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22 luglio 2021

Philoxenia - Quando tutti i viaggi sono racchiusi in uno


Nelle pagine dei Momenti in Grecia Hugo von Hofmannsthal ha voluto trasmetterci le impressioni che gli suscitò il suo pellegrinaggio al tempio dell’antichità, compiuto nel 1908. Cercando quel senso del passato che gli sembrava oltremodo ambiguo, sfuggente, così lontano dall’idea che si era fatto sui libri, si sentì quasi beffato. Eppure quella temporalità sommersa, per certi aspetti respingente, chiusa in se stessa, che caparbiamente rifiutava di svelarsi all’osservatore, l’avvertiva dappertutto. A un tratto ebbe il bisogno di fermarsi, sedette all’ombra iniziando a leggere dal Filottete. E anche qui, che lettura densa di rimandi; solo su tale scelta si potrebbero spendere molte parole senza riuscire ad esaurirne le implicazioni. E proprio alla fine di questo passo, in cui neppure la poesia sofoclea ha saputo risolvere l’enigma del luogo, e ancor più, del tempo depositato nel quel luogo, ecco riaffiorare intero il dissidio provato dallo scrittore: «Impossibile antichità, mi dicevo, vana ricerca.  – La durezza di queste parole mi ricreava. – Nulla esiste di tutto questo. Qui dov’io pensavo di toccarlo con mano, qui è svanito, qui soprattutto. Una demonica ironia si libra intorno a queste macerie, che anche nel disfacimento trattengono il loro mistero».    
Per un mitteleuropeo o un italiano questo “ritorno” alla Grecia può generare significati, sfumature, interrogativi del tutto diversi. Come per i romantici inglesi fu prevalente la ricerca degli ideali traditi, la possibilità di ritrovare nel mito ellenico la vera essenza della poesia perduta; mentre sull’altra sponda Caspar David Friedrich contemplava il suo mare di ghiaccio, constatazione visiva di un’odissea sentimentale ormai pietrificata. A questo proposito rimandiamo alle preziose osservazioni del germanista Patrizio Collini: «Il romanticismo effettivamente presenta, in modo direi ossessivo, l’immagine del ghiaccio, l’immagine della glaciazione dei cuori. Questa è veramente la grande immagine del romanticismo europeo dell’Ottocento. Ci si può chiedere perché, da cosa derivi questo topos della glaciazione, del ghiaccio onnipresente, del cuore di ghiaccio. La motivazione di questa presenza ossessiva è di carattere economico. Il cuore di ghiaccio è quello della moderna economia borghese, dell’assetto spietatamente competitivo, alla base della quale c’è uno scambio simbolico. Si cede il cuore caldo, senziente, per un cuore il quale risponde solo al principio del calcolo, un cuore insensibile, che nei racconti romantici si presenta ora come cuore di pietra, ora come cuore di ghiaccio. Direi che questo è un filo unificatore di tutta la narrativa tedesca della prima metà dell’Ottocento, ma anche della letteratura europea dello stesso periodo: la ricorrenza di questo topos del cuore di ghiaccio, del cuore di pietra, della glaciazione, della pietrificazione». (Patrizio Collini, Il viaggio: l’inquietudine del viandante, 1998).
Così dunque, per contrappasso, si tendeva alla Grecia come isola ultima della bellezza, della vera vita spirituale, sola porta d’accesso al sogno dell’arte, antidoto alla rinuncia delle ragioni del cuore. C’è evidentemente una mediazione nella cultura di appartenenza, vi si accennava poco sopra, che influisce anche sul senso suscitato dall’incontro con la grecità odierna. Il che ci conferma come la Grecia divenga una costellazione policentrica e polimorfica nei diversi contesti che l’avvicinano. Non un’unica frontiera dell’antico, piuttosto tante piccole patrie, affatto classificabili né destinate a rimanere statiche, mai uguali a se stesse.
In un articolo molto intenso Alessia Rovina, prendendo le mosse da un’affascinante lettura dedicata agli “eterni ritorni” in Grecia, riflette sulle avventurose declinazioni del viaggio che solo per la sua modesta parte emersa è uno spostamento nello spazio, ma a un grado più profondo e durevole è uno strumento che appresta misteriose e anomale metamorfosi dentro chi lo pratica.

(Di Claudia Ciardi)


Philoxenia: quando tutti i viaggi sono racchiusi in uno
Di Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»



Tempio di Poseidone a Capo Sounion, 2015, mentre era in corso un reading di Kavafis - Foto di Alessia Rovina ©

 
Parrebbe da folli, ora, parlare di viaggi. Pure, parrebbe folle aver inaugurato proprio nel 2020 questa rubrica, battezzandola con il nome dei Viaggiatori per antonomasia, i giovani ed acerbi Argonauti che proprio mettendo a rischio ogni idea di sicurezza – che d’altronde si sarebbe rivelata stantia ed ingannevole, come ricorda il Pindaro della IV Pitica (1) –  decisero di farsi carico del loro destino – indi, per taluni, della propria morte (2) – per trovare la misura di se stessi; uno scenario di avventura ed emozione attiva purtroppo distante da quella che è diventata la quotidianità di ciascuno, eppure tanto necessario. Necessario per la speranza che può animare nella costruzione di una nuova Argo, una Argo personale, metamorfica, proprio perché nata tra la complessità e le difficoltà. Proprio perché essere Argonauti e Viaggiatori, ora, è ancora possibile.
Nei mesi così inusuali che hanno accompagnato la sofferta transizione tra l’inverno e la primavera di quest’anno sono venuta per caso a conoscenza di un libro molto curioso ed affascinante, dal titolo evocativo: Philoxenia: viaggi e viaggiatori nella Grecia di ieri e di oggi. Curiosando nel sito della casa editrice responsabile, Mimesis, e raccogliendo notizie riguardo alla collana in cui il volume è inserito, Classici Contro, l’ho infine inevitabilmente acquistato. Ho atteso l’arrivo di questa densa curatela con la certezza che ne avrei voluto parlare proprio in questo spazio, perfetto perché sarei stata certa dell’entusiasmo e dell’accoglienza gioiosa di Claudia, ponte lirico ed umano con una Grecia che non è rimasta cristallizzata nelle spoglie d’un passato distante millenni, ma che continua, fiera, non convenzionale, ad essere un polmone insostituibile del grande Mediterraneo, approdo inevitabile per chiunque sia alla ricerca di radici (3).
Philoxenia è un grande omaggio: anzitutto, da parte di giovani e valentissimi studiosi e ricercatori verso il professor Giuseppe “Lello” Zanetto, loro Maestro e Guida all’interno del “viaggio in Grecia”, un rituale antico proprio del contesto della Statale di Milano, in cui i Classici non rimangono tracce paleografiche stipate negli scaffali di qualche archivio universitario, slegate da ogni collegamento, bensì prendono vita all’interno di questo pellegrinaggio verso la sorgente da cui sono scaturiti, a contatto coi luoghi che li hanno ispirati e di nuovo in una prospettiva che li vede rifiorire nelle liriche neogreche tanto ricche ed elevate, canti che sanno di una spiritualità spesso trascurata, se non del tutto sconosciuta. Secondariamente, ma non per importanza, grande è la gratitudine verso la proverbiale ospitalità greca, la φιλοξενία del titolo, che non si è estinta nella notte di qualche secolo addietro, ma che pulsa e non delude mai. Nel susseguirsi dei contributi che costituiscono il volume – suddivisi secondo un intelligente itinerario geografico, che tratta della Grecia continentale, delle Isole e della Grecia orientale – gli studiosi si rifanno discepoli, studenti, camminatori pronti a bere con gli occhi ed il cuore la bellezza unica che circonda ogni angolo di Grecia – pure quell’urbanistica tanto caratteristica del Mediterraneo orientale e sciatta che contrasta con la maestosità dei templi e dei marmi –  più che mai disposti a permettere la metamorfosi incubata in ogni viaggio. Voci compagne del percorso sono i viaggiatori di ieri e di oggi: i filologi bizantini che affrontano i nubifragi al largo delle coste greche; i Fenici che popolano i santuari marittimi delle isole greche, dedicando ex voto alle loro divinità orientali e creando le premesse per il grande sincretismo religioso che ha irrorato per secoli il Mare nostrum; gli osservatori di stelle di Chio, che negli astri trovavano una commovente testimonianza della vita dopo la morte; i poeti romantici europei, infatuati della causa greca e dell’idea di un perpetuarsi delle grandi glorie del passato; i cantori neogreci del Novecento, costretti ad esili politici per l’occupazione nazifascista e ad una vita che ritrova senso se vissuta cuore a cuore con il battito del mito e degli eroi del passato, ancora vivi sulla Terra.
L’elevatissima qualità scientifica dei contributi ed il loro inestricabile legame con le percezioni e gli affetti umani creano un equilibrio mirabile, che rifugge i due principali rischi che affliggono ogni tentativo di raccontare la Grecia nella sua interezza storica, letteraria e geografica: l’eruditismo fine a se stesso ed il patetismo svenevole. Grande è perciò la mia ammirazione nel parlarvi e nel consigliarvi la lettura di questo importante volume, in virtù della varietas di sguardi di cui si compiace, provenienti da specialisti di discipline solo apparentemente divergenti – storici, bizantinisti, classicisti, semitisti, archeologi – della sua profondità riflessiva e poetica, tale è la trattazione di grandi letterati neogreci altrimenti tendenzialmente taciuti, indi della sua verità, che sono certa ogni accorto viaggiatore di geografie interiori ed esteriori continua a sperimentare: ovverosia la ricerca, in fin dei conti, di una verità, di un sentimento, di se stessi.

(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro)

 
Note al testo:


1. Pindaro, Pitiche, IV, vv. 327-337.

2. Apollonio Rodio, Argonautiche, vv. 77-81, 140-142.

3. Vorrei con tutto il cuore poter dire di essere stata la prima a partorire questo pensiero così colmo di poesia, ma devo forzatamente e con piacere rimandare per questa riflessione ad un capolavoro cinematografico italiano spesso ignorato: Mediterraneo, di Gabriele Salvatores, vincitore del Premio Oscar come Miglior film straniero nel 1992. Il premio venne ritirato dal regista con un invito rivolto al mondo, tanto garbato quanto fondamentale: scegliere la pace, non la guerra. Gli anni erano quelli in cui i conflitti nell’ex-Jugoslavia erano al loro apice, e nuovi orrori si preparavano, ma le parole ed il film di Salvatores furono anche un capitolo di ammissione di colpa e riconciliazione tra due Paesi così vicini, Italia e Grecia, resi nemici dal vulnus del Novecento.

Edizione di riferimento del libro commentato:


Philoxenia. Viaggi e viaggiatori nella Grecia di ieri e di oggi, Mimesis, 2020

Collana: Classici contro

A cura di: Andrea Capra, Stefano Martinelli Tempesta, Cecilia Nobili



Per una lettura del Filottete di Sofocle, sempre in questa rubrica:

Declinazioni di solitudine (Sofocle)


30 giugno 2020

Νόστος – Il ritorno come nostalgia


C’è una frase di Antoni Gaudí, estroso architetto catalano, protagonista di una delle più vivide rivoluzioni nell’arte e nel pensiero novecenteschi, che dice: l’originalità consiste nel tornare alle origini. Emblematico che un ingegno tanto versatile e proiettato fuori dai propri confini, destinato ad attraversare mondi e culture diversi e in quella diversità per lappunto essere capito e ammirato, esprima la sua idea d’innovazione nella stretta, imprescindibile consuetudine col passato e con ciò che presiede al nostro affacciarsi alla vita. Senza aver ben in mente le proprie radici è difficile tracciare un percorso, dunque comunicare qualcosa di sé agli altri, ma anche a se stessi. L’iniziazione al viaggio ha bisogno di contenuti, la linfa che scorre in noi da quando siamo bambini e con cui sempre aspireremo a dissetarci. I seni materni e l’aria che respiriamo nel luogo che veglia sui nostri primi passi. E le parlate dialettali che ci accarezzano al pari dei canti di culla. È in questo lembo terreno, fra i visi e le voci che lo popolano, a germogliare la nostra semenza e assorbire i nutrimenti che l’accrescono. Questo sottile incanto penetra in noi molto più di quanto lucidamente ci è dato considerare cosicché a quegli sprazzi di beatitudine tenderemo sempre, anche quando ci sembrerà di averli dimenticati, anche quando tornarvi non sarà possibile. Se il tema del νόστος da Omero al tardoantico ha ispirato le pagine forse più celebri del racconto epico, lanciandosi poi alla conquista della modernità, è perché suscita un bisogno umano inesauribile. L’archetipo del ritorno è il viaggio per eccellenza; racchiude rive sconosciute ma sollecita la poesia domestica che portiamo nel cuore. Così Ulisse, in lotta tra demoni e paure, vince ogni prova per la nostalgia della casa – perché essenza del νόστος è la nostalgia, il desiderio di ritrovare quel che si è perduto. Tornare, rivedersi, recuperare frammenti di vita che ci siamo lasciati alle spalle, senza i quali la nostra presenza vacilla. Così Ovidio spera continuamente che la pena dell’esilio sia mitigata e di rivedere, un giorno, Roma. Così Rutilio Namaziano sfida i pericoli delle invasioni, il dolore causato dalla vastità delle rovine che ricoprono l’impero e torna in Gallia, perché vuole scoprire cosa resti dei luoghi della sua nascita, dove si posò il suo sguardo di bambino, unica scialuppa cui aggrapparsi in mezzo alle tempeste del crollo e della decadenza.
Eppure, anche negli abissi della perdita, il faro degli affetti, dei ricordi, dei venerati idoli, che noi almeno stimavamo tali e che ci hanno cresciuto con la loro bonaria saggezza, resiste. Alessia Rovina ci conduce per queste terre sentimentali, in un toccante racconto dove miti rustici, poesia, dialetto sono le solide radici che reggono l’albero della vita.

(Di Claudia Ciardi)  



Paternità - Foto di Alessia Rovina ©
 

Quel necessario tornare
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

Nel seno di ogni partenza, o ri-partenza, per qualsiasi viaggio sta il rapporto con la banchina che si è dovuta – o voluta – lasciare. Tenendo nel cuore il bellissimo Elogio alla fuga di Henri Laborit, per chi come me si sente da sempre un Argonauta destinato a trovare una meta-altra, arriva poi pure un momento in cui si è costretti a riavvolgere il gomitolo del proprio trascorso, a dover edificare una qualsiasi dimora, su una base però che sa di origine. Origine, come ci insegna la sua stessa etimologia, ha il significato di nascita e di provenienza: un nucleo potenzialmente eterno e profondamente non scelto, non selezionato, in barba alle tante distopie – talvolta tragicamente reali – che ci illudono della possibilità di decidere come meglio manipolare le unicità di chi dovrà originarsi. Un punto di energia centrifuga e centripeta, da cui dobbiamo emanciparci per non rischiare di marcire – così avvertiva il lirico Pindaro nella sua Pitica IV a proposito dei nostri mitici marinai, pronti a pagare con la vita la scoperta del proprio valore – e un luogo a cui dover ritornare, per quella, a parer mio, eterna riconciliazione con il passato che è la vita. La mia base è quel lembo di terra pianeggiante e rustica, ubertosa e afosa cantata dal Virgilio più profondamente commosso – quello degli espropri sofferti e del fitto cicalare estivo – e, in tempi molto più vicini a noi, dal Guareschi e dai suoi adattamenti cinematografici, che in quella striscia di piccolo mondo antico fa litigare e gioire quegli idoli novecenteschi profondamente vivi nel cuore di chi, come me, qui cresce, e inizia a sognare. Vantiamo qui una porzione della prodigiosa varietà dialettale propria della nostra bella Penisola, lingua arcaica e spesso incomprensibile, regolata da strane grammatiche che abbondano negli armadi tarlati dei Nonni, con cui la sapienza e la poesia si tramandano, e non solo in casa. Poche date qui sono pari al Natale. Una, è sicuramente il 29 Giugno. È il giorno in cui cade la festa patronale dei Santi Pietro e Paolo, non i veri protettori del Paesello, ma i custodi della speciale distribuzione dai campi del frutto locale, pesante sfera di aspettative: il melone – nel nostro dialetto del basso Mantovano: al mlòn. Come in un antico rituale panico, pienamente aderente al nostro génos mediterraneo, il popolo si riunisce, senza distinzione alcuna, e si prepara a godere di questa grande celebrazione terrena, non senza l’intervento dei nostri cantori, aedi anziani, con la pelle raggrinzita dal lavoro campestre di una vita e vestiti di cenci colorati, esperti sapienti e custodi del nostro bagaglio di fantasticherie. Il nostro Omero è da sempre Pèdar, l’om da la gamba stanca, un prodigioso musicista e poeta dialettale, conquistatore di grandi riconoscimenti, intrattenitore di quella comune preghiera di ringraziamento alle divinità ctonie ancora presenti, intervenute nella rinascita del frutto del Sole, ancora propizie con un paese che vorrebbe abbandonare la propria origine, ma che trova pur sempre piena identità in quei tramonti magenta che si distendono, stanchi, sugli interminabili campi di grano. L’estate, folta di zanzare e della Golena fluviale che rivive dopo il pesante bagaglio delle nebbie, è sfrontata, come in quella parte più vera dell’Italia, e batte la sua lingua nei filòss, equivalente padano dei simposi e del ciacciàre toscano, in cui un qualsiasi giro di Quartiere diviene un poema epico fatto di tappe burlesche tra quei circoli di sedie legnose in cui le anziane risdùre  – meraviglioso termine il cui significato è ristoratrici, concordi con lo spirito di queste mogli rustiche, forti e accoglienti – ancora avvolte nei loro grembiuli che sono impregnati del profumo della noce moscata e del cacio, interrompono sicure il tragitto del viandante, sconosciuto e conosciuto, per saluti, doni mangerecci e sempre immancabili pettegolezzi di paese. Femio e Demodoco sono così la sciura Maria e la sciura Rina, e le imprese eroiche, quelle vere, diventano le rivolte dei partigiani nelle vie dei Giardini, il lavoro duro, nobile, per mantenere le famiglie, il continuare a sognare nonostante un mondo che loro per prime vedono andare in frantumi, prima ancora che i giovani vi si affaccino, e le convivenze dei preti con gli storici comunisti del Paesello. Le novelle riportate, i proverbi, saranno compagni inaspettati di tutta la nostra vita, tanto che, se faremo una scelta di vita radicale, naturista, e per così dire francescana, saremo a la manéra ad Ramòn, la nostra vedetta del Grande Fiume, un anziano signore da sempre stabile in una roulotte sullo Spiaggione del Po, mentre, se sceglieremo come Don Abbondio di stare dalla parte del più forte, nascondendoci nei nostri comodi, avremo deciso di stàr da la banda dal furmantòn, di stare dal lato del granturco, al cui fittizio riparo possono pensare di star sicuri una moltitudine di esseri viventi. Qui, l’estate è spietata e non lascia scampo. Sorride volgare nella sua pesante calura, ed elargisce frutti nella stessa misura con cui poi si tramuterà in nebbia, che tutto confonde e cela. Unica salvezza, allora, sarà in Novembre arrivare al rogo del brüsa la vécia, una consuetudine non solo Padana, ma anche Bolognese e Romagnola, e in quanti altri luoghi, Ispanici, Calabri ed Ellenici, nel cui rituale incendio del vecchio, dell’infruttuoso e dello sterile, ci si prepara ad accogliere una nuova vita. Ancora dura e ancora nascosta, ma foriera di nuove avventure. Un dolce e struggente Amarcord, quel nostro singolo romanzo di formazione eterna. Ecco, le origini: un debito imposto, non scelto, con cui ripetutamente saldare il conto, stimandolo necessario nelle sue più acute asperità, nei suoi inciampi, giudicandolo prezioso, per il potenziale che dona, che è sì un tornare continuo… Ma è anche un sentiero che porta nelle profondità più vere e più ricche del nostro personale ed irripetibile destino.

(Di Alessia Rovina, 26/06/2020
classicista e appassionata di teatro,
account twitter: @rovina_alessia)

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