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31 maggio 2021

Invisibili incanti


Sul filo di apparizioni incerte, momentanee cui talora capita di sentirsi più vicini, lievi tracce disseminate nel vivere che a volte riusciamo a cogliere e salvare scendendo a un maggior grado di profondità, nascono gli invisibili incanti di Filomena Ciavarella. Versi che ritraggono la meraviglia di delicati prodigi – lo schiudersi di un fiore, il cadere lento della luce all’imbrunire, certi aromi di un’ora – una silenziosa epica quotidiana apparentemente senza importanza, ma che proprio attraverso la sua intangibile trama gettata sulla realtà ne rivela l’intima sostanza.

Se infatti la parola incantare, da cui deriva l’italiano incantesimo, è un cantare dentro e sopra le cose per rianimarle e suscitarle a una qualità benefica, germinante, precognitiva, questo carattere appartiene senza dubbio alla scrittura dell’autrice, che ora lambisce i toni di una preghiera, ora tocca le formule di una benedizione o il mistero di un sogno in veglia.

Classe 1965, insegnante di filosofia e traduttrice di alcuni grandi nomi della letteratura anglosassone, tra cui Emily Dickinson e William Butler Yeats, Filomena Ciavarella costruisce sui contatti tra linguaggio filosofico e poetico la base delle propria ricerca, un dialogo serrato quanto stimolante che ha la virtù di riportarci al nucleo delle parole, alla loro genesi stratificata, poliedrica, metamorfica. E proprio in questo rigoroso andare alle radici del “séma” (σῆμα), all’unità minima significante che è avvolta dalle leggere ma tenaci tessiture del dubbio e della rivelazione, consiste il rifiuto di un comunicare istantaneo, affrettato, ripetitivo che finisce per svuotare tutto di senso.

Rita Bompadre con la sua attenta lettura ci introduce alla scoperta di questa meritevole opera, invitandoci a seguire l’autrice, molto attiva anche nel contesto internazionale, in un costante impegno per la diffusione della poesia.

(Di Claudia Ciardi)



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Versi per l’invisibile di Filomena Ciavarella (Transeuropa Edizioni, 2020) è una raccolta poetica che segue il destino del filamento indelebile dell’anima, il retaggio celebrativo dei sentimenti, nascosti e protetti nell’impercettibile speranza della comprensione umana, dilatati nel limite dell’inclinazione delicata della poetessa che difende la persuasione di vivere oltre la mediazione delle sconfitte e la consapevolezza dell’angoscia.
I versi ricompongono laceranti sofferenze, indicano il senso compiuto e puro di ogni confessione emotiva, analizzano le traiettorie primordiali dell’autobiografia, ispirata e conservata nel giudizio del profondo vissuto, trasportano il bagaglio sentimentale della poetessa alla stabilità dei ricordi e percepiscono la resistenza dei rapporti affettivi.
La qualità espressiva della poesia è funzione e proprietà esistenziale, estende pagine diffuse nel prolungato e accorato elogio all’amore, nella generosa consistenza della memoria e nell’istintiva intimità di luoghi, di persone amate e di assenze sofferte. La poetessa destina la sua viva maturità nell’evidenza dei valori smarriti in cammino e in pena per l’allontanamento continuo delle voci partecipi, condanna la freddezza del distacco sostenendo la tenerezza, ripercorre la vicinanza ritrovata con rara poesia. La suggestiva ossessione del sentire e della passione guida i pensieri, allinea la spontanea complicità della presenza amorosa, dona l’interiorità e la corposità di ogni intesa sensibile.
Una poesia dedicata al raccoglimento nella concentrazione del silenzio e nella benedizione degli avvenimenti privati, dove la parola diventa la forma di comunione assoluta con i legami vitali più duraturi. Il fine universale e sensoriale delle poesie di Filomena Ciavarella rafforza la percezione della libertà creatrice e mantiene la stabilità delle sensazioni nell’azione immanente dell’agire in nome dei desideri per superare gli ostacoli.
Versi per l’invisibile trasforma il passaggio transitorio della causalità dei comportamenti umani adeguando l’analisi delle conseguenze nella loro graduale sparizione dalla regione dell’indifferenza. L’invisibile è la dimensione di ogni lieve sguardo sulla inafferrabile lontananza. La poetessa dedica la natura estetica della sua poetica alla conciliazione del senso, all’insieme strutturato degli intenti di esplorazione, incisivi e contenutistici, incoraggiando l’aspetto della conoscenza e la rappresentazione della realtà.
Una poesia naturale, un’esigenza quotidiana di bellezza, in cui la materializzazione delle paure e la manifestazione delle visioni interiori permettono di consumare la parola scritta nell’istinto alla ricorrenza della vita. Nella tormentosa incertezza del futuro l’oscillazione inavvertibile del tempo muove la curva della poesia nello spirito rivelato della memoria, sconfinando la distanza di una consuetudine disincantata nella volontà dei versi e nel continuo attraversamento di ogni ombra, nella superficie di ogni coinvolgimento.

(Di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”)

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Filomena Ciavarella, Versi per l’invisibile, Transeuropa Edizioni, 2020

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Testi selezionati da Rita Bompadre, tratti da Versi per l’invisibile:


Serraglio d’amore

Un lieve serraglio d’amore
mette il laccio al tramonto
come una bella di notte
che nel suo intimo chiude
l’ultimo raggio di luce
E nella sua gemma preziosa
attende,
attende silenziosa
la nascente aurora.


Incerta bellezza

Incerta è la bellezza
È un filo d’erba nella stanza
Non lontana da te
Tenue come piuma al vento
Prima di volare via
Ancor più candida nella memoria
Da quando l’invisibile
l’ha presa con sé.

 

Lettera d’amore


Le voci sonore all’imbrunire
Fanno eco dove si svuota
l’estasi nel lento cadere
della luce
in uno splendido
volo su bianche ali
di cigni nella notte
Si rivelano antiche
danze di tempi andati
nel vento odoroso di menta
sulle scie che primavera
lascia nel suo canto innocente
È la più bella lettera d’amore
che il tramonto consegna
all’oscurità.

 

Il cerchio fra le dita


Tra le dita teniamo
il cerchio
per rendere l’ignoto
al suo arco
Lo accarezziamo,
fino a quando si leverà
in un luogo senza – luogo
e la matassa troverà il filo
come fiore sotto il cielo
E la folgore ardente il senso
sulla vela del sudario.

 

Fu così che si son piantate le viole

Fu così che si son piantate le viole
Sono vive nel deserto della notte
I petali raggiano l’inafferrabile
Sulla soglia tremano
nel giorno
che sempre si smarrisce.

Ed è così che si son piantate le viole
negli occhi fermano
la notte
arrivano da un fiume millenario
sulle strane pendici
dell’invisibile.

30 giugno 2020

Νόστος – Il ritorno come nostalgia


C’è una frase di Antoni Gaudí, estroso architetto catalano, protagonista di una delle più vivide rivoluzioni nell’arte e nel pensiero novecenteschi, che dice: l’originalità consiste nel tornare alle origini. Emblematico che un ingegno tanto versatile e proiettato fuori dai propri confini, destinato ad attraversare mondi e culture diversi e in quella diversità per lappunto essere capito e ammirato, esprima la sua idea d’innovazione nella stretta, imprescindibile consuetudine col passato e con ciò che presiede al nostro affacciarsi alla vita. Senza aver ben in mente le proprie radici è difficile tracciare un percorso, dunque comunicare qualcosa di sé agli altri, ma anche a se stessi. L’iniziazione al viaggio ha bisogno di contenuti, la linfa che scorre in noi da quando siamo bambini e con cui sempre aspireremo a dissetarci. I seni materni e l’aria che respiriamo nel luogo che veglia sui nostri primi passi. E le parlate dialettali che ci accarezzano al pari dei canti di culla. È in questo lembo terreno, fra i visi e le voci che lo popolano, a germogliare la nostra semenza e assorbire i nutrimenti che l’accrescono. Questo sottile incanto penetra in noi molto più di quanto lucidamente ci è dato considerare cosicché a quegli sprazzi di beatitudine tenderemo sempre, anche quando ci sembrerà di averli dimenticati, anche quando tornarvi non sarà possibile. Se il tema del νόστος da Omero al tardoantico ha ispirato le pagine forse più celebri del racconto epico, lanciandosi poi alla conquista della modernità, è perché suscita un bisogno umano inesauribile. L’archetipo del ritorno è il viaggio per eccellenza; racchiude rive sconosciute ma sollecita la poesia domestica che portiamo nel cuore. Così Ulisse, in lotta tra demoni e paure, vince ogni prova per la nostalgia della casa – perché essenza del νόστος è la nostalgia, il desiderio di ritrovare quel che si è perduto. Tornare, rivedersi, recuperare frammenti di vita che ci siamo lasciati alle spalle, senza i quali la nostra presenza vacilla. Così Ovidio spera continuamente che la pena dell’esilio sia mitigata e di rivedere, un giorno, Roma. Così Rutilio Namaziano sfida i pericoli delle invasioni, il dolore causato dalla vastità delle rovine che ricoprono l’impero e torna in Gallia, perché vuole scoprire cosa resti dei luoghi della sua nascita, dove si posò il suo sguardo di bambino, unica scialuppa cui aggrapparsi in mezzo alle tempeste del crollo e della decadenza.
Eppure, anche negli abissi della perdita, il faro degli affetti, dei ricordi, dei venerati idoli, che noi almeno stimavamo tali e che ci hanno cresciuto con la loro bonaria saggezza, resiste. Alessia Rovina ci conduce per queste terre sentimentali, in un toccante racconto dove miti rustici, poesia, dialetto sono le solide radici che reggono l’albero della vita.

(Di Claudia Ciardi)  



Paternità - Foto di Alessia Rovina ©
 

Quel necessario tornare
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

Nel seno di ogni partenza, o ri-partenza, per qualsiasi viaggio sta il rapporto con la banchina che si è dovuta – o voluta – lasciare. Tenendo nel cuore il bellissimo Elogio alla fuga di Henri Laborit, per chi come me si sente da sempre un Argonauta destinato a trovare una meta-altra, arriva poi pure un momento in cui si è costretti a riavvolgere il gomitolo del proprio trascorso, a dover edificare una qualsiasi dimora, su una base però che sa di origine. Origine, come ci insegna la sua stessa etimologia, ha il significato di nascita e di provenienza: un nucleo potenzialmente eterno e profondamente non scelto, non selezionato, in barba alle tante distopie – talvolta tragicamente reali – che ci illudono della possibilità di decidere come meglio manipolare le unicità di chi dovrà originarsi. Un punto di energia centrifuga e centripeta, da cui dobbiamo emanciparci per non rischiare di marcire – così avvertiva il lirico Pindaro nella sua Pitica IV a proposito dei nostri mitici marinai, pronti a pagare con la vita la scoperta del proprio valore – e un luogo a cui dover ritornare, per quella, a parer mio, eterna riconciliazione con il passato che è la vita. La mia base è quel lembo di terra pianeggiante e rustica, ubertosa e afosa cantata dal Virgilio più profondamente commosso – quello degli espropri sofferti e del fitto cicalare estivo – e, in tempi molto più vicini a noi, dal Guareschi e dai suoi adattamenti cinematografici, che in quella striscia di piccolo mondo antico fa litigare e gioire quegli idoli novecenteschi profondamente vivi nel cuore di chi, come me, qui cresce, e inizia a sognare. Vantiamo qui una porzione della prodigiosa varietà dialettale propria della nostra bella Penisola, lingua arcaica e spesso incomprensibile, regolata da strane grammatiche che abbondano negli armadi tarlati dei Nonni, con cui la sapienza e la poesia si tramandano, e non solo in casa. Poche date qui sono pari al Natale. Una, è sicuramente il 29 Giugno. È il giorno in cui cade la festa patronale dei Santi Pietro e Paolo, non i veri protettori del Paesello, ma i custodi della speciale distribuzione dai campi del frutto locale, pesante sfera di aspettative: il melone – nel nostro dialetto del basso Mantovano: al mlòn. Come in un antico rituale panico, pienamente aderente al nostro génos mediterraneo, il popolo si riunisce, senza distinzione alcuna, e si prepara a godere di questa grande celebrazione terrena, non senza l’intervento dei nostri cantori, aedi anziani, con la pelle raggrinzita dal lavoro campestre di una vita e vestiti di cenci colorati, esperti sapienti e custodi del nostro bagaglio di fantasticherie. Il nostro Omero è da sempre Pèdar, l’om da la gamba stanca, un prodigioso musicista e poeta dialettale, conquistatore di grandi riconoscimenti, intrattenitore di quella comune preghiera di ringraziamento alle divinità ctonie ancora presenti, intervenute nella rinascita del frutto del Sole, ancora propizie con un paese che vorrebbe abbandonare la propria origine, ma che trova pur sempre piena identità in quei tramonti magenta che si distendono, stanchi, sugli interminabili campi di grano. L’estate, folta di zanzare e della Golena fluviale che rivive dopo il pesante bagaglio delle nebbie, è sfrontata, come in quella parte più vera dell’Italia, e batte la sua lingua nei filòss, equivalente padano dei simposi e del ciacciàre toscano, in cui un qualsiasi giro di Quartiere diviene un poema epico fatto di tappe burlesche tra quei circoli di sedie legnose in cui le anziane risdùre  – meraviglioso termine il cui significato è ristoratrici, concordi con lo spirito di queste mogli rustiche, forti e accoglienti – ancora avvolte nei loro grembiuli che sono impregnati del profumo della noce moscata e del cacio, interrompono sicure il tragitto del viandante, sconosciuto e conosciuto, per saluti, doni mangerecci e sempre immancabili pettegolezzi di paese. Femio e Demodoco sono così la sciura Maria e la sciura Rina, e le imprese eroiche, quelle vere, diventano le rivolte dei partigiani nelle vie dei Giardini, il lavoro duro, nobile, per mantenere le famiglie, il continuare a sognare nonostante un mondo che loro per prime vedono andare in frantumi, prima ancora che i giovani vi si affaccino, e le convivenze dei preti con gli storici comunisti del Paesello. Le novelle riportate, i proverbi, saranno compagni inaspettati di tutta la nostra vita, tanto che, se faremo una scelta di vita radicale, naturista, e per così dire francescana, saremo a la manéra ad Ramòn, la nostra vedetta del Grande Fiume, un anziano signore da sempre stabile in una roulotte sullo Spiaggione del Po, mentre, se sceglieremo come Don Abbondio di stare dalla parte del più forte, nascondendoci nei nostri comodi, avremo deciso di stàr da la banda dal furmantòn, di stare dal lato del granturco, al cui fittizio riparo possono pensare di star sicuri una moltitudine di esseri viventi. Qui, l’estate è spietata e non lascia scampo. Sorride volgare nella sua pesante calura, ed elargisce frutti nella stessa misura con cui poi si tramuterà in nebbia, che tutto confonde e cela. Unica salvezza, allora, sarà in Novembre arrivare al rogo del brüsa la vécia, una consuetudine non solo Padana, ma anche Bolognese e Romagnola, e in quanti altri luoghi, Ispanici, Calabri ed Ellenici, nel cui rituale incendio del vecchio, dell’infruttuoso e dello sterile, ci si prepara ad accogliere una nuova vita. Ancora dura e ancora nascosta, ma foriera di nuove avventure. Un dolce e struggente Amarcord, quel nostro singolo romanzo di formazione eterna. Ecco, le origini: un debito imposto, non scelto, con cui ripetutamente saldare il conto, stimandolo necessario nelle sue più acute asperità, nei suoi inciampi, giudicandolo prezioso, per il potenziale che dona, che è sì un tornare continuo… Ma è anche un sentiero che porta nelle profondità più vere e più ricche del nostro personale ed irripetibile destino.

(Di Alessia Rovina, 26/06/2020
classicista e appassionata di teatro,
account twitter: @rovina_alessia)

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