Presentiamo in due parti una breve riflessione sulla crisi in Ucraina. Desideriamo mettere per scritto qualche idea che ci è venuta da diverse letture, più intensamente condotte a cominciare dal bagno di sangue dello scorso 20 febbraio, quando i cecchini hanno preso di mira i manifestanti di Majdan, lasciando per strada cento morti e cinquecento feriti. Delle tante immagini registrate dagli inviati nel disastro di quelle ore, una ci ha colpito in modo particolare perché coglie in pieno molte delle stridenti contraddizioni del nostro tempo: «Al centro del viale Kreshatik, di fronte a un caffè elegante e a una boutique di moda con surreali cartelli “chiuso per rivoluzione”, c’è un capannello di una cinquantina di persone che prega. Ai loro piedi otto cadaveri allineati». Tempo fa in un reportage dal Medio Oriente, leggevamo che in un quartiere di Baghdad, una città che nel corso del 2013 è stata martoriata da una terribile sequela di attentati, dove ancora le interruzioni di corrente elettrica si protraggono per buona parte della giornata, esiste un centro commerciale superlusso, protetto da guardie armate, in cui è possibile togliersi più di uno sfizio, come acquistare un profumo per sessantacinque dollari. Il consumismo arriva dappertutto e, a quanto sembra, la convivenza con la morte non incide affatto sulle sue caratteristiche.
Difficile analizzare tutto questo. In prima battuta, si resta più che altro disorientati.
L’Ucraina si è finora rivelata un pantano per la diplomazia internazionale, che comunque dall’una e dall’altra sponda pare abbia lavorato senza sforzarsi più di tanto e senza variare di una virgola modelli preconfezionati e ormai scaduti.
Che la frontiera orientale sia una soglia inquieta e un cosmo assolutamente peculiare ce lo spiega in maniera straordinaria Joseph Roth nel suo capolavoro, La marcia di Radetzky, romanzo del 1932, nel quale è rievocata la fine dell’impero austro-ungarico. A lui dedicheremo il nostro secondo articolo.
Qui ci limitiamo a sottolineare che la questione ucraina è uno strascico della prima guerra mondiale. Questa eredità problematica trova spazio nell’opera rothiana, la quale si chiude non a caso con lo scoppio del conflitto che sorprende i reparti austriaci proprio al confine tra Russia e Ucraina. La lunga mano della guerra si stende gradualmente sui personaggi, braccandoli sempre più da vicino fino all’inevitabile confronto con la morte. È la cronaca, se vogliamo, di uno scivolamento della storia verso un compimento annunciato.
Vogliamo quindi riproporre e discutere la conclusione del romanzo, perché ci sembra compendiare ciò che al momento accade in questa agitata frontiera del vecchio continente. Ma su tale aspetto ci soffermeremo la prossima volta.
Kiev-Pechersk, 1895
Ogni settimana che passa, districarsi nel pasticcio ucraino è impresa sempre più difficile. Osservatori, analisti, diplomatici non fanno in tempo a disegnare scenari e ipotizzare soluzioni, che puntualmente, poche ore dopo, il banco salta. Ultima delle tante clamorose retromarce che hanno costellato il tesissimo dialogo tra cancellerie occidentali e vertici russi, l’accordo di Ginevra lo scorso 17 aprile. Tre giorni dopo, uno scontro a fuoco nella città separatista di Sloviansk, ha quasi mandato tutto a monte. Forse però, bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che ciò che è stato siglato in Svizzera un paio di settimane fa, solo con un grande esercizio di fantasia delle parti avrebbe potuto tradursi in una seria soluzione del problema. Firmare una carta affatto stringente sul disarmo, priva di indicazioni pratiche su come si sarebbe dovuto realizzare sul campo, senza pertanto spingere la Russia a scoprirsi e a mettere nero su bianco una collaborazione fattiva con il governo ucraino in tale senso, ha regalato parecchi punti a chi scommette sul caos in Ucraina. E si sta facendo anche di peggio. I tentennamenti dell’Occidente, dentro i quali si annida una preoccupante stanchezza nella gestione delle crisi internazionali – al di là delle sanzioni pare esserci poca lucidità per considerare altro – rischiano di arare il terreno proprio a quella violenza che può far da alibi a qualsiasi escalation. Ogni volta che leggo di nuove sparatorie nell’est dell’Ucraina, non posso far a meno di pensare alle alacri manovre del regime hitleriano per creare il proprio casus belli con la Polonia. Ricordiamo, a titolo d’esempio di quella torbida stagione, l’incidente del 10 agosto 1939, quando Reinard Heydrich in persona ordinò a Alfred Naujocks, Sturmbannführer, oltre che futuro terrorista e falsario, di inscenare con i suoi agenti un atto di sabotaggio nella zona di confine, alla stazione radio di Geiwitz. I retroscena di questo episodio, in cui le SS lasciarono il cadavere di un militare polacco sul luogo dell’attentato come prova della paternità dell’azione, vennero poi alla luce in seguito alle deposizioni rilasciate da Naujocks al processo di Norimberga.
Eppure nel “grande gioco” tra Oriente e Occidente lo stesso Putin è una pedina che organizza mosse contraddittorie, le quali tradiscono, oltre i roboanti proclami, l’assenza di una vera e propria strategia. Al di là del principio vecchio di una decina di anni, formulato da Vladislav Surkov, ideologo dell’attuale regime russo, secondo cui la sovranità non è solo un diritto ma una capacità, non si intravede in alcun modo come, facendo leva su questa teoria politica, possano essere elaborati nuovi e concreti indirizzi per affrontare i problemi che stanno sul tavolo – l’Ucraina ma anche la Siria, situazioni tra loro sempre più pericolosamente allacciate.
La base navale di Sebastopoli (Crimea) ospita la flotta russa dal 1738. Il contingente militare presente in città è di 14.000 unità. Porto da sempre strategico per la Russia, dal momento che attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli le assicura in inverno uno sbocco nel Mediterraneo e nell’Oceano indiano, quando le basi del Baltico e del Mar Bianco sono impraticabili a causa del ghiaccio, la sua importanza si è improvvisamente accresciuta nel marzo 2011, all’inizio del conflitto siriano. Da qui infatti Mosca coordina i movimenti della propria flotta a Tartus e Latakia.
Putin sembra smanioso di usare l’Ucraina per una dimostrazione di forza, sia nei confronti degli occidentali, rei di aver smarrito leadership e integrità morale, sia verso i propri nemici interni – non è da sottovalutare il rinfocolarsi del terrorismo nell’area caucasica; così stando le cose salta qualsiasi lettura “lineare” del conflitto. Quando in politica estera c’è in ballo l’emotività, e la Russia putiniana nell’attuale vicenda ne mescola molta al già di per sé confuso corso degli eventi, allora è possibile tutto e il contrario di tutto. Ci si interroga se dietro l’atteggiamento russo non vi sia l’intento di alzare la posta in gioco, per proporre agli occidentali un rinnovato patto sulle grandi crisi e la cooperazione in Europa. Potrebbe darsi, ma va detto che in una fase tanto concitata andare al rilancio è quasi come entrare in una polveriera con un fiammifero acceso. Fatti presenti questi elementi, persino buona parte dell’armamentario da guerra fredda, frequentemente tirato in ballo da tanti che scrivono sulla crisi, va adattato a un contesto per molti aspetti inedito. Si ha l’impressione, semmai, che lo stesso capo del Cremlino, a corto di argomenti, si spinga sul filo delle allusioni a quel clima per seppellire ogni trattativa sul nascere.
Negli stalli delle situazioni siriana e ucraina – da una parte una guerra civile cruenta che va avanti da tre anni nell’indifferenza generale, dall’altra una guerra civile che rischia di deflagrare e avere un decorso non meno lungo e drammatico – si scontano inoltre diversi omissis e errori nelle relazioni tra Russia e Occidente degli ultimi vent’anni. Con la fine della guerra fredda si è continuato a trattare i russi come nemici sconfitti. Nel 1991 diversi sondaggi indicavano che l’80% della popolazione russa aveva una buona opinione degli americani. Nel ’99 il dato si era ridotto al 20%. Nel 2000, quando è andato al potere, le posizioni di Putin erano tutto sommato concilianti verso l’Occidente. Ha sostenuto l’invasione dell’Afghanistan e smobilitato le basi sovietiche a Cuba e in Vietnam. L’eterno belligerante George W. Bush ha subito ringraziato con delle mosse alquanto discutibili, espandendo la Nato nel Baltico e nei Balcani, decidendo l’invasione dell’Iraq senza il mandato dell’Onu, dando sostegno alle rivoluzioni colorate in Ucraina, Georgia e Kirghizistan. Questi pasticci hanno creato un circolo vizioso che influisce tuttora sui rapporti USA-Russia e inevitabilmente fa traballare i negoziati.
Non è infine trascurabile la complicata situazione economica in cui versa l’Ucraina. I debiti pesano e, lo si è visto, vengono agitati come uno spauracchio dai russi che promettono di rimpinguare le casse di Kiev. Ma tra il dire e il fare, si infila sempre quella tentazione propagandista che sposta i termini della questione. La rabbia degli ucraini si è indirizzata principalmente alla corruzione della propria classe dirigente, uno stato d’animo che in questo momento scuote e risveglia le coscienze di molti popoli in diverse parti del mondo. Majdan ha convogliato buona parte di questa frustrazione e del rifiuto di uno stato corrotto. Non lo si è detto né scritto abbastanza. Di fronte a tale problema, l’Europa non può pensare che il compitino del Fondo monetario pervenuto al ministero dell’economia ucraino possa far cambiare l’aria che si respira nel paese.
Nei futuri incontri diplomatici bisognerà tenerlo ben presente e cominciare a mettere a fuoco una via percorribile, se si vogliono neutralizzare certi proclami russi. Sarebbe inoltre auspicabile un ravvedimento di entrambe le parti – a ovest si dovrebbe fare uno sforzo di volontà e lavorare in maniera un po’ meno scoordinata e sorniona di quanto si è visto finora, a est si spera che più di qualcuno si stia accorgendo di aver imboccato un vicolo cieco.
(Di Claudia Ciardi)
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Il Caffè geopolitico – Dossier Ucraina
«La situazione in Ucraina peggiora e le opzioni militari cominciano purtroppo ad affiorare. Abbiamo trattato il tema dal punto di vista politico, strategico-militare, mediatico e vi presentiamo una serie di contenuti speciali con opinioni, foto e video per capire meglio»
A cura di Claudia Ciardi:
L'estrema destra "forconista" in Piazza Majdan c'è stata e c'è. La propaganda putiniana ne ha fatto una clamorosa strumentalizzazione, promuovendo la crociata contro i "fascisti di Kiev". Tuttavia non pochi opinionisti occidentali, in maniera altrettanto scorretta, hanno preferito glissare su una presenza molto scomoda.
Si veda l'utile sintesi di Guido Caldiron, «Il Manifesto», 21. 2. 2014: «Macerie d'Europa. L'estrema destra vuole l'escalation».
In questo blog:
«Parallelamente alla crisi economica che da diversi anni affligge gli stati membri dell’Europa occidentale, è cresciuto il dibattito attorno ai paesi che occupano la metà orientale del vecchio continente. Tra aspettative e demonizzazioni l’intellighenzia figlia di un occidentalismo oltranzista, in preda ormai alla stanchezza senile, continua a guardare a est con non poco scetticismo, mostrando spesso nelle proprie analisi scarsa obiettività. L’eredità di atteggiamenti coltivati in piena guerra fredda è dura a morire e continua a infiltrare l’evolversi dei rapporti tra europei occidentali e orientali».
«Il ‘decalogo’ che ci scorre sotto gli occhi mostra in tutte le sue sfaccettature il processo che comporta l’occupazione dei vertici dello Stato e di ogni posizione disponibile nella società da parte di soggetti incompetenti e totalmente pervertiti dall’indottrinamento. Si tratta della messa a nudo di un vizio umano che nella Germania hitleriana conobbe una stagione trionfale, con tutte le nefaste conseguenze che ne derivarono, ma a fronte del quale ancora oggi è importante mettere in campo tutte le risorse disponibili per restare vigili e non cadere in tentazione».
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