Calafati, eccentrico nome di una strada dove s’immaginano segreti movimenti di navigli, sguardi lenti di scafi come animali occupati nella muta, melodia di sartiame presaga e fatale. E gatte magre agli angoli delle case, come si addice ai porti, teste e zampe incorniciate da vetrate liberty che danno l’impressione di esser spuntate lì dal nulla. È giorno di mercato. Qui ognuno cerca un rimedio alle proprie fantasie o un’assoluzione per non aver più di che fantasticare. Solo, vestito di cenci ma nobile nel portamento se ne sta un alfiere con l’organetto e una batteria portatile sulla schiena, che ne enfatizza i gesti a dismisura. L’emiciclo della folla lo osanna e lo abbatte centinaia di volte in un’ora. Ma cos’è per lui il tempo, se non un capriccio caduto dalle ciglia di un semidio? Tutto e niente lo tocca. Ovunque si riunirà un piccolo crocchio a salutarlo, ovunque gli spettatori peseranno le loro vite nella sua, e i bimbetti grideranno al giullare, tra scherno e desiderio d’imitarlo. Guardate la livrea sbiadita, i pantaloni senz’orlo che doppiano meravigliosamente i suoi pensieri, guardatelo bene questo alambicco delle mille anarchie chiuso nel pugno della necessità, e intascherete la vostra dose di saggezza.
Non molto tempo fa, ogni volta che mi preparavo a partire, mi capitava d’incontrare un omino tanto piccolo e vecchio, somigliante a certi personaggi delle fiabe che se scherniti dall’improvvido passante, rivelano insospettabili poteri di reazione. Un ometto bianco, gentile e levigato come un pezzo d’avorio, da cui si sarebbe fabbricato volentieri un portafortuna. Agitava nella mano un barattolo di latta col manico, mentre l’altra metà del corpo giaceva abbandonata su un bastone, e in quella postura sembrava intero intero una reliquia.
Una volta mi fece strada fino al treno. Lui apparentemente non si accorse di nulla ma io già sapevo che sarebbe andata così, e il chioccante ramo da pellegrino su cui si arrampicava la sua figura divenne una bacchetta fatata, lievissima, pronta a suonare anche uno spartito se si fosse presentata l’occasione, e in quel modo avanzò, incutendo rispetto ai viaggiatori in attesa.
C’era poi un altro essere incantato, un barbone che girava per le strade con un ombrello nero attaccato al braccio, e più il tempo volgeva al bello, più questa esile caricatura d’uomo si stringeva tutta al suo cimelio. Non parlava mai, allo stare seduto preferiva giacere disteso, facendo leva sul gomito, un lucumone sfrattato intento a fissare le nuvole; che creatura invidiabile. Era un sensitivo e ogni volta che l’ho incontrato ho ringraziato il caso, perché su di me si posavano gli occhi più chiari della città.
Tutti e due avrebbero potuto esser dipinti nella logora divisa di quell’alfiere, nelle divise di migliaia di paggi che scortano i visitatori tra i banchi delle fiere domenicali. Questo regno dei mercatari è simile a un bulbo di vetro dove vengono costruiti straordinari mondi in miniatura che non sono finzioni ma ci trascinano dritti sull’isola della nostra infanzia. Se poi in quella bolla trasparente nevica pure, allora vorremmo abitarci per sempre. Io continuo a custodire in me questi luoghi, anno dopo anno la mia fantasia li contempla in adorazione e quando si distrae, sognandone ad occhi aperti, tutto in me si apre a una gioia rotonda come il pane. Si sente un alito venire dal fondo dei ricordi, e subito abbiamo desiderio di seguirlo, quasi stessimo acciuffando la nostra ombra, ma vorremmo anche fermarci nelle piccole stradine di calce e pietra, tra giardini, lampioni, muretti, fili della biancheria, persiane, abbaini e comignoli. In ognuna di queste cose si vorrebbe entrare, posarcisi pochi attimi, seduti stringendo con le braccia le ginocchia, sparire dentro il paese di sogno, che non ha altro indirizzo se non noi stessi. Così, la visita a un mercatino è un po’ come aggirarsi in una contrada capovolta, dai cui fantasiosi incroci ciascun artigiano osserva il nostro andare. Immaginiamo amuleti, pozioni che le loro sapienti mani hanno travasato da lune dipinte su vetri e specchi colorati. Tutto ci convince della bontà della veglia ma è pur sempre altrettanto docile a farsi fiaba. In chi offre la sua mercanzia, io vedo un silenzioso messaggero, un cacciatore di tesori a riposo, ma il mio preferito è quel genere di ambulanti perennemente in attesa; immobili come statue di sale sorgono al centro delle loro conquiste, eteree città di bricchi e quadretti, porte e fontane d’oriente che il loro sguardo contempla di striscio, sulle quali la mano può correre libera e tornare con quel briciolo d’impudenza che viene da una rivelazione. Tra paggi, fattucchiere e prestigiatori c’è poi un personaggio destinato a raccogliere le sorti di tutti. Lo troverete quasi sempre in un angolo, in quei passaggi miracolosi che mettono in comunicazione due vicoli o due piazze, architetture con cui parliamo più volentieri e scioltamente che con chiunque altro. Tra questi artisti l’ultimo che ho incontrato era vestito di nero e aveva incorporato nel costume un siparietto dove nulla accadeva. Ma la gente continuava a fissare la ridicola pancia che faceva da ribalta, aspettandosi chissà quale numero da quel ventre impassibile.
A me per un attimo ricordò il vecchio teatrino di legno che mi regalarono da bambina. Non riuscivo a combinarci niente di buono, non una scena che potesse andare avanti per qualche minuto né il movimento sciolto e sicuro di un burattino, il sipario di tanto in tanto crollava, l’asticella che lo reggeva non voleva saperne di tenersi in equilibrio sul traverso, e l’orologio dipinto sul frontone pretendeva un eccesso di riguardo pari al suo sconvolgente immobilismo. Quell’occhio mi bloccava, esasperando la mia antipatia per i quadranti che tuttavia solo in seguito si sarebbe manifestata pienamente, quando la maestra mi umiliò, costringendomi a montare due lancette su un disco di legno. Da allora non sono più tanto sicura di dare il giusto peso al tempo, minuti e ore si dipanano come stelle filanti, e mi inchiodano su queste quattro assi che ritrovo in ogni strada in cui passeggio. Il telo davanti al palco improvvisato non si alza né si abbassa, il ventre aspetta il suo ventriloquo, e io resto in piedi alla ricerca di qualcosa da dire.
(Di Claudia Ciardi)
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