attualmente esposto a Palazzo Strozzi per la mostra su Donatello, fino al 31 luglio 2022
Tra
i nomi più importanti nella letteratura italiana del Novecento, autrice di
romanzi che hanno lasciato il segno, ma anche poetessa e saggista, Elsa Morante ha prestato la sua penna al
mondo dell’arte scrivendo su Renato Guttuso, Bice Brichetto, Onofrio
Martinelli, Beato Angelico. E intervenendo nell’inchiesta a cura di
Perilli-Mauri pubblicata sull’almanacco letterario di Bompiani nel 1961, a
proposito della pittura come espressione connaturata all’uomo, dove ad esempio si legge: «Riguardo,
invece, all’arte propria del dipingere (pittura), non c’è dubbio che il suo
linguaggio si rinnova di continuo, come ogni espressione vivente e vitale; ma
si tratta sempre di un rinnovamento dall’interno e non dall’esterno, e, in tale
senso, il rinnovamento del linguaggio pittorico è in atto da molti secoli, e
non da dieci anni. Le crisi, cadute e deviazioni che spesso lo accompagnano non
negano la necessità della pittura, ma anzi confermano che quest’arte è una
naturale espressione umana, nata per accompagnare la vicenda umana fino alla
fine».
La
vera funzione dell’arte secondo Elsa Morante sarebbe di «impedire la
disintegrazione della coscienza umana nel suo quotidiano, logorante, alienante
uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e
frammentaria, e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale o, in una
parola, la realtà». (Da Pro o contro la bomba atomica, raccolta di scritti
pubblicati in volume da Adelphi nel 1987, prefazione a cura di Cesare Garboli). L’arte – intesa come creazione – è un antidoto ai mali,
alla sofferenza intrinseca all’esistere, e può dunque operare come potente virtù
taumaturgica, preservandoci dai colpi delle tempeste. Perché ci trasmette la
fiducia dell’attesa; facendo arretrare la disperazione, infondendo speranza.
Davanti a un quadro che viene a porgerci un’immagine a noi familiare, leggendo
una poesia che in quel momento prodigiosamente ci somiglia e parla al nostro
destino, ascoltando una musica da cui all’improvviso ci si sente afferrati,
vinciamo lo sconforto e si sperimenta una sorta di catarsi, un’energia
liberatrice che sgombra il campo dalle negatività.
Temperamento
burrascoso, donna vera, selvatica non misurata, in nessuna occasione
personaggio. Anche nel vivere l’amore. Basta leggere del primo incontro con
Luchino Visconti. Tante delle nostre precocissime letterate del qui e ora (scrittrici sì o no? La distinzione non è trascurabile, parola della Morante “atomica” che io, a costo di tradirla un pochino, dico litterata in senso etimologico, marchiata in altro fuoco), insomma le “ribelli e dannate” nostrane che venerano e
sfruttano ogni amplificatore mediatico, spettacolarizzando la sofferenza, al paragone hanno di che impallidire. La Morante quell’incontro lo ha
raccontato senza filtri anche nella sua brutalità che pure definisce amore,
amore carnale, piacere fisico puro che descrive senza tabù. Le sue emozioni
sono intense, viscerali dagli amori alle amicizie, dai sodalizi importanti alle
storie contrastate (Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, il già detto Luchino
Visconti, Giorgio Agamben, grazie a cui conobbe la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, sono alcune delle belle menti che hanno incrociato e
accolto la sua turbolenza); le sue sono ombre autentiche e autentica la luce
diffusa dalle sue opere. Quello della Morante è l’esempio di un carattere che
non si placa. In un tempo di poca sostanza e misuratezza calcolata se non
censoria, nella lux invicta del suo essere e della sua parola io mi ritrovo
e mi riconcilio. Evviva i caratteri e per fortuna che ci sono, perché è
nel carattere che si custodisce la scintilla del creare.
Il
saggio su Beato Angelico non viene per caso, in quanto questo grande è stato
uno degli “innamorati della luce” per eccellenza. Attorno a una definizione
tanto fortunata, si snoda infatti la bella scrittura della nostra autrice. E tutto
ciò che qui viene narrato si esprime senza giri altisonanti, senza sfoggi di
cultura. Piuttosto è l’umanità del pittore, affettuosamente chiamato Guidolino –
nomignolo d’infanzia che pure rimanda al calore e alla dolcezza delle cose su
cui i primi sguardi si sono posati – a venirci incontro con vivida poesia, con
un tratto gentile e, appunto, spontaneo. Nelle fluttuanti falsificazioni che ci assediano, nelle brutture che scambiamo per manifestazioni d’arte mentre
sono i frutti di una creazione mendace, nella mancanza di vera fede che ci ispiri
e guidi – ma le cattedrali si alzarono proprio nel tripudio di una fede – il
ritratto di Beato Angelico affiora come esempio di una limpidezza d’intenti
superiore, testimonianza di una profondità emotiva a noi preclusa.
Così
Elsa Morante in un passaggio chiave: «Nel mondo del Beato non c’è stata ancora
l’industria dei mass-media, coi suoi genocidi aberranti. […] La poesia popolare
è in quei giorni una creatura viva, respirante, piena di grazia e di salute». E
ancora: «Il luogo dell’assenza, per i poeti, è la lirica: dove la conversazione
non è più col mondo esterno ma con un altro interlocutore intimo, punto ultimo
e inaccessibile del sentimento o dell’intelletto. Per l’artista Beato, questo
luogo, o rifugio, s’è identificato fisicamente nel convento di San Marco, che l’ha
ospitato per gran parte della sua vita, prima come frate e poi come priore. E
là, nella sua casa – dove ogni cameretta assegnata per i riposi era anche la singola cella consacrata alle meditazioni, e dove ogni pasto nel
refettorio comune doveva rievocare il sacrificio del pane e del vino – l’innamorato
della luce ha dipinto sui muri le sue misteriose conversazioni con lei. Gli
affreschi di San Marco sono le liriche del Beato Angelico; tali che lui poteva
dipingerle (per così dire) a occhi chiusi, giacché stavolta i colori non glieli
ha portati il senso della vista, ma la memoria, che è un’altra testimonianza
della luce».
Da una simile delicatezza biografica ci si farebbe volentieri cullare per delle
ore. E non vi è delicatezza che non abbia il suo sigillo trasfigurale. Alla
Morante narratrice di un Beato si offre nella diafania, base dell’arte
gotica, celebrazione della luce quale elemento fisico-estatico che ribalta la
materia. (Si veda in proposito Otto von Simson, La cattedrale gotica: «La
luce che di solito è nascosta dalla materia, appare come suo principio attivo.
[…] Il gotico può essere descritto come un’architettura trasparente, diafana».
Il primo ad applicare l’idea del diafano all’architettura gotica è stato
Jantzen, Über den gotischen Kirchenraum, 1927).
Quindi radioso innamoramento, più forte di ogni altro. Canto a quell’autenticità del sentire che ha guidato la mano dei pittori, mostrando agli ingegni che l’hanno riconosciuta e coltivata l’essenza di una luce che non si degrada, unica vera fonte cui possa attingere l’immaginazione.
(Di Claudia Ciardi)
Estremi bibliografici del saggio di Elsa Morante da cui questo articolo è tratto:
Elsa Morante, Il Beato propagandista del Paradiso
Introduzione a “L’opera completa dell’Angelico”, Classici dell’arte Rizzoli, 1970
Beato Angelico - Pala dell'Annunciazione (dettaglio) - Cortona