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29 novembre 2015

Die goldene Adele



Foto di Maria Altmann - Sullo sfondo il ritratto della zia Adele Bloch-Bauer


“Adele in oro” è il titolo di uno dei più famosi ritratti eseguiti da Gustav Klimt, su incarico di Adele Bloch-Bauer, moglie di un noto industriale ebreo austriaco. L’opera fece molto parlare di sé nel 2006, quando dopo una lunga vertenza legale, la signora Maria Altmann, erede e nipote di Adele, riprese possesso del quadro. In quell’occasione la tela e altre opere klimtiane appartenute ai coniugi Bloch-Bauer passarono dalla galleria del Belvedere agli Stati Uniti, patria adottiva della Altmann dagli anni della seconda guerra mondiale. 
La vicenda è ora tornata alla ribalta grazie al toccante film girato da Simon Curtis, che per il ruolo della protagonista ha scelto la bravissima Helen Mirren. Al di là della trama e dei dettagli che riguardano la realizzazione della pellicola, quanto mi preme sottolineare in queste poche frasi, è l’idea di “spirituale”, anzi volendo essere precisi, quella di appropriazione spirituale nel senso mirabilmente attribuito da Thomas Mann a tale concetto, che esce fuori dal lavoro di Curtis. Dipanare il filo di una memoria è forse uno dei compiti più ardui dal punto di vista cinematografico. Se poi a questa memoria si pretende di dare spessore storico, di collocare ogni suo fotogramma all’intersezione tra individualità narrante e epoca cui si richiama, allora le difficoltà aumentano di molto. In effetti lo sfondo Jugendstil del quadro, diviene una quinta allargata della cosiddetta età dell’oro nella cultura viennese. Un mondo elitario, perfino sfarzoso, alla cui affermazione l’interessamento e il denaro dei raffinati committenti ebrei diede un significativo contributo e forse anche una sua fisiognomica. Tutto questo è reso in modo essenziale, senza sbavature né eccessi retorici. Non ci si sofferma sul pianto per la razzia nazista né narcisisticamente si indugia troppo sulla bellezza di quella stagione, pure indubbia per non dire abbagliante. Questo tempo spazzato via dalla furia della dittatura, e quindi della guerra, emerge in via frammentaria, discontinua, un flashback interrotto singhiozzante, che riflette la fatica della protagonista ad avvicinare il passato causa il nodo emotivo che vi incombe.
Se come dice Giorgio Agamben, riprendendo un celebre assunto benjaminiano, il dramma dell’oggi consiste nell’incomunicabilità dell’esperienza, la Altmann è più che mai anello di congiunzione riluttante, quando non del tutto avverso, tra l’ammutolimento provocato dalla guerra, con le sue irrisarcibili lacerazioni, e un dopo che ha preteso ogni energia perché la vita riprendesse a scorrere nel suo alveo. Due fasi alle quali non si riesce a guardare senza sentirsi braccati, estinti. E così non sorprende che questo volgersi all’indietro avvenga all’insegna di un libro per l’infanzia, la storia di un ragazzo rapito dal vento e trascinato verso una straordinaria avventura, che la Altmann leggeva insieme allo zio, la cui copia gualcita ma salva esce fuori tra gli oggetti della sorella appena deceduta. Una novella echeggiata in quelle stesse stanze della grande casa viennese, dove Adele, creatura fiabesca di malinconica femminilità, sedeva in posa davanti a Klimt, e dove le porte in modo assai simbolico, quasi in ogni ricordo, si aprono per poi richiudersi alle spalle dei protagonisti. Un dentro-fuori che è anche un prima-dopo. Spazio e tempo tendono l’uno all’altro ma non si toccano, non conservano quell’intimità dialogante che di solito appartiene alla memoria, piuttosto emergono a loro volta come quadri staccati, senza cornice, troppo rapidi perché lo sguardo riesca a soffermarsi.    
Non è un caso se il film si apre su Klimt, di cui noi vediamo solo le mani e sentiamo la voce, lenta, calda, in una sala poco illuminata. La sequenza è dominata da toni in seppia, una vecchia fotografia dimenticata in un cassetto. Il pittore è già creatura spirituale, prima emanazione di una sfera quasi mistica, quella dell’arte, cui partecipa anche chi con lui entra in contatto. Perciò anche le altre scene in cui appare Adele sono dominate dai chiaroscuri, a voler definire una presenza che si intravede soltanto. Come se tutto, persino nel momento stesso in cui stava accadendo, non fosse completamente di questo mondo. Dunque non un semplice artificio per marcare la lontananza temporale di quell’incontro di anime ma precisa scelta espressiva per parlare di un qualcosa che travalica il sentire comune. Ed è proprio questo elemento, colto e ravvivato in un’orchestrazione perfetta, grazie anche al tema musicale composto da Hans Zimmer e Martin Phipps, a rendere convincente l’opera di Curtis. Un’appropriazione spirituale, si diceva, che libera la sua carica emotiva in un crescendo ad alta intensità, dall’addio ai genitori – ultima porta che si chiude definitivamente sugli anni spensierati della giovinezza  – fino al ritorno catartico nella vecchia casa dove i volti di familiari e amici si fanno di nuovo incontro alla protagonista, così come li aveva lasciati. Qui il cerchio si chiude, con quel che è andato perduto e quello che si è cercato di recuperare in un mutilo risarcimento postumo. Da alcuni punti di vista, il narrare di Curtis mi ha suggerito le atmosfere e la struggente pacatezza di Il posto delle fragole di Bergman, soprattutto nel commiato della protagonista dai genitori. Pur essendo scene concepite in modo assolutamente diverso, si può dire che una sensibilità di fondo le avvicini, almeno questa è stata la mia impressione. Tra l’altro solo pochi giorni prima, mi era capitato di vedere per la prima volta Kundun, il tributo di Martin Scorsese al Tibet. Devo dire che è stata una piccola fortuna, perché ne ho tratto tutto il fascino sprigionato da un sincretismo di opposti dove spirito e natura si congiungono in quell’unicum annunciato da Mann come piena affermazione dell’umano. E ancora una volta, in modo per l’appunto casuale, ciò mi ha evidenziato una singolare sintonia sentimentale con la storia della Altmann. Attimi di autentica strappati con sempre maggiore difficoltà all’incedere fragoroso del quotidiano e che facciamo fatica pure a riconoscere, qualora qualcuno riesca nell’impresa affatto scontata di raccontarceli. Non mi hanno quindi stupita alcuni commenti piuttosto freddi, che dimostrano l’aver ignorato del tutto lo scavo emotivo compiuto dal regista. Per me un’appropriazione spirituale è quando in autunno all’imbrunire mi capita di passeggiare rasentando il muro dell’orto botanico a Pisa, immersa in un silenzio e una luce irreali, oppure quando la domenica in campagna, a casa dei miei, sento entrare dalla finestra le note imprecise e ripetitive di un violino, e starei ore ad ascoltarlo, o ancora quando a Barcola, sul golfo di Trieste, mi ha sorpresa un temporale. Oppure… ma va bene, non c’entra granché o forse sì. Sono cose che non si possono insegnare; si sentono o non si sentono. Magari basterebbe a volte soffermarsi un po’ di più.

(Di Claudia Ciardi)



Maria Altmann Theme (soundtrack) 

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Klimt a Milano (La mostra di Palazzo Reale organizzata in collaborazione col Belvedere di Vienna)

Gustav Klimt - Secession

6 luglio 2014

Klimt a Milano




Milano rilancia il grande evento organizzato al Belvedere di Vienna nel 2012 con una rassegna di notevole interesse che riaccende l’attenzione sulla pittura di Gustav Klimt ma che ha soprattutto il merito di restituire una visione d’insieme dello spazio entro il quale operarono gli artisti della Secessione.
Giunta quasi al termine, la mostra milanese offre ottimi spunti per approfondire il complesso rapporto tra politica e cultura nell’impero asburgico alla svolta del XX secolo. Ampio risalto è dato, non a caso, agli esordi della carriera di Klimt, dai dissesti economici attraversati dalla sua affollata famiglia a seguito della crisi finanziaria del 1873, agli anni di apprendistato presso la Kunstgewerbschule che porteranno alla fondazione della Compagnia degli Artisti (1881). Questi inizi sono preziosi per capire in che modo si sia sviluppato lo stile klimtiano e soprattutto quali stimoli avesse ricevuto dall’ambiente che lo circondava. La scuola di arti e mestieri ci viene restituita come un luogo in cui era possibile imparare il disegno accademico e diverse tecniche di lavorazione dei materiali in maniera approfondita. Un bagaglio notevole e completo che testimonia alla lettera l’immersione nell’arte di un esteso gruppo di nuove leve del panorama creativo austriaco. Klimt s’impose all’attenzione del pubblico per una tela sul Burgtheater di Vienna, realizzata nel 1888 e nella quale sono riprodotti fedelmente i volti di ben centotrenta suoi assidui frequentatori. Ciò gli valse anche la definizione di virtuoso del ritratto. Grande indagatore della femminilità, a fronte di una produzione pittorica non così estesa – in tutto duecento tele – si contano migliaia di disegni dove Klimt registra le pose languide e disinibite delle modelle che vivacchiavano liberamente nel suo studio. Come Rodin, anche lui disegnava il contorno dei corpi senza distogliere gli occhi dai soggetti, attribuendovi principalmente valore di studio e di esercizio distensivo.
Il sodalizio col fratello Ernst (destinato a una precoce scomparsa a soli ventinove anni nel 1892) e il compagno di studi Franz Matsch fu alla base della Künstlercompagnie, attiva per quasi dodici anni, al centro di committenze importanti che approdarono alla decorazione di edifici pubblici. L’impero affidò il suo messaggio sovranazionale alla costruzione e al rinnovamento dei teatri nelle sue province, e il gruppo ottenne incarichi a Bucarest, Karlsbad, Fiume, Reichenberg. In seguito alla morte di Ernst, la tutela della giovanissima nipote, avuta con Helene Flöge, passò a Gustav. Venne dunque profilandosi una crisi per l’artista, che oltre alla perdita del fratello, appena pochi mesi prima aveva dovuto fare i conti anche con quella del padre. Col 1893 l’esperienza della Compagnia fu archiviata, proprio mentre era in discussione l’incarico per i cosiddetti “dipinti della facoltà”; la Commissione artistica del Ministero per il culto e l’istruzione, in una seduta del 15 gennaio 1892, aveva ventilato la possibilità di affidare la decorazione del soffitto dell’Aula Magna dell’Università a Matsch e ai fratelli Klimt.
Nel frattempo i contatti con Emilie Flöge, sorella di Helene, sporadici in un primo tempo divennero sempre più assidui. Gustav conosceva Emilie già nel 1891, come attesta un suo pastello in cui la ritrae diciottenne, fatto montare in una cornice dorata dipinta con fiori di ciliegio. È probabile che i Klimt avessero invitato contemporaneamente le due sorelle a posare per loro. L’affascinante Emilie fu la donna della vita di Klimt. I due coltivarono un rapporto estremamente libero, senza contrarre matrimonio, cosa che per i tempi non mancò di suscitare un certo scalpore. Creativa e indipendente la Flöge aprì nel 1904 a Vienna un atelier di alta moda in linea con le tendenze artistiche più innovative.
Andato in porto l’incarico per affrescare il soffitto dell’Aula Magna all’Università di Vienna sulla Ringstrasse (1894), Klimt iniziò a lavorare al ciclo pittorico che avrebbe dovuto rappresentare le quattro facoltà classiche delle università europee: filosofia, medicina, giurisprudenza, a lui affidate, e teologia assegnata a Matsch. Nel corso dell’elaborazione di questi pannelli allegorici Klimt maturò il distacco dallo storicismo per approdare a uno stile personale. Tuttavia, la committenza si rivelò una vera e propria grana con pesanti ricadute sulla carriera dell’artista. Anzi, non è esagerato dire che non si riprese mai del tutto dalle polemiche indirizzate al suo lavoro. Già al momento della prima presentazione, alla settima mostra della Secessione (1900), la Filsofia venne pesantemente criticata, soprattutto dai professori. La cosa si ripeté anche per la Medicina, trovando eco negli organi di stampa. Si è supposto che i contrasti sorti intorno ai due dipinti abbiano spinto Klimt a dipingere la Giurisprudenza in modo ancora più aggressivo. Oggetto del contendere fu non solo il ruolo delle dottrine universitarie nella società, ma anche il senso e lo scopo della sovvenzione dell’arte da parte dello Stato e dell’influenza che ciò poteva avere sulla libertà artistica. Si incrinò così pure il rapporto tra Klimt e Matsch. Quest’ultimo infatti dichiarò in una seduta della Commissione artistica dell’Università (marzo 1905) che non riteneva conveniente accostare i suoi quadri a quelli del collega. Non sorprende dunque che Klimt si ritirò dall’incarico il mese successivo. I toni esacerbati, la scarsa solidarietà ricevuta – uno dei pochi difensori fu Hermann Bahr – l’amarezza per una questione che andò calpestando senza riguardo alcuno l’uomo e l’artista, gli sottrassero molta energia anche per gli anni a venire. Per farsi un’idea dell’accaduto, è utile leggere i testi raccolti da Bahr a testimonianza dell’acredine, pretestuosa e dissennata, che rappresentanti delle istituzioni e più che discutibili esponenti del mondo culturale austriaco, riversarono su Klimt (si veda a tale proposito Polemiche su Klimt, Silvy edizioni, 2012).
La vicenda non poteva avere epilogo peggiore, dal momento che le tre tele destinate all’Università sono andate distrutte nell’incendio del castello di Immendorf (1945), dove erano custodite, durante la seconda guerra mondiale.
Di estremo interesse, all’interno dell’allestimento milanese, è lo spazio dedicato alla ricostruzione del Fregio di Beethoven (1902) cui non furono lesinati attacchi: entrato nel mirino del presunto decoro accademico, la nudità e la rappresentazione allegorica dei mostri rinfocolarono la polemica. Tra le diverse dichiarazioni dell’intellighenzia viennese rilasciate nell’aprile 1902 si legge: «Il realismo con cui allegorizza la voluttà e la lussuria è masturbazione artistica nel più sconsiderato senso del termine e sarebbe stato di certo più adatto per il Panoptikum di Präuscher [Museo delle cere situato al Prater] che come forma di consacrazione per il tempio di Beethoven». Inutile dirlo, con buona pace di questi velenosissimi dottori, ma il fregio è un’opera in cui la lotta vittoriosa del musicista, che non soccombe di fronte alle forze ostili della vita, follia, lussuria, malattia, è espressa con impareggiabile chiarezza iconografica e maturità stilistica. Impossibile non pensare che Klimt, al centro della bufera, non vi abbia riversato anche molto di ciò che stava vivendo sulla sua pelle.
Questo futile attacco frontale al pittore, lo si è detto, ne inaridì la vena creativa, assumendo il ruolo di vero e proprio spartiacque, che molto condizionò gli sviluppi successivi della sua arte. Nel 1906 si dedicò alla preparazione della Kunstschau che si tenne nel 1908-1909, nella quale trovarono spazio i primi fremiti espressionisti nelle opere dei giovani Schiele e Kokoschka. Tra le opere esposte, la Madre con due bambini (1909-’10), è indicativa di una nuova fase in cui Klimt sembra ormai aver chiuso col proprio stile decorativo, prediligendo toni scuri e orientandosi a una figurazione sobria e essenziale, più vicina all’espressionismo.
Nell’analizzare i principali snodi dell’attività klimtiana, la mostra milanese si inserisce a pieno titolo tra gli eventi che meglio ne raccontano l’ascesa all’interno di una società, quella asburgica di inizio Novecento, in preda a non poche contraddizioni e crisi identitarie.
Gli organizzatori rinnovano l’appuntamento per il 2015 sulla Ringstrasse a Vienna.

(Di Claudia Ciardi)


Gustav Klimt al cannocchiale sull’Attersee, 1904 - Fotografia alla gelatina d'argento, montata su cartone

Catalogo:

Gustav Klimt, Alle origini di un mito, Palazzo Reale, Milano, marzo-luglio 2014

In questo blog:

Gustav Klimt - Secession




Bildnis der Mäda Primavesi
, 1912
Ritratto di Mäda Primavesi 



Signora davanti al caminetto
, 1897‐98
Olio su tela, cm 41 x 66. Vienna, Belvedere


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