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24 agosto 2022

Il colore dell'antico

 


Un leone ricolorato che rasenta il Kitsch. È un leone di Loutraki, che senza sapere da dove venga e cosa sia, si direbbe uscito da un fotogramma hollywoodiano sull’Egitto dei faraoni. O piuttosto che collocarsi nellantica Grecia sembrerebbe essere più a suo agio accanto a una chimera o tra le pagine di un bestiario medioevale. Forse un po’ eccessivo ma se vogliamo d’effetto, non c’è dubbio. Abituati a vedere l’antico come un film in bianco e nero, la scoperta del colore su questi resti di civiltà, per noi sostanzialmente acromatica, può essere destabilizzante e perfino inaccettabile. Essendo le statue e i templi (greci e le loro copie romane) giunti fino a noi privi della loro colorazione, siamo stati indotti a pensare che le opere d’arte e d’architettura nel mondo classico ne fossero totalmente sprovviste. Anche grandi storici dell’arte la pensavano così. Johann Winckelmann nel Settecento stabilì i canoni della bellezza ideale individuandoli proprio nelle statue greche decolorate dal tempo. Nulla di più lontano dalla realtà.
Nella mia adolescenza, prima ancora di andare al liceo, mi sono capitati due libri importanti sulla Grecia, importanti per me, in quanto hanno senz’altro contribuito alla nascita di una philìa verso un mondo di cui non sospettavo l’esistenza, un tesoro sepolto che mi folgorò, sensazione che ancora dura. Uno fu il librino tascabile della traduzione dei lirici greci fatta da Quasimodo – e qui ne ho parlato introducendo un bell’intervento della classicista Alessia Rovina – l’altro, un manuale per ragazzi sugli aspetti salienti della civiltà ellenica, con una porzione rilevante del testo dedicata all’arte e splendide riproduzioni dell’Eretteo colorato, di frontoni dalle luminose tonalità, di statue con panneggi e capigliature variopinte.
L’esercizio di ricostruzione della policromia sui manufatti antichi sprigiona non solo un certo fascino estetico e psicologico ma è senz’altro utile a restituirci un’immagine più veritiera di ciò che i nostri predecessori vedevano intorno a loro. Da anni i ricercatori del British Museum di Londra e della Glittoteca di Monaco di Baviera rielaborano al computer le immagini delle statue basandosi sulle tracce di colore rinvenute, con grande insoddisfazione dei più “conservatori”. L’analisi chimica ha rivelato che i colori più gettonati nell
antichità erano rosso, giallo, azzurro e bianco, più le gradazioni derivate dalla loro unione. Nonostante l’azione del tempo, restando allo spazio ellenico, numerose tracce sono state rinvenute sul frontone dell’antico tempio di Afaia a Egina, sulla Kore con peplo o Peplophoros, e sui leoni di Loutraki, di cui si diceva all’inizio. In scia a tali ricerche è in corso al Met di New York la mostra «Chroma» che presenta una serie di ricostruzioni a colori di sculture antiche del Prof. Dr. V. Brinkmann, capo del dipartimento di antichità presso la Collezione di sculture Liebieghaus, e del Dr. U. Koch-Brinkmann, da anni impegnati in questi studi, soprattutto sulla statuaria. Presentate insieme a opere originali greche e romane che riproducono soggetti simili, le ricostruzioni sono l’esito di una serie di raffronti e analisi, tra cui l’imaging 3D. Una materia che può aprire nuove vie anche nell’indagine sui testi, stimolando nuove interpretazioni e ragionamenti sulla parola, terreno complesso, perché ad esempio la definizione greca del colore rimane spesso sfuggente, di sicuro lontana dai criteri con cui le lingue moderne “osservano”.
Ricordo per la mia tesi di aver passato in rassegna diversi aspetti del colore dal lessico – con un’ampia ricognizione per l’appunto sui lessici antichi – alle teorie cromatiche. Mi capitò anche un libro sulla funzione mitologica e rituale del colore fra gli antichi greci, una densa e utilissima monografia dell’istituto di Rustavi (la prima edizione in georgiano – esperienza di lettura davvero eccentrica! – poi per fortuna recuperata in inglese). Nel mondo greco una delle dimensioni che intervengono a definire il colore è quella emotiva e per noi lettori dell’oggi – fra l’altro così bersagliati e saturati dalle immagini (come non pensare all’analisi benjaminiana) è piuttosto arduo comprendere l’uso di un certo aggettivo o sostantivo in riferimento alle sfumature di un oggetto. Ci è difficile, più difficile che in altri ambiti, raggiungere quel grado di straniamento così da riuscire a pensare in modo diverso; siamo troppo, fin troppo calati nell’incantesimo accecante della grafica, nel gorgo pubblicitario (e quando Benjamin scriveva si era solo all’inizio del grande stordimento luminoso). E in ragione di ciò, anche le ricostruzioni del colore sull’arte classica potrebbero talvolta risentire di sovrabbondanze e abbagli tutti nostri; quegli effetti un po’ vicini al Kitsch che si sono richiamati con una certa ironia ad incipit.
Ma tornando alle lingue antiche, non sono pochi i casi di assoluta incertezza per chi traduce, sebbene in linea di massima uno dei principi basilari per cui si orienta l’idea greca del colore, oltre alla sfera sentimentale, è la luminosità. Altrettanto interessante è una vistosa differenza tra la gamma cromatica greco-romana e quella orientale. A Oriente – poi si potrebbe lungamente discutere sull’orientalismo della Grecia, sulle sue infiltrazioni asiatiche, perché di fatto l’Asia Minore era luogo conteso e patria di sorprendenti ibridazioni – l’azzurro, il blu erano molto diffusi, dotati di alto valore simbolico, per lo più legati alla sfera del sacro.
A titolo d’esempio la Porta di Ishtar, oggi al Pergamon Museum di Berlino; il suo rivestimento è interamente in mattoni smaltati di blu. Oppure, sul versante della cultura egizia, la maschera di Tutankhamon o gli scarabei. Per quanto riguarda la Mesopotamia la presenza del blu dipende dal fatto che questa regione si trovasse lungo le vie commerciali che portavano i lapislazzuli dall’Afghanistan verso l’occidente. Erano gli stessi mercanti mesopotamici a gestire questo commercio, come ci è noto da documenti paleoassiri datati all’inizio del II millennio a.C. I lapislazzuli erano costosi, dunque appannaggio dei regnanti: gli oggetti d’arte che presentano un rivestimento in smalto blu o incrostazioni di pietre dello stesso colore fanno parte del corredo di tombe reali o principesche. Ciò vale anche per l’antico Egitto, dove i faraoni scambiavano l’oro con le pietre preziose in arrivo da oriente.
Per le città greche e la repubblica romana delle origini usare il blu prodotto dai lapislazzuli sarebbe stato una spesa eccessiva e anche quando l’impero romano fu abbastanza ricco da importare senza difficoltà pietre preziose, questo commercio non vi attecchì. In età arcaica per i greci e i romani il blu era stato un colore difficile da reperire e questo fu uno dei motivi fondamentali per cui anche la parola stessa con cui riferirsi alla sua gamma cromatica tende a sfuggire al vocabolario. La presenza più o meno affermata di un colore, la capacità di produrlo con facilità e dunque di identificarlo con chiarezza, ebbe infatti una grossa influenza sul lessico.
Una storia affascinante e ancora da esplorare in molte delle sue declinazioni, che non si ferma allo studio delle opere d’arte ma coinvolge gli usi della lingua, le manifestazioni cultuali, i processi di stratificazione dell’immaginario collettivo, le sensibilità dei singoli artisti, letterati, pensatori, in un’osmosi estremamente ampia, che presuppone altrettanta versatilità negli osservatori-lettori.

(Di Claudia Ciardi)

 




Ricostruzione di un tempio greco con Gorgone sul frontone

 

Urna con tracce di colore - Museo lapidario Maffeiano - Verona
Foto di Claudia Ciardi ©


3 maggio 2015

La via dell'arte tra oriente e occidente




Dio greco del vento, da Hadda (Gandhara, attuale Afghanistan), II secolo - Dio del vento, Grotte Kizil (Bacino del Tarim, Xinjiang, Cina), VII secolo - Fujin, Dio giapponese del vento, XVII secolo.

Prendo spunto dalla monografia La via dell’arte tra oriente e occidente a cura di Mario Bussagli per tornare a un argomento di grande rilevanza culturale, le contaminazioni che per due millenni hanno contribuito a unire due parti di mondo, di cui troppo spesso, a livello di alcune analisi desolatamente banalizzanti, si sono volute evidenziare le differenze.
Un tema che oggi peraltro, in conseguenza dell’imporsi di un punto di vista semplificato per non dire falsato, che certo finisce per essere anche il più rassicurante in virtù della sua maggiore accessibilità, vive una stagione quanto mai impopolare, ciò annidandosi proprio nella radicata inconsapevolezza delle persone, dove la politica degli etnocentrismi e dei separatismi ha buon gioco. Nel medioevo, gloriosa stagione per tutto il Mediterraneo, pur tra tensioni e conflitti, furono aperti straordinari sentieri di dialogo che per quanto riguarda l’arte italiana hanno fruttificato in esempi di rara perfezione come il romanico pisano, con le sue citazioni moresche, la cappella palatina di Palermo dipinta da artisti fatimiti, la basilica di S. Marco a Venezia, così sfacciatamente bizantina.   
Ma il Mare nostrum di allora fu anche quel bacino da cui salparono commercianti, avventurieri, esploratori diretti nella penisola anatolica, sulle vie carovaniere dell’Iran e del sud-est asiatico fino ad approdare in Cina. La paura dell’altro si accompagnava alla volontà, più forte, di mettere in contatto due mondi. L’amicizia tra Kublai Khan e Marco Polo, divenuto suo fedelissimo cortigiano, ha un valore enorme, non solo come esperienza personale che ha unito due grandi protagonisti della storia, ma come dono fatto all’umanità che in loro trova una testimonianza di durevole scambio, comprensione e fiducia incondizionata, nonostante o forse grazie alle loro differenti culture. E che dire del gesuita milanese Giuseppe Castiglione (1688-1766), alias Lang Shih-ning, considerato ancora ai giorni nostri il più grande ritrattista cinese?
Ad avvicinarsi a questi personaggi, che secoli or sono hanno messo in discussione le loro origini per abbracciare la storia di altri, si è presi da ammirazione ma anche quasi da sconcerto, ed è proprio in questo declinarsi delle nostre sensazioni che secondo me si affaccia il tarlo della cultura in cui siamo immersi, una cultura belligerante, da barricata, esclusivista, eurocentrica – nel senso peggiore e peggiorativo, che esaspera cioè e stravolge i valori occidentali e che, inevitabilmente, ci condanna all’ignoranza.
Proprio in queste stesse settimane in cui ho ripreso in mano la pubblicazione di Bussagli, mi capita di trovare altrettante interessanti considerazioni su questi temi nel bel libro L’ipocrisia dell’occidente di Franco Cardini, medievista ed esperto di cultura araba e orientale, appena uscito per Laterza. Cardini affronta il problema del fondamentalismo islamico, sgombrando il campo da non poche letture di comodo che si sono accumulate, ma sarebbe più giusto dire ingolfate, negli ultimi quindici anni (dopo l’11 settembre). Si tratta di pregiudiziali pesanti, sbandierate anche per soldi da molti cosiddetti analisti  – è apprezzabile il fatto che lo storico denunci questi meccanismi senza mezze parole e soprattutto non perdendo di vista il passato, in un confronto costante tra oggi e ciò che fu secoli fa. Le cose vengono allora riportate alle giuste proporzioni, che non sono né belle né brutte, né buone né cattive, sono quelle del tempo, dell’incontro e dello scontro che però seppe tenere vivo il fuoco della conoscenza reciproca che si scopre di natura assai diversa dalla nostra paralisi culturale. Ne riparleremo in seguito.
Quel che mi preme sottolineare è che nella storia le avventure migliori, i passi più esaltanti sono in genere accompagnati anche dalle minori limitazioni verso il mondo esterno. Nel mondo antico viene da sé guardare al progetto di Alessandro Magno che fece capitolare il Gran Re, spingendosi fino alla valle dell’Indo, sposò un principessa dell’Afghanistan (satrapia nota all’epoca col nome di Battriana) e pure dai suoi ufficiali pretese che si unissero a donne locali: si tratta delle famose nozze collettive di Susa del 324 a. C. Era guerra, certo, ma c’era anche, anzi direi soprattutto, l’idea di mischiare usi e culture. E se la vita di Alessandro Magno fosse stata più lunga? Di quali incredibili sincretismi si sarebbe fatto promotore, se già nel suo brevissimo passaggio l’ellenismo da lui diffuso è riuscito a radicarsi in maniera tanto sbalorditiva?
Sfido qualsiasi appassionato a negare di essersi posto simili domande dopo aver letto questa storia. 
Ma c’è anche il rovescio della medaglia, il fosco epilogo della spedizione di Crasso, immobiliarista ante litteram, venale, malato di potere che sfidò, lui militarmente impreparato, il modernissimo esercito dei Parti, ostinandosi a muovere le legioni romane contro le temibili formazioni di arcieri persiani, la cui tecnica di combattimento era avanti di secoli, già proiettata al medioevo. Sulla fine di Crasso pende l’orribile sentenza aurum sitisti… risuonata nelle orecchie di generazioni di studenti. 
Personalmente ammetto di aver tifato anche per Antonio e Cleopatra, e prima ancora (ma meno) per Cesare. L’apertura all’Egitto, cercata dal già anziano condottiero romano, sebbene in termini per lui strettamente utilitaristici – l’Egitto era il granaio del Mediterraneo – diviene con Antonio vero e proprio progetto politico e culturale. La vittoria di Antonio avrebbe significato spostare Roma a oriente e forse instaurare un potere più forte, più contaminato, più disponibile agli influssi esterni, più inclusivo e animato da complicità a livello di rappresentanza, di quanto non fu quello augusteo (per quanto si parli di pax e floruit letterario, ma ricordiamoci che Augusto mandò in esilio il suo poeta migliore, Ovidio, e che la sua pax fu più propaganda che realtà).
Insomma, la monografia di Bussagli incentrata sulla via dell’arte tra est e ovest, ha il merito di far riaffiorare nel lettore molti di quei momenti storici nei quali la bilancia sembrava pendere a oriente, senza che ciò significasse una preminenza di tale universo culturale sull’altra parte, bensì il pungolo a sviluppare quelle potenzialità politiche e culturali che un occidente altrimenti chiuso e ripiegato su se stesso rischiava di volgere contro di sé. Leggere il resoconto di questo storico dell’arte mi ha permesso di colmare diverse lacune e anche di tornare a interrogarmi su temi che mi hanno sempre affascinata. Considerando che la rivista in questione ha visto la luce nel 1986 fa un certo effetto trovarsi sotto gli occhi, subito dietro l’introduzione, l’immagine dei Buddha di Bamiyan, che ci guardano nelle loro millenaria perfezione investiti dal riverbero del tramonto, sotto una corona di monti innevati. La distruzione fondamentalista, dentro quello scatto, è ancora di là da venire. Adesso le foto stanno lì, anche con un certo piglio accusatorio, per noi che ora sappiamo e che, nei nostri rapporti con quel mondo, abbiamo troppo sbrigativamente abbandonato le vie millenarie che ci avevano schiuso una comunicazione, una conoscenza. Ci siamo comportati giocando a campana con la storia ma a forza di salti siamo inciampati e mentre ci rialzavamo le caselle avevano mutato di posto, non erano più le stesse.

(Di Claudia Ciardi)


La via dell’arte tra oriente e occidente. Due millenni di storia.
a cura di Mario Bussagli,
«ArteDossier», Giunti, 1986 

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Oriente-Occidente

Storie di eremiti



Amuleto: Thoth raffigurato come un Ibis con Maat. Porcellana, 664-332 a.C 
dimensione: 2.5cm


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