Il
corposo saggio di Peter Fröberg Idling è una delle opere letterarie che hanno
ricevuto maggiori attenzioni in Svezia negli ultimi anni. Uscito nel 2006,
quando l’autore allora trentaquattrenne si è imposto al pubblico come giovane
esperto di storia e cultura cambogiana, l’anno successivo viene votato dai
lettori svedesi come miglior libro. È stato quindi stampato in Italia nel 2010
dalla casa editrice Iperborea, con il contributo per la traduzione dello
Swedish Art Council. Siamo davanti a uno dei più dettagliati resoconti sulla
storia contemporanea del sud-est asiatico. Mi sia concesso di dire, a titolo di
premessa, che l’impresa di Idling è degna di un paese nordico che non ha verso
la letteratura, e in generale la ricerca, il rapporto ambiguo, spesso nutrito
di una certa freddezza, che hanno i paesi del sud europeo. Laddove il merito si
trasforma concretamente in spinta creativa e realizzazione personale, anche e
soprattutto nella sfera del lavoro, al di qua delle Alpi finisce per essere
percepito come un appesantimento della persona, impantanandosi e in parecchi
casi perdendosi. Tale riflessione è qualcosa di organico al processo che ha
accompagnato la mia scoperta della prosa di Idling, e che forse lui stesso
tende a suggerire ai suoi lettori, insieme al resto, più specificamente legato
ai contenuti storici e antropologici di cui si occupa. Questo giovane
intellettuale, infatti, ha avvicinato numerosi protagonisti tra cui diversi
sopravvissuti alle persecuzioni di regime e alcuni importanti ex esponenti
della dirigenza khmer, oltre a essersi spinto in ogni angolo della Cambogia, un
paese le cui infrastrutture sono ancora deficitarie, causa i danni subiti
durante i bombardamenti americani, nel corso della guerra civile, sotto il
regime di Pol Pot che propugnò il ritorno a un primitivismo agricolo, e poi
ancora con la liberazione vietnamita. Un lavoro monumentale, verrebbe da dire,
incentrato sul valore della testimonianza, che lo scrittore cerca di
riabilitare a pieno, denunciando la leggerezza con cui una buona parte
dell’intellighenzia l’aveva liquidata nel corso della barbarie. Inevitabile
perciò che la nostra mente corra ai lati pratici del narrare di Idling, in che
modo è riuscito a portare in fondo la sua inchiesta, quali difficoltà ha
incontrato e su quali aiuti ha invece potuto contare. A fronte di una vicenda
tanto complessa e scottante come il potere dei khmer che si impose in Cambogia
dal ’75 al ’79, non sono aspetti secondari, e insisto, non considerarli quanto
dovremmo è indicativo di un tirare frettolosamente a diritto davanti alle
necessità del mestiere letterario.
E
proprio sulla letterarietà dell’opera, prima ancora di dedicarmi al fatto
storico, desidero accennare qualcosa. Né romanzo né saggio tout court ma
neanche completamente reportage. Il racconto procede secondo le movenze di un
diario peraltro incompiuto. C’è un po’ del miglior Dagerman redattore delle cronache dalle macerie tedesche nel dopoguerra. Anche qui uno sguardo che si
aggira nello spazio in cerca di tracce scomparse, impressioni, atmosfere che
riempiano il vuoto incombente su una delle vicende più fosche del Novecento.
Forse è il senso di devastazione senza i tratti apparenti della devastazione a
fare della Cambogia l’incubo surreale che continua a perseguitarci come un
rumore di fondo. Troppe lacune ne infittiscono il mistero, dilatano i dubbi, sviano
l’osservatore. E in questo risiede il mio personale interesse verso un
argomento altrimenti lontano da quanti di solito attirano le mie riflessioni.
Idling
annoda la trama intorno a un nucleo essenziale, la spedizione compiuta nella
Kampuchea Democratica da quattro connazionali nell’agosto del ’78, con lo scopo
di descrivere in patria e al resto dell’occidente i benefici della rivoluzione.
Dalla caduta della capitale Phnom Penh il 17 aprile del ’75 la Cambogia,
ribattezzata Kampuchea secondo l’antica parola khmer, aveva infatti tagliato
ogni comunicazione col mondo esterno. Vietate le visite straniere, chiuso
l’aeroporto con l’unica eccezione di un volo da e per la Cina una volta ogni
quindici giorni, niente giornali o bollettini radio. Un black out che non
lasciava intendere nulla. Il sospetto non avrebbe osato spingersi tanto a fondo
e sostenere lo sguardo della vera tragedia che si stava consumando. Poi
uscirono i primi racconti di sopravvissuti cambogiani, in fuga dai carcerieri
khmer. Diversi intellettuali di sinistra, solidali con la rivoluzione,
minimizzarono la portata delle testimonianze, mettendo in guardia l’opinione
pubblica circa la loro autenticità. Il dibattito si infiammò. A posteriori è
interessante vedere come l’ideologia riuscì a travalicare il buon senso di
troppi. Idling dedica non a caso molte pagine alla questione. Potrebbe sembrare
semplicissimo, un moto riflesso, accordare fiducia a un profugo uscito da un
paese lager, e invece nulla di più complicato. Tra i detrattori scopriamo anche
Noam Chomsky, voce dissidente e impegnata, tuttora attivo sulla scena del
dibattito interno americano. Ma pure dopo, quando emerse la brutale realtà del
genocidio, ci fu chi volle discolparsi dagli errori di valutazione commessi.
Sì, il dramma era ormai cosa nota, però sui numeri non si poteva fare
affidamento, insomma la portata della vicenda era soggetta ancora a non poche
oscillazioni. Come se ciò dovesse influire sul giudizio morale circa i risvolti
della politica khmer.
Lo
scrittore è molto abile nel salvare ogni sfumatura caratteriale dei suoi
interlocutori e anche il particolare all’apparenza più contraddittorio diviene
così elemento di rilievo per una ricognizione complessiva. La Cambogia è il
frutto di un contesto, uno scenario storico che vede fortemente destabilizzata
quella fetta del continente asiatico. La corruzione interna dilagante, i
problemi economici e infine i bombardamenti decisi a tavolino da Nixon e
Kissinger, scavalcando il Congresso, per uscire dalla palude vietnamita.
L’ascesa dei khmer rossi va collocata entro un tale degrado, in una fase
convulsa che portò alla guerra civile prima e alla presa del potere da parte
dei comunisti di Pol Pot, alias Saloth Sar, subito dopo. Avviate le
collettivizzazioni, sgombrate le città, simbolo del parassitismo e della
corruttela dilagante nelle classi più agiate, dal paese non filtrò più nessuna
notizia. Solo qualche rapporto ufficiale, proveniente da Phnom Penh, e
null’altro. Materiale che affluiva, ad esempio, nella sede della rappresentanza
diplomatica della Kampuchea a Berlino Est e che veniva puntualmente
rimaneggiato dai suoi impiegati, per renderli più appetibili, più
“all’occidentale”. Uno di questi uomini, Someth, sposato alla svedese Marita
Wikander, alla chiusura della sede venne richiamato in Cambogia; da quel
momento se ne persero le tracce. La Wikander prese poi parte alla spedizione
svedese col segreto proposito di rimediare informazioni sul marito, senza
riuscirvi. È probabile che quando avvenne il viaggio, fosse già morto, una delle
tante vittime dell’S-21, la sede del braccio armato dell’Organizzazione, oggi
museo della memoria, dove la polizia segreta seviziava e uccideva i
prigionieri. Tra questi si contano anche due cittadini americani, due ragazzi
che si erano avventurati sul Mekong in cerca di marijuana, anche loro
inghiottiti nel nulla. In seguito si seppe che vennero arrestati e portati
all’S-21 con l’accusa di spionaggio.
Dei
quattro membri della delegazione svedese, uno è un nome di rilievo. Si tratta
di Jan Myrdal, uomo allora sui cinquant’anni, figlio dei premi Nobel Alva e
Gunnar Myrdal. Giornalista, intellettuale di sinistra, il suo resoconto cadde
come un macigno nell’opinione pubblica del suo paese. Tutto in Cambogia
procedeva al meglio, i khmer avevano attuato un programma efficace per riparare
i danni del colonialismo e svincolarsi in via definitiva dalle insidie
imperialiste dei loro vicini. Su questo ragionamento poggia la domanda che
scuote dall’inizio alla fine il libro di Idling: possibile che non si siano accorti
di niente, che i quattro ospiti abbiano coperto più di un migliaio di
chilometri attraverso le campagne cambogiane e che nulla del disastro sia
trapelato? Malafede, ignoranza colossale o incredibile perizia dei funzionari
comunisti? Myrdal aveva l’aggravante della maturità, rispetto ai suoi
accompagnatori trentenni. Di sicuro poteva vantare una preparazione più solida
e tuttavia nessuna incertezza ha scalfito le sue tesi.
Si
coglie nella cosciente irresolutezza di tali interrogativi un andamento alla Rashmon,
secondo cui più si corre dietro alla verità più questa si nega, mostrando mille
volti, tanti quanti sono coloro che cercano di dare la loro versione dei fatti.
Il fascino di una simile lettura è quasi tutto riconducibile al tentativo di
esplorare le zone meno note della mente umana. Al di là del contenuto storico,
ammetto di essermi avvicinata al libro principalmente per capire come e se
sarebbero arrivate certe risposte. Diciamo pure che l’interesse psicologico ha
di gran lunga sovrastato gli altri. L’esito, lo ribadisco, vale lo sforzo di
addentrarsi in questo robusto volume. Il fatto che le soluzioni che aspettiamo
sfuggano di continuo, mostra per contrasto la sconvolgente ossessione del
meccanismo: quando ci si crede lucidi, si è invece spesso distanti dalla
realtà. Nel caso cambogiano, inoltre, l’attuarsi della violenza assume un che
di distaccato, è un qualcosa che accade certamente per programma politico ma
allo stesso tempo si ha la sensazione che buona parte di quanto viene eseguito
sia l’estremo effetto di un qualcosa che è fuori dal controllo e dalla volontà
dei singoli. Un’agghiacciante computisteria di regime. Impossibile non riandare
alla banalità del male della Arendt.
C’è
anche un altro lato selvaggio nella ricerca di Idling, che a mio parere ci
riguarda da vicino. E ruota intorno alla raccolta di informazioni sul conto di
qualcuno. I khmer, questi strani esseri vestiti di nero – anche qui il
parallelo con altri estremismi sembra naturale, il nazismo, l’Isis – venuti dalla giungla, che pure da ragazzi
avevano avuto il singolare privilegio di studiare a Parigi – in un paese dove
appena duecentocinquanta cambogiani nell’arco di mezzo secolo avevano fruito di
quella possibilità – misero in campo uno spionaggio capillare mischiato a forme
di superstizione e altri aspetti irrazionali: se un badile si rompeva o l’acqua
si scopriva contaminata, era opera della controrivoluzione e il presunto
responsabile veniva giustiziato. Del resto, controllare qualcuno implica di per
sé un atteggiamento ostile, e diciamolo tradisce un eccesso di difesa: ti
controllo perché ho un sospetto o solo perché non mi piaci e voglio crearti dei
problemi. Non è raro che un simile atteggiamento sconfini nella paranoia e che
l’ingranaggio finisca presto o tardi per mettere in mezzo degli innocenti. Nei
regimi succede con esasperata crudeltà. Ma attenzione, siamo noi al riparo da
fenomeni di questo tipo? Magari dai più estremi. In ogni modo si percepisce tra
le righe del libro un invito a riflettere. Accodarsi a qualcosa che somiglia a
un indizio, solo perché esiste nella nostra testa, millantare, confondere,
illudersi di ricavare un’idea valida da certi angoli sbrecciati delle vite
altrui, perché non si riescono ad avere informazioni di prima mano, è
chiaramente un modo di danneggiare e screditare gratuitamente qualcuno. Cose
che finiscono per avere ripercussioni sulla società nel suo complesso. In
Cambogia, e altrove, le vittime si sono contate a milioni. Nella Babele
d’occidente, in preda a crisi d’ansia e rutilanti esternazioni pubblicate sui
social network, il pericolo si mostra meno grave, ma non per questo va
ignorato.
Passiamo
tre, quattro volte al giorno davanti a un barbone e non lasciamo un’elemosina
ma la stessa foto di un poveraccio postata sui magici davanzali dei nostri
profili può riscuotere migliaia di consensi. Quando il lavoro di Idling è
uscito le cose non avevano ancora preso questa piega, eppure molti dei quesiti
che ci poniamo adesso, nelle sue pagine sono affrontati con sorprendente
lungimiranza.
(Di
Claudia Ciardi)
Peter
Fröberg Idling,
traduzione
di Laura Cangemi,
pp.
344
Iperborea,
2010
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