Hugo Ball al Cabaret Voltaire in costume di scena (1916)
La
Fondazione Brescia Musei e il Santa Giulia proseguono il ciclo di grandi mostre
inaugurato lo scorso anno con la rassegna sugli esordi di Marc Chagall in
Russia. Giunto quasi alla sua conclusione, desidero spendere qualche parola su
un evento di particolare interesse che ha inteso celebrare il centenario della
nascita del dadaismo, immaginifico quanto frastagliato cantiere delle arti
aperto in Svizzera nel febbraio 1916.
Si
tratta di un’esposizione molto curata che riesce a incanalare buona parte delle
performance dadaiste in un percorso tematico avvincente, senza smarrire un
opportuno principio di coerenza, cosa che altrimenti renderebbe difficile
seguire una vicenda culturale così variegata.
Il
dadaismo infatti nasce da molti semi diversi, un amalgama di ingredienti
geografici, etnici, storici che fanno massa critica nella libera e pacifica
Zurigo, terra di esuli e rifugiati in un’Europa sventrata dalla prima guerra
mondiale. Vi si ritrovarono artisti che desideravano proseguire la loro opera e
studenti che volevano continuare l’università, più in generale e semplicemente
uomini preoccupati di non andare sotto le armi, impegnati a preservare un’altra
idea di mondo, in evidente collisione con le classi dirigenti dell’epoca.
In
tal senso la fase pre-dadaista mostra molto bene i chimerici indirizzi, tra
loro spesso diversi nella sostanza e negli esiti, che alimentano questo
insolito fenomeno, destinato a far parlare di sé abbastanza a lungo,
spartendosi poi in numerosi rivoli, dopo la conclusione di quello che si
potrebbe definire il periodo più tempestoso e creativo, dalle serate al Cabaret
Voltaire, nel ’16, all’immediato dopoguerra. Dai tardosimbolisti francesi, alle
forme giovaniliste dell’espressionismo tedesco con cui la nuova avanguardia
svizzera si confronta in maniera piuttosto serrata, alle ricerche strutturali
su testo e immagine divulgate dall’avanguardia russa, fino all’idea di un’arte
che superasse l’arte, elaborata da Marcel Duchamp a partire dal 1912.
La
rottura dada fa perno sulla parola, discussa, rovesciata, sradicata, associata
a forme d’arte visiva funzionali di volta in volta a metterla in crisi o a
espanderne i limiti strutturali di significante e significato. Le esibizioni
provocatorie e senza centro di Tristan Tzara (1896-1963), poeta rumeno tra i
maggiori promotori del dadaismo, cui forse si deve anche l’aver coniato il
nonsense “dada”, sono exempla del
palinsesto che orienta tutta la rumorosa impalcatura di questo progetto. Ed
esattamente la provocazione è un segno che non va mai smarrito, attraverso cui
s’intende far passare un messaggio parallelo a quello abituale e innegabilmente
brutale della realtà, una sorta di telecinesi del pensiero con cui, anche in
una prospettiva di superamento delle vicissitudini della guerra, si potesse
mettere a fuoco un’alternativa culturale e politica per l’essere umano. Il
fatto che la corrente dadaista abbia iniziato a scorrere nel pieno del carnaio
bellico, non è questione secondaria e denota l’esigenza di un’evasione dal
mondo, una fuga, se però vogliamo dire fino in fondo, impegnata, una militanza
trasversale che ha visto confluire le esigenze di tanti giovani nelle forme di
un’immaginazione molto meno fine a se stessa di quanto si possa pensare a un
primo sguardo in superficie.
La
mostra è in massima parte incentrata sul rapporto tra la fucina originaria e il
Sud delle Alpi, la frontiera italiana che pure attraverso il futurismo incontra
e veicola “dada” nella penisola, dando vita ad affascinanti laboratori, come a
Roma, o a quello se vogliamo un po’ inaspettato di Mantova, alla luce del
carattere per certi versi appartato e perfino sonnacchioso della città. Ma c’è
un aspetto ancora più inconsueto, non sufficientemente approfondito credo, che
questa rassegna pone in risalto, ossia l’esperienza di “eremitaggio artistico”
del Monte Verità, ad Ascona, nel Canton Ticino. Un gruppo cospicuo di ingegni e
talenti, in cerca di un più genuino contatto con la natura, si ritirarono in una convivenza scandita
da arte, misticismo e anarchia. Eredi della filosofia naturista fondata da Ida
von Hofmann, è significativo che alcune delle personalità che qui si
incontrarono, fossero le stesse che si ritrovarono a Zurigo ad animare, neppure
un paio di anni dopo, le serate inaugurali della rivolta dada. Basti il nome di
Hugo Ball, figura immortalata nella locandina della mostra e personaggio di
spicco in questa vorticosa galassia, ma ancor più emblema della sua
implosione. Qui si scorge, infatti, in controluce l’impronta di una dadaismo
spirituale e mistico verso cui Ball tornerà convintamente proprio dopo la fine
della Grande Guerra, abbracciando un ostinato e definitivo ritiro al monte, in
condizione di solitudine. A questo proposito è interessante leggere la
testimonianza dello scrittore svizzero Friedrich Glauser che frequentò Ball ad
Ascona: « … una misura difensiva […] A cosa valevano la logica, la filosofia e
l’etica contro l’influsso di quel macello che era diventata l’Europa? Era una
bancarotta dello spirito. Ogni giorno se ne raccoglievano nuovi esempi […]. Era
un tentativo di distruggere i mezzi di cui il materialismo si era appropriato
per difendere il proprio mondo” (F. Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, Sellerio, 1991)».
Un
risvolto affatto secondario, capace di illuminare le ragioni del movimento
plasmato da Tzara, Arp, Richter e compagnia, attraverso le sue componenti più
intimiste e forse perciò anche maggiormente rivelatrici.
(Di
Claudia Ciardi)
Monte Verità, Ascona, Ritratto femminile. Archivio Fondazione Monte Verità
Related
links:
Catalogo: Dada 1916. La nascita dell’antiarte, Silvana Editoriale, 2016
* Le prese della mostra sono state autorizzate dal personale. Foto di Claudia Ciardi ©
Marianne Werefkin, Il cenciaiolo, 1917
L’internazionale dadaista a Berlino
Fortunato Depero, Tamburo al teatro dei piccoli, 1918
Cartolina che informa dell’uscita del primo numero della rivista «Procellaria» a Mantova
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