Proseguiamo l’intervento sull’Ucraina, occupandoci della frontiera orientale dal punto di vista di uno dei suoi più profondi narratori, Joseph Roth. Originario di Brody, piccola città della Galizia, regione asburgica ora scomparsa, la più densamente popolata da ebrei all’interno dell’impero, ebreo lui stesso afflitto dalle chiusure della provincia ma anche consapevole dell’iniziazione poetica che quest’ambiente gli aveva regalato, Roth ha per l’arcipelago orientale una straordinaria predilezione, che riversa in pagine estremamente commosse. Si avverte, in questi quadri ovunque disseminati nella sua opera, tutto l’attaccamento a un mondo segnato da intrinseca fragilità e da un ineludibile destino di dissoluzione. Ucraina significa “regione di frontiera” e non è un caso che proprio in luoghi come questo gli eventi si concentrino in dorsali estremamente instabili. Anche un’analisi letteraria risulta quindi di assoluto interesse per comprendere il carattere di tali territori e il loro problematico inserimento negli assetti disegnati da vicini potenti e agguerriti.
Nei riferimenti rothiani alla terra di confine, in cui interviene certamente anche una dose di sublimazione, si colgono alcuni caratteri ricorrenti. Il primo è la natura che si impone con forza sugli uomini, i quali non riescono a opporgli resistenza – lo shtetl, il villaggio, è quasi un tutt’uno con l’ambiente che lo circonda e non ha nulla a che vedere con la distaccata astrazione delle città. In tal senso si può parlare di una sorta di paganesimo rothiano che nel celebrare la natura attua un ritorno ai Lares della propria infanzia e, in generale, della propria cultura. Di esempi se ne possono fare tanti, ma uno dei vertici, se si escludono i passi di La Marcia di Radetzky – in cui mi vengono in mente le belle descrizioni della Moravia in estate o l’arcaica serenità della campagna slovena – è senza dubbio l’immagine della Siberia, estrema propaggine dell’Oriente, in Fuga senza fine.
Ci sono poi gli abitanti della frontiera, la cui arretratezza non alimenta alcun disprezzo, semmai contribuisce a rappresentare quella dimensione epica che Roth rimpiange come ormai perduta alla vita e dunque alla scrittura. Se si analizza un testo incompiuto quale il Perlefter, o il lungo abbozzo (Fragole) che avrebbe dovuto fare da battistrada a un romanzo autobiografico sull’infanzia trascorsa in Galizia, vi troviamo condensati molti di questi motivi, puntualmente sviluppati e inseriti nell’opera per così dire maggiore. Figure di carrettieri, falegnami, osti, mercanti, girovaghi, piccoli bottegai, ebrei avvolti nei lunghi caffettani «come un campo di strane spighe nere al vento», un cosmo oscillante, i cui protagonisti fronteggiano ogni giorno le necessità dettate dalla sopravvivenza. Leggiamo insieme l’incipit del frammento autobiografico: «La città dove sono nato si trova nell’Europa orientale, in una grande pianura scarsamente popolata. Verso est questa pianura è infinita. A ovest è delimitata da una catena di colline blu, visibile soltanto in limpide giornate estive. Nella mia città natale vivevano all’incirca diecimila abitanti. Di questi, tremila erano matti anche se innocui. Una soave pazzia li avvolgeva come un nembo d’oro. Attendevano ai loro affari e guadagnavano soldi. Si sposavano e generavano figli. Leggevano libri e giornali. S’interessavano delle faccende del mondo. Conversavano in tutte le lingue parlate dalla popolazione assai composita della nostra regione».
Chi dalla cosiddetta civiltà approda alla frontiera, spesso ne viene sopraffatto. È questa una riflessione dominante gran parte di La Marcia di Radetzky, dopo il trasferimento di Carl Joseph, l’inetto rampollo della famiglia Trotta, nel reggimento dei Cacciatori, d’istanza al confine con la Russia. I soldati cadono vittime dell’alcol e del gioco, e non mostrano alcuna convinzione per i loro incarichi: «Nessuno era forte come la palude. Nessuno poteva reggere alla vita di frontiera. Verso quell’epoca i più alti capi a Vienna e Pietroburgo cominciavano già a preparare la grande guerra. Gli uomini della frontiera la sentivano arrivare prima degli altri; non solo perché erano avvezzi a presagire le cose, ma anche perché ogni giorno potevano vedere con i propri occhi gli indizi del disastro».
L’usuraio Kapturak, che compare anche nel Giobbe, nei panni di chi dietro un lauto compenso aiuta i soldati a disertare, è qui l’emissario di una corruzione che lentamente si infiltra nel mondo, nelle falle di una società che va esaurendo la sua forza: «Ai confini della monarchia austro-ungarica c’erano a quell’epoca molti uomini del genere di Kapturak. Essi cominciavano a volteggiare intorno al vecchio Impero come quei neri e vili uccelli che da infinita distanza adocchiano un moribondo. Con impazienti e foschi colpi d’ala aspettano la sua fine. Coi becchi ricurvi si avventano sulla preda. Non si sa da dove vengono, né dove volan via. Sono i pennuti fratelli della misteriosa morte, suoi nunzi, sua scorta e suo seguito».
Che siano i contadini di Sipolje, il villaggio sloveno dove i Trotta hanno origine, o quelli della frontiera ucraina, Roth ama trasmettere al lettore l’attaccamento alla terra, unico elemento certo e inamovibile, attorno al quale la vita si ripete con ciclica ritualità. In un passo piuttosto emblematico da questo punto di vista, nel romanzo Destra e sinistra, lo scrittore austriaco indica la sede della nostalgia nei piedi, ai quali il richiamo alla terra, al luogo di nascita è solito trasmettersi per primo: «È ai piedi che la nostalgia si è comunicata per primi, ai piedi, gli strumenti della peregrinazione».
Nei villaggi di campagna il tempo si modula sull’alternanza delle stagioni, arando una poesia che armonizza opere e giorni. La precarietà dell’esistenza avrebbe pertanto una compensazione nella maggiore autenticità che la sorregge.
Accanto alle effimere comparse di questi idilli, tuttavia, è il tempo storico che in La Marcia di Radetzky accentra e livella qualsiasi sviluppo della narrazione, correndo inarrestabile in quella “azione parallela” che è la guerra. Sebbene il conflitto sia ancora lungi dal deflagrare, il sentore della morte aleggia continuamente sui personaggi, che sia nell’aspetto sia nel comportamento ne portano addosso i segni. Si direbbe che Roth volutamente indugi sul carattere profetico della morte, sul suo lento insinuarsi nella vita, attraverso indizi all’apparenza di poco conto ma inequivocabili. Perfino nella parte finale del romanzo, quando ormai i giochi sono fatti, non abbandona questo espediente narrativo. I russi hanno già cominciato a muoversi lungo il confine e la loro presenza è annunciata dall’arrivo dei corvi: «I grossi uccelli neri erano immobili sui rami, frutti sinistri, piombati dallo spazio. Se ne stavano lì imperterriti, gli uccelli neri, gracchiavano e basta. Stepaniuk tirò dei sassi contro di loro. Ma i corvi si limitarono a sbattere due o tre volte le ali. Erano accoccolati sui rami come frutti nati dall’albero». Questa sinistra rivelazione che gli abitanti della frontiera, avvezzi a leggere nei cambiamenti della natura, colgono subito, era stata preceduta da un’altra non meno sconvolgente. La festa organizzata dal reggimento, oltre a essere l’occasione in cui affiorano al completo le ridicole manie di ufficiali e soldati – è la fotografia di un esercito in rotta prima ancora di approdare sul campo di battaglia – si trasforma in un evento più che surreale. Funestata da un temporale che costringe gli ospiti a riparare nel vicino castello, e che indispone l’animo degli organizzatori, la natura sembra voler a tutti i costi allearsi con la storia. E in effetti la notizia dell’assassinio dell’erede al trono non si fa attendere: irrompe in piena notte, mentre le orchestrine suonano morbidi valzer per accompagnare gli invitati verso l’ultima illusione.
Più volte Carl Joseph aveva preso e riposto l’uniforme nell’armadio, infine l’aveva sistemata nel proprio bagaglio dove «la personalità di soldato di Trotta giaceva, un cadavere ripiegato secondo il regolamento». Al destino non si scampa. Di lì a poche settimane inizia la mobilitazione, e anche nel momento della marcia dei soldati Roth non tralascia di elencarci quei dettagli che alludono alla disfatta: il fango che si richiude schioccando sugli stivali dei soldati, intralciandone il passo, è già di per sé un’immagine di sepoltura non solo dei singoli ma anche della storia cui appartengono.
(Di Claudia Ciardi)
In questo blog:
«Otto prose inedite in Italia. Otto “personaggi in cerca d’autore” che escono dalla penna di Joseph Roth come altrettante miniature fantastiche. Effimeri protagonisti di un’epica marginale e sofferta, comparse di un mondo sconvolto dalla guerra. Clowns e camerieri alle prese col carovita, fantasmi, maghi, fotografi come negromanti, un luogo di villeggiatura stregato dall’aria di ottobre, donne inghiottite dalle mode alle quali hanno irrimediabilmente svenduto la propria femminilità, viandanti stanchi del clamore e del vuoto incontrati in viaggio, che ora siedono malinconici e traditi a un angolo di strada».
«Concordemente al saggio di Kracauer sulla vita weimariana, la letteratura della flânerie emergeva da un’esperienza di vacuità e alienazione individuali e collettive, da un’esperienza della nullità [Nichtigkeit] dell’individuo. Insieme alla rassegnazione procurata dalla prima guerra mondiale, alla confusione di una rivoluzione tedesca, e all’incertezza che serpeggiava nei primi anni della democrazia di Weimar, questo filone letterario riflette pure in modalità visive l’insicurezza generata dalle innovazioni tecniche e dalla rivolta, eventi che aiutarono ad accrescere il numero di immagini liberamente accessibili nella sfera pubblica e nello spazio esterno della metropoli del tempo di Weimar».
Sfogliando il romanzo
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