Bettina Müller, Klaus Wagenbach, Ranieri Polese («Corriere della Sera») - foto di Claudia Ciardi
Klaus Wagenbach l’ho conosciuto lo scorso novembre al Pisa Book Festival, di cui è stato il primo ospite nella giornata di apertura. E non si sarebbe potuto sperare in un officiante migliore, dal momento che il paese attorno a cui ruotava l’intera manifestazione era per l’appunto la Germania. Per quanto non sia una frequentatrice di fiere, tuttavia l’atmosfera più raccolta se così si può dire che la rassegna pisana offre, rispetto alla dispersione da grande magazzino di eventi molto più rumorosi, e la presenza di Wagenbach, col suo carico di anni e esperienze editoriali, non poche delle quali nate sul limite della barricata, sono stati elementi sufficienti per decidermi a una visita. L’incontro con quest’uomo esile, apparentemente fiaccato dall’età, timido – ma è solo un’impressione legata ai due minuti d’inizio, quando si schiarisce la voce per sintonizzarsi col pubblico – non ha tradito le aspettative.
La casa editrice di Wagenbach festeggia quest’anno mezzo secolo di pubblicazioni. Un bel traguardo su cui sta scritta la caparbietà del suo fondatore. Klaus parla un tedesco lento, la cadenza berlinese in lui si ammorbidisce, diviene quasi sommessa, ma senza togliere peso a ogni parola pronunciata. L’ironia, e qui invece il tratto del berlinese affiora con decisione, è il filo che tiene insieme tutto il suo intervento e avvince gli ascoltatori alla sua storia personale.
Wagenbach ha in sé tutte le caratteristiche del tipo sopra le righe. Non molto teutonico, anzi affatto. E di tedeschi disordinati, fuori dagli schemi, disponibili a scelte radicali a livello sociale e culturale, per quella che è l’Europa contemporanea, ce ne sarebbe estremo bisogno, come ama sottolineare a più riprese nel suo discorso. Il tema è meno folklorico di quanto possa apparire di primo acchito. Klaus gioca sul filo dei luoghi comuni che accompagnano il confronto tra Italia e Germania, perché esattamente prendendo le mosse da un discorso leggero, ma con implicazioni culturali di notevole portata, si riesce a stabilire una dialogante sintonia tra due popoli che, pur tra numerose incomprensioni, non sono mai stati indifferenti l’uno all’altro.
Già nel modo in cui approda in Italia a ventuno anni, molto si comprende della singolarità dell’uomo. È il 1951 e si mette a esplorare il paese in sella a una bicicletta. Si perde letteralmente tra le campagne senesi, paesaggio dell’anima verso il quale sente un’affinità che lo spinge a tornare e a cercarvi «un posto per scrivere e pensare»: lo trova nel paesino di Monte dove decide di investire la piccola eredità paterna di cui dispone. Da trent’anni, nei periodi che trascorre in Toscana, si serve della macchina da scrivere che ha portato con sé nel suo primo viaggio.
Wagenbach è una pietra rara – ma sarebbe più giusto definirlo una roccia per la resistenza che ha dimostrato alle intemperie attirate dal suo lavoro – nel panorama dell’editoria indipendente. Si diverte a raccontare che la maggior parte dei suoi interlocutori, nel corso degli anni, non ha mancato di chiedergli come sia sopravvissuto. In questa domanda sono condensati quasi tutti gli atteggiamenti grossolani dell’epoca in cui viviamo, oltre a un malcelato dispetto per la longevità editoriale di questo personaggio d’eccezione. Una “sopravvivenza”, parola che la voce di Wagenbach veste di compiaciuta sprezzatura, che la dice lunga sul carattere dell’uomo. Non scendere a compromessi, è ciò che ha animato sempre le sue scelte e orientato i progetti culturali dei quali si è fatto promotore. «Un editore tedesco con simpatie per l’Italia (e per il socialismo) non ha una vita tanto facile». Così si apre il suo volume di memorie, edito da Sellerio nel 2013, ed è sulla scia di questa riflessione che evoca alcuni episodi chiave del clima asfissiante e censorio in Germania e Italia durante la guerra fredda. Nel ’72 al funerale di Giangiacomo Feltrinelli gli editori presenti sono soltanto due: Einaudi e lui. Sono momenti tesi, durante i quali chi è politicamente schierato paga dazio. Ricorda come negli anni ’70 la televisione tedesca si sia risolta a buttare nel cestino la produzione dell’Antigone di Sofocle, perché considerata opera scomoda; lo scandalo della negata sepoltura al nemico politico rischiava di accendere ulteriori animosità in uno scenario già compromesso.
Lo stesso impegno con cui ha lottato per i suoi ideali Wagenbach lo ha profuso nella realizzazione dei suoi libri, facendo molte scelte controcorrente. Ad esempio si è impuntato su Giorgio Manganelli, pur cosciente che avrebbe ottenuto ricavi molto contenuti. Il primo libro dello scrittore era stato infatti pubblicato dall’amico Feltrinelli, con sole 700 copie vendute. Wagenbach non ha superato le 500. Tuttavia rifarebbe ogni passo che lo ha portato a oggi. A tale proposito manifesta volentieri un altro dei suoi formidabili insegnamenti: da una parte sta la tasca destra (il capitalismo) e dall’altra la sinistra (gli oggetti a perdere, ossia i libri belli); e qui nasce anche un meraviglioso gioco linguistico, possibile solo in tedesco, con la parola Verlust (“perdita”, ma che ha in sé anche il termine Lust, “passione”).
Studioso di letteratura italiana e della poetica kafkiana – proprio a Kafka ha dedicato diversi scritti e altrettante ricerche – Wagenbach è la migliore incarnazione di un’editoria che fa cultura, con rimessa di mezzi e con un profondo coinvolgimento della persona, un’editoria che scuote la testa davanti alle mode e ai commerci.
Si può capire benissimo, dunque, perché mi sia spinta a raggiungerlo al tavolo della conferenza. Ci siamo intesi subito, già mentre gli davo la mano. Avevo con me un po’ d’aria di Berlino, essendo da poco tornata dalla “nostra comune patria delle lettere”, e le mie due ultime traduzioni pubblicate con Via del Vento. Si è informato sulla casa editrice – il nome non lo ha lasciato indifferente – e neppure la città, Pistoia, da lui frequentata alcuni anni prima, nell’occasione di un dibattito sull’editoria. E mentre cerca di ricordare l’episodio, compie un gesto che mi lascia di stucco. Con l’immediatezza e la semplicità delle brave persone mi regala la sua copia del libro. Uno scambio di xenia, in perfetto stile antico. Subito dopo, anche per togliermi dall’imbarazzo del silenzio sceso sugli ospiti a caccia di autografo, ai quali non era sfuggita la cosa, dice: «Aiutami, così non devo portarmelo dietro».
Credo che incontrare Klaus Wagenbach, oggi, abbia un significato particolare, per l’umanità e i valori che è in grado di trasmettere. Sguardo preziosissimo il suo, che ci ricorda alcune buone pratiche cui sarebbe opportuno tornare, se al “fare” si vuole anche associare la serietà dell’impegno e di conseguenza il messaggio che una simile posizione porta con sé.
(Di Claudia Ciardi)
Segreto bleu (Tecnica Mista) - Blaues Geheimnis (Mischtechnik)
di Sergio Beragnoli
Haus Opherdicke, Dorfstr. 29, Holzwickede
Aus der Ausstellung/ Dalla mostra «Begegnung», «Incontro»
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