6 novembre 2014

Il Leopardi di Martone, favoloso e commentatissimo




Già prima di stendere la mia recensione avevo letto parecchi pezzi dedicati a «Il giovane favoloso». Ho poi voluto flagellarmi in via ulteriore, incuriosita dal tam tam della rete; così mi sono addentrata nella marea di commenti firmati da martoniani e antimartoniani. Dopo che sotto gli occhi mi è passato praticamente tutto e il contrario di tutto, dopo aver sentito scomodare altrettante glorie della letteratura e della filosofia per supportare o distruggere tesi – e ho trovato la cosa molto bizzarra sotto il profilo antropologico, cioè toccare con mano questa inconsulta animosità sulla riuscita o meno di un film – vorrei spendere ancora due parole al riguardo.
Il film nasce di per sé come rappresentazione, essendo il cinema un mezzo per l’appunto rappresentativo, perché si serve di immagini. Rendere la poesia sullo schermo è un’operazione complessa, forse perfino contraddittoria, visto che si tratta di conciliare due mondi, non dico in conflitto, ma certo saldamente fondati su premesse opposte. Da una parte l’evidenza e l’immediatezza di quel che si vede, dall’altro quel lungo, inattingibile lavorio interiore che presiede alla scrittura e che, nel caso della poesia, è introspezione allo stato puro. Un dibattito simile si è accompagnato al testo teatrale, scritto per essere recitato, per la sua dimensione pubblica: quindi una scrittura corale che il poeta ha in mente per questo suo carattere finitimo alla destinazione e che tuttavia può essere letta e capita anche prescindendo dalla messa in scena. Pensiamo a un dramma pirandelliano o a una tragedia greca, dove più ancora sono gli elementi giocati sulla teatralità: li leggiamo come si legge un romanzo e non ne abbiamo certo uno stravolgimento di senso.  
Ora, a me pare Martone ne sia uscito piuttosto bene. È un film con i suoi limiti, magari qualcosa di meglio poteva venirne fuori, ma sinceramente sostenere che si è persa una grande occasione per far rivivere Leopardi e che Martone ha girato centotrentasette minuti di pellicola a vuoto lo ritengo pretestuoso. Per tacere di chi si è sentito offeso, uscendo dal cinema addirittura infuriato. Lo scrivo qui non per difendere l’opera di Martone a tutti i costi ma perché il tono di certi commenti mi permette di riflettere su un aspetto di cui avrei voluto parlare da tempo. C’è un atteggiamento che somiglia a un a priori di superiorità nel quale mi sono imbattuta tante volte tra i miei connazionali. Una cosa che non me li fa rimpiangere affatto quando sono all’estero. Questo voler criticare tutto per forza, rasentando il compiacimento, proprio perché nulla ci piace. Così la nona sinfonia di Beethoven è roba superata e «m’illumino d’immenso» di Ungaretti son due paroline, pure un po’ scontate a ben guardare, buttate lì tanto per fare sensazione. Porto questi esempi perché si tratta di esperienze dirette:  sono passata da fessacchiotta avendo osato manifestare in pubblico un interesse per queste due cosucce superate.
Rilancio con un altro esempio. C’è una mostra, una retrospettiva dedicata a un pittore e subito nascono le fazioni: “che mostra idota” – c’è chi mette le mani avanti – “di sicuro non ci andrò, perché l’unica vera mostra del cotale pittore si tenne due anni fa nella cotale città e quella sì valeva la pena”. Oppure: “Io l’ho già visto in tutta Europa, cosa m’importa di vedere nella cotale città di provincia la cotale mostra!”. E avanti. Tra parentesi a volte nelle cosiddette “retrospettive provinciali” ci sono dei gioielli che non si riescono a vedere neppure nella città d’origine di un artista. Aggiungo che ogni iniziativa può essere bella di per sé, rivelare qualche dettaglio che nelle nostre precedenti ricognizioni ci è sfuggito.  
Tutto per dire che superate a me sembrano essere principalmente le persone che nei confronti della vita hanno questa malcelata spocchia. E tante volte quella che è presentata come cultura solo perché produce un'affilatissima critica si scopre invece essere una preparazione deficitaria sulle cose che si liquidano come “già viste e già sentite”.
Leopardi, “il pessimista cosmico” (io ad esempio questa definizione, mi perdonino gli italianisti, non l’ho mai capita), il nostro Leopardi nell’osservare una simile profusione di armi critiche puntate sul film della sua vita, si sarebbe fatto delle belle risate. A Martone, lo ripeto, va il merito di aver risvegliato un interesse verso il poeta. Se vi fate un giro in libreria troverete in zona Leopardi delle pubblicazioni che mi chiedo se si sarebbero viste in assenza del film. I librai si sono sentiti in obbligo di ordinarle e anche questo, secondo me, è un gran bene. Colgo l’opportunità per segnalare il grazioso volumetto sulla corrispondenza del poeta da Roma, ritratto impietoso della città eterna, pubblicato nella collana UTETextra. Potete vederlo qui:
Ne parleremo in uno dei prossimi articoli.
Oltretutto il regista sbeffeggia magnificamente l’intellettualismo cattolico mascherato di azione e sani principi che imbrigliava il paese nell’Ottocento. Anzi, avrebbe potuto essere molto più cattivello e mordace. A chi non è andato giù il ruolo di Leopardi “genio ribelle” perché ciò si collocherebbe “oltre la letteratura” (ho letto anche questo!) dico semplicemente: Leopardi era un genio, in rivolta con la sua epoca. La sintesi è nella sua poesia.

(Di Claudia Ciardi)

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Il giovane favoloso - la recensione di Margini in/versi 

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