditi. Lo stato sociale dipende dai bilanci pubblici, ma i prezzi di materie prime come il petrolio sono imposti dal venditore, come i Paesi dell’Opec, e quindi dalla politica energetica statunitense. La ripresina, in questo capitalismo assetato di crisi strutturali e riforme incessanti, sarà accompagnata dall’ennesimo rinnovamento delle aziende italiane che vogliono maggiore redditività e forza nei rapporti con la concorrenza europea: i “garantiti” saranno sempre meno. Un bilancio statale migliore dipenderà, visti gli orientamenti, da una spesa selettiva e classista per il welfare, la sanità e la scuola. Allora chi può, chi ha energia morale e carattere, tempo, passione, partecipi a iniziative come quelle delle brigate di solidarietà. Crediamo nello stato sociale? Facciamolo come possiamo tra di noi: le istituzioni oggi hanno scarso potere e non abbiamo grandi statisti. Non provo sfiducia nella politica italiana: la vedo debole. Chi può osare strategie controcorrente sono i cittadini.

A meno di tre ore di aereo dall’Italia sono in corso due conflitti devastanti: Siria e Ucraina. La barbarie dell’Isis si intensifica con una velocità spaventosa. L’Ucraina è spaccata in due e vittima dei troppi tentennamenti dell’Europa che in politica estera, come in altri casi, fatica così a trovare una linea unitaria e, dunque, a dare continuità al proprio agire. Come valuti il ruolo dell’UE in entrambe le situazioni?

L’Europa è influente solo sul lungo termine, non ha gli strumenti per imporsi. Bismarck quando non faceva guerre [le guerre bismarckiane furono tre, dal 1864 al 1871, con cui venne realizzata l’unificazione della Germania] siglava trattati, sempre in nome di uno Stato nazionale molto forte e a servizio della sua espansione economica. La politica estera tradizionalmente si è fatta avendo un esercito alle spalle, tuttavia si può cambiare.
Quel che possiamo fare è partecipare a iniziative come la proposta di legge per una difesa non violenta. Pare utopia, sì, però è pragmatico attivare azioni di pace in zone di tensione per prevenire guerre e conflitti. Non è più tempo di protestare e basta, si può entrare in azione ciascuno come può. Possiamo discettare sull’estremismo islamico e lo sfruttamento abnorme dell’Africa nei secoli. Meglio, nel frattempo, sostenere progetti culturali ed economici nei territori di crisi. La Russia poi non va demonizzata e isolata. Meglio fare affari e scambi culturali. Un po’ di pragmatismo smonterebbe decenni di contrapposizioni ormai inammissibili.

Prendo spunto da una riflessione di Roberto Cotroneo che in un suo recente contributo per il «Corriere della Sera» ragiona sulla percezione dell’immagine nella contemporaneità: «La nitidezza è un’invenzione culturale non un traguardo tecnologico. Non solo i sogni più intensi non sono nitidi, e non lo sono i film più poetici, e non lo sono i fotografi geniali. Ma la nitidezza viene scambiata il più delle volte come realtà e il dettaglio come verità».
Mi pare un affondo interessante sulla mistificazione in cui ci dibattiamo. Vorrei un tuo parere.

La nitidezza dell’immagine non può sostituire la visione dell’essenza. Solitamente la conoscenza viene insidiata e minacciata da operazioni di conquista dell’ovvio. Contro l’oggettività della produzione tecnologica artificiosa, che seduce e sottomette, e contro la datità del banale che s’insinua passando inosservata, vale ancora l’alternativa dell’epoché [in greco antico: “sospensione”, in ambito filosofico “sospensione del giudizio”] fenomenologica. Mettiamolo tra parentesi questo mondo fatto di informazioni ossessive, propaganda martellante e nebulose di banalità. Lo sguardo che osserva, il soggetto che descrive con accuratezza, l’attenzione mirata alla conoscenza sono indispensabili: la fenomenologia presuppone una libertà che produce sapere partecipato, non intuizioni ermeneutiche individuali, geniali e isolate. Si coglie nelle parole di Cotroneo un riferimento alla poetica del Leopardi, il quale infatti era un genio della poesia che suggerisce, tratteggia ed evoca ma anche un razionalista demistificatore, un intellettuale che demoliva le illusioni costruite da borghesi e gazzettieri due secoli or sono, un pensatore duro, aspro, libero e aggressivo, non un venditore di prodotti commerciali: non lavorava su commissione per il mercato.

Mi collego alla domanda precedente per qualche considerazione finale sul potere dello slogan nella nostra cultura. In qualità di addetto all’informazione trovi condivisibile questo pensiero? E, in caso, come pensi si possa invertire tale tendenza?

Voglio dare una risposta ampia sull’uso di slogan nella politica in particolare, in quanto altri ambiti di conversazione e comunicazione, come l’intrattenimento, vi sono connessi e ne risentono, anche se drammatizzano, commentano o fanno umorismo su fatti di cronaca di cui la politica indirettamente si occupa perché legifera. La soggettività politica vuole autolegittimarsi tramite un consenso generato artificialmente dai mass media, usando tecniche di produzione di realtà fittizie: un vizio causato dalla cittadinanza debole e minimalista di questi tempi e dalla politica dotata di procedure fragili e priva della volontà di dare un indirizzo all’economia e ai comportamenti sociali, bensì protesa a rispettare normative e obiettivi di bilancio con scadenze stringenti. E dire che il primo mass media è la persona che parla e comunica quotidianamente con gli altri. Il corpo proprio, il comportamento, la parola sono strumenti di comunicazione, e in eventi come un corteo dimostrano la loro efficacia: il consenso diretto è però oggi quanto mai non solo mediato bensì tendenzialmente sostituito con tecniche mirate. Slogan, parole guida e immagini suggestive vengono usate a questo scopo, imposte dall’esterno del discorso che invece va sviluppato corrispettivamente alle esperienze vissute. Al giornalista viene così offerta una cornice di senso alla quale si chiede di adeguarsi introducendo varianti irrilevanti perché collabori a una produzione di consenso mai legittimata. Politici e amministratori, di governo o opposizione, costruiscono così un racconto fondato su un sapere comune, radicato negli insegnamenti degli educatori e nelle convinzioni più scontate e indiscusse (una Lebenswelt culturale ma spesso inconsapevolmente sedimentatasi) e inseriscono nel linguaggio regolato da convinzioni indiscusse alcune parole guida che instillano paura o speranza, cioè sentimenti così forti che, una volta evocati, possono rendere controllabile l’opinione pubblica. In questo modo sui mass media, grazie alla debolezza giuridica e contrattuale del giornalismo, passano per legittime strategie politiche mai approvate se non da uomini di vertice. La politica stessa è uno strumento di costruzione del consenso e della legittimità, ed è utilizzata palesemente dalle forze economiche prevalenti. Il mondo arabo e islamico di solito nemmeno arriva a essere conosciuto e compreso, sostituito e sequestrato da etichette inaccettabili e strumentalizzazioni sfacciate. Quindi non resta che raccontare le storie e esperienze degli immigrati quando i temi d’attualità lo rendono utile, connettendo vicende ed eventi inseriti in settori che pur restando distinti devono far parte di un disegno (welfare, economia, ambiente, politica, religione). I cittadini italiani, ogni giorno, d’altra parte hanno a che fare con islamici, persone non religiose di lingua araba, lavoratori africani: l’integrazione quando avviene è spontanea, non imposta; poi diventa storia.

(Intervista di Claudia Ciardi)


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