Vale senz’altro la pena spendere qualche parola sulla mostra di Edvard Munch (1863-1944), allestita a Palazzo Ducale a Genova per il 150° anniversario della nascita del pittore, che chiude i battenti proprio in questi giorni. Quello presentato è un Munch meno conosciuto e per certi versi inedito. È l’artista disegnatore, geniale creatore di incisioni, nelle quali si scorgono prove altissime di molti dei soggetti rappresentati su tela. L’intera sua produzione ammonta a 1789 opere censite. L’opera grafica, per lo più eclissata dalla forza dei dipinti, costituisce un grande bacino di idee nel quale Munch ha elaborato non pochi temi che alimentano il suo percorso artistico. Viceversa, da alcune tele ha in molti casi ricavato delle serie grafiche che gli hanno permesso di esplorare un identico soggetto, mettendone a fuoco possibilità e varianti. Questo modo di lavorare si nota ad esempio in Chiaro di luna, tela del 1893, e nelle omonime xilografie degli anni successivi. Restio a separarsi dalle sue tele – e comunque bisogna attendere il primo decennio del Novecento perché si celebri il vero e proprio riconoscimento della sua arte – è per lo più la vendita delle litografie a procurargli i proventi necessari al suo mantenimento.
Tra il 1903 e il 1907 Munch si divide tra Berlino e Parigi, partecipando a tutti i maggiori eventi artistici delle due capitali europee. Nel 1908 è costretto al ricovero in un ospedale di Copenahgen per disturbi nervosi; dimesso l’anno seguente, inizia a meditare di ritirarsi in patria. A partire dal 1916, anno dell’acquisto della tenuta di Ekely, vicino Oslo, Munch si costruisce un eremitaggio, per poter vivere immerso nella natura e circondato dalle proprie tele. Non accettava visite, con due sole eccezioni per uno spedizioniere e il pittore danese Pola Gauguin. Quasi tutti i locali della casa erano occupati da materiali di lavoro, compreso il famoso fienile, privo di copertura, nel quale i dipinti giacevano esposti alle intemperie e dove l’artista stesso era solito intrattenersi con le caviglie affondate nella neve. Questa consuetudine naïf di mischiare letteralmente i suoi lavori agli elementi naturali, un procedimento che lui amava definire “cura da cavallo”, era stato inaugurato per la prima volta durante gli inverni trascorsi a Berlino dal 1892 al 1896. Stando a quel che Munch dichiarava al riguardo, il suo intento era verificare la resistenza del colore e allo stesso tempo stabilire un legame tra opera e ambiente: ne scaturisce una esposizione, ai nostri occhi del tutto bizzarra e inconsulta, di tele letteralmente appese ai rami degli alberi, trasportate sulla sabbia dei fiordi, posate sulle chiome dei cespugli, abbandonate a paesaggi innevati.
Il pregio della rassegna genovese è mostrarci, da un punto di vista meno noto, i centri radiali dell’originalità pittorica di Munch, a partire dai suoi primi passi nell’ambiente artistico di Kristiania (Oslo). Il padre avrebbe voluto che frequentasse la Scuola tecnica ma dal novembre 1880, sotto l’influsso della zia materna, appassionata di disegno, e dei paesaggisti di Oslo, matura definitivamente la decisione di diventare pittore. Nell’autunno del 1882, prende in affitto, insieme a altri sei studenti di arte, uno studio in viale Karl-Johan, la strada più bella del centro cittadino. Inizia a cimentarsi in vedute urbane, nature morte, scorci paesaggistici: questi esordi sono di grande pregio e vi si intravedono motivi che torneranno nell’opera più tarda. Emblematici gli oli su cartone del Giardino con casa rossa, apparentemente incentrati su un idillio campestre, ma a ben guardare turbati da un’atmosfera che getta sull’osservatore un senso di disagio e impotenza: la casa, collocata sullo sfondo, sembra farsi largo a fatica tra la vegetazione; il giardino è incolto, alberi e piante tentacolari si tendono verso le architetture in un abbraccio soffocante. La ‘casa rossa’, struttura attorno alla quale si addensano inquietudini e visioni interiori, e soprattutto l’utilizzo in tal segno della campitura rossa, cuore vivo e martellante dentro il quadro, si impongono come motivi che avranno la loro piena celebrazione in La vite rossa (1898) e in La casa rossa (1926-1930). Nella prima tela, la vite è un tutt’uno con la facciata, di cui lascia fuori soltanto le finestre: la pianta, che non pare affatto una pianta, ma una enorme macchia di colore che occupa il centro del quadro, leviga e sovverte la nostra percezione della casa come universo rassicurante e pare un’emanazione dei pensieri del volto ritratto in primo piano. Nella seconda, la casa rossa è ancora una volta in posizione arretrata. Le pennellate sono più veloci, perfino abbozzate, tetto e facciata paiono quasi schiacciarsi l’una sull’altra e i colori formano un continuum cromatico con il terreno e il tronco del grande albero che occupa la destra del quadro e pare sul punto di inglobare l’intera la rappresentazione. Il debito con la pittura di Paul Gauguin è evidente. Come lui, Munch pensava che la natura non fosse il punto d’arrivo ma un mezzo attraverso cui esprimersi.
Il passaggio di Munch a Berlino non è indolore né privo di conseguenze per le sorti della pittura. L’artista norvegese è entrato nella storia dell’arte per aver gettato i semi dell’espressionismo e proprio la trasferta nella metropoli tedesca, con tutto il clamore che suscita, mette una seria ipoteca sull’affermarsi della nuova avanguardia. Il 5 novembre 1892 si inaugura al Verein Bildender Künstler di Berlino una mostra personale di Munch con 55 dipinti. L’esposizione causa una levata di scudi da parte della critica più ortodossa che giudica il pittore un “imbrattatele”, suscitando l’immediata reazione delle autorità, le quali decidono la chiusura della mostra il 12 novembre. Il “caso Munch”, esploso nel giro di una settimana, porta il pittore alla fama. Da allora la sua ascesa non conoscerà più battute d’arresto. Nel frattempo, dietro impulso di Max Liebermann, ben 65 artisti “moderni” protestano contro la Große Berliner Kunstausstellung che aveva rifiutato i quadri di Walter Leistikow (amico di Munch che nel 1902 gli dedica una litografia in cui lo ritrae con la moglie). Per solidarietà nei confronti del collega si risolvono ad abbandonare l’Accademia statale, dando vita alla cosiddetta Secessione di Berlino. Tra i suoi esponenti ricordiamo Lovis Corinth, Max Klinger, Oskar Kokoschka, Käthe Kollwitz, Walter Leistikow e lo stesso Edvard Munch. Il gruppo esporrà a Berlino, Dresda, Düsseldorf, Monaco, Copenhagen, Breslavia e continuerà a essere vitale fino ai primi anni del Novecento.
Durante il soggiorno berlinese Munch frequenta la birreria-circolo letterario «Zum Schwarzen Ferkel», luogo d’incontro di scrittori e critici favorevoli alla proposta delle avanguardie. L’influsso esercitato da Munch in Germania sarà durevole quanto dirompente. Nell’aprile del 1902, presenta per la prima volta il Fregio della vita alla quinta mostra della Secessione. L'evento suscita vivo interesse, soprattutto tra i giovani pittori del Nord Europa. In questo stesso periodo si procura una macchina fotografica e inizia a farsi autoscatti, tutti sovraesposti, duplicando nelle immagini scattate il suo stile pittorico fluido e trasfigurante. Intanto la relazione con la sua storica modella, Tulla Larsen, termina in modo drammatico. La donna vorrebbe essere sposata per creare una famiglia ma lui fugge il matrimonio come una condizione limitante del suo percorso artistico. L’ennesima discussione sull’argomento sfocia in una lite violenta e Munch si ferisce alla mano sinistra con un colpo di pistola. Verso la fine dell’autunno, a causa di un problema alla vista, raggiunge l’oculista e amico Max Linde a Lubecca. Costui gli commissiona una serie di ritratti dei suoi familiari. Munch realizza così i disegni e le acqueforti che costituiscono il Portfolio Linde.
E qui tocchiamo uno dei vertici della mostra di Genova. Le acqueforti dei Linde sono delle pietre rare e preziosissime all’interno della produzione munchiana. Di fronte alle consuetudini familiari l'artista non si muove fino in fondo a proprio agio, e anche nei ritratti il disegno lascia spazio a ombre ed è rivelatore delle ansie che circondano la vita domestica. Un esempio particolarmente significativo è La madre e il bambino che piange. Ma ancor più è all’aperto, nel parco di villa Linde che l’artista lascia correre la sua immaginazione. Il giardino si popola di enormi piante dall’aspetto lugubre e fantastico. Ne scaturiscono scenari inconsueti e notturni sognanti come nel magnifico Giardino di notte. Nel portfolio non c’è praticamente spazio per la serenità ed è un fatto che, subito dopo la partenza dai Linde, Munch lavori alle scene di Spettri, opera teatrale di Henrik Ibsen composta nel 1881.
Più o meno in questo stesso torno di anni l’artista si dedica a incisioni che per la scelta dei soggetti e per le modalità con cui vengono realizzate comportano un rovesciamento degli schemi rappresentativi tradizionali. La litografia Dopo la festa (1898-’99), mette al centro una comitiva i cui membri hanno l’aria di coboldi stretti tra un gendarme e un’ombra che non lascia scampo. Una simile atmosfera di oppressione la si può leggere sui volti di Il pescatore e sua figlia (acquaforte del 1902) e Il tavolo da roulette (1903).
A parere di chi scrive il bilancio dell’evento genovese è dunque estremamente positivo perché ha il merito di aver raccolto un patrimonio di opere disseminate per lo più in collezioni private e perciò misconosciute al largo pubblico. Un percorso stimolante in grado di suscitare numerose riflessioni e anche qualche utile ripensamento sulla creatività del grande artista norvegese.
(Di Claudia Ciardi)
Vite rossa
Catalogo:
Edvard Munch – Palazzo Ducale, Genova, 2013-2014, Gruppo 24 Ore Cultura
In questo blog:
«Nato il 14 luglio 1892, secondo di sette figli, a Baumgarten, sobborgo agricolo di Vienna. Il padre Ernst, d'origine boema, era un orafo. La madre Anna Finster, viennese di modeste origini, sognava di “calcare il palcoscenico” come cantante lirica. Aveva due fratelli artisti: Ernst pittore e Georg orafo, al quale si devono molte cornici di metallo di suoi dipinti. Klimt è stato l’spiratore e il fondatore della Secessione viennese, istanza di quel modernismo europeo che ebbe tra i suoi protagonisti di spicco personaggi come Jan Toorop, Fernand Khnopff, Koloman Moser, e soprattutto l’amico di tante avventure intellettuali e progettuali, Josef Hoffmann».
«Estate 1882. Carl e Felicie Bernstein ritornano a Berlino da Parigi con un gruppo di opere pittoriche di impressionisti. I Bernstein, emigrati nella metropoli tedesca dalla Russia, avevano acquistato tele di Manet, Monet, Sisley e Pissarro. Questi lavori formano il cuore della prima collezione di arte impressionista a Berlino. La casa dei Bernstein era il luogo di un salone settimanale, frequentato da artisti quali Adolph Menzel, Max Klinger e Max Liebermann, e da storici e critici come Theodor Mommsen e Georg Brandes. Un anno più tardi, nell’ottobre 1883, l’ampio pubblico ebbe l’opportunità di vedere queste pitture, essendo incluse in un’esposizione di impressionisti alla Galerie Fritz Gurlitt di Berlino».
«Come Alan Watts già preconizzava nel suo celebre scritto sul taoismo (La Via dell’acqua che scorre, Ubaldini, 1977), in Cina la dimestichezza con il linguaggio e le pratiche del progresso avrebbe quasi definitivamente sradicato la familiarità con gli antichi saperi. Sono pensieri simili a quelli espressi da Gao Xingjian che ho avuto il piacere di sentir parlare e conoscere qualche anno fa, poco dopo aver letto il suo capolavoro sulla Cina ‘perduta’, La montagna dell’anima, toccante pellegrinaggio di un ‘uomo senza qualità’ che nel corso della propria odissea orientale riflette sulle devastazioni del capitalismo».
Da sinistra: Elsa Glaser, Jappe Nilssen, Albert Kollmann, Christian Gierloff e Edvard Munch a Kristiania (Oslo) nel 1913
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