3 marzo 2016

Silenzi di guerra


Obice austriaco - Museo storico italiano della guerra, Rovereto


Il 28 febbraio si è conclusa la stagione di prosa 2015-2016 del teatro Verdi di Pisa con l’allestimento dello spettacolo Silenzi di guerra, nato da un’idea dell’attore Renato Raimo in collaborazione con lo scrittore Federico Guerri. Un appuntamento a cui sono stata felice di non mancare per il peso poetico di quanto portato in scena, lettura intimistica della guerra che irrompe nella sfera degli affetti, strappando violentemente le reclute alle loro consuetudini familiari. La prova del campo di battaglia si rivelerà annichilente in un duplice senso. Non solo perché in molti vi troveranno una morte precoce e ingiusta, ma anche perché chi scamperà alla tragedia non riuscirà mai veramente a tornare. Sarà un uomo diverso per aver affrontato «l’inenarrabile vita di trincea», come sottolinea il protagonista di questa pièce. La cesura tra il prima e il dopo non potrà essere sanata, troppo grande l’evento che ha separato i due momenti, così lontani da sembrare non potersi più risolvere nella medesima esistenza. Il fronte ha posto le condizioni di una intraducibilità di quello che gli uomini hanno sperimentato sulla propria pelle. Il mutismo dei reduci decreta dunque la fine del saper narrare; è ciò che Walter Benjamin descrive in alcune celebri pagine, indicando nella Grande Guerra l’evento che ha eroso la centralità dell’esperienza nell’orizzonte culturale umano: «La gente tornava ammutolita […] non più ricca, ma più povera di esperienze partecibabili […] Una generazione, che era andata a scuola col tram a cavalli, stava in piedi sotto il cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole e, al centro, in un campo di forza di correnti distruttive e esplosioni, il fragile, minuscolo corpo umano». Da allora in avanti, svuotati e per un assurdo contrappasso schiacciati dall’eccesso di informazioni e dalla frenesia in cui la nostra quotidianità è andata riorganizzandosi, poco o nulla di quel che accade intorno a noi pare essere destinato a lasciare una traccia durevole. Estrema conseguenza di un disagio rimasto per lo più incompreso ma puntualmente analizzato dal filosofo tedesco.
Il lavoro di Renato Raimo nasce così dalla necessità di una riappropriazione emotiva, e quindi narrativa, della storia. Qui si tratta di un padre, Franco, professore di anatomia, e del figlio diciottenne Daniele, reclutato dal regio esercito italiano per combattere sull’Isonzo, frontiera lontana e quasi fantastica di cui i giovani soldati ignoravano persino fosse un fiume o una montagna. La cartolina precetto, un rettangolo giallo, all’apparenza un documento come un altro che a Franco ricorda le pagelle che il figlio adolescente poggiava sulla tavola apparecchiata, nasconde in realtà un’amara sentenza sulla loro consuetudine di vita. 
Vedovo da molti anni, Franco non riesce ad accettare la separazione forzata da Daniele, ragazzo fragile e indole solitaria. Vorrebbe proteggerlo questo padre, ma non può nulla contro le leggi. Troppi sono i presagi che lo tormentano fin dalla preparazione per la partenza tanto da decidere di umiliarsi, implorando all’ufficio di leva che lascino in pace il suo ragazzo, ma niente. La macchina da scrivere prosegue imperterrita a compilare cartoline, la guerra è guerra e non permette indugi. La voce dell’impiegato non arriva al pubblico, solo il ticchettio ossessivo della scrivente, unico volto di uno Stato che non fa mostra di sé, neppure nelle ore tragiche dell’entrata in guerra, quando si sa che una ferita profonda verrà scavata tra chi vi prende parte e coloro che in silenzio restano a casa ad aspettare; molto tempo servirà perché il dolore si attenui e il cuore rimargini. 
Neanche Daniele occupa mai la scena. Sebbene la sua figura muova l’intera narrazione, è una presenza completamente riflessa nell’angoscia e nel dolore del padre. Così pure la femminilità, interpretata da Patrizia Ghezzo, apparizione silenziosa affiorante in un angolo della scena, incarna l’attesa delle donne in ogni luogo e tempo, madri, mogli, figlie, creature diafane e immobili attraversate dalla sofferenza. Sopraffatto dallo sconforto, Franco sale sul treno che pochi giorni prima si è portato via il figlio, e anche lui arriva finalmente a vedere l’Isonzo, il piccolo fiume di smeraldo su cui si muore e dove un soldato sfida i proiettili del nemico per desiderio di scendere tra quelle acque. La mente corre a Ungaretti, al suo bagno rituale in un mattino assolato, tregua del corpo che quasi non ha più memoria di sé. Notti e giorni sul Carso sempre uguali, aspettando l’ordine di attacco. Sorrisi e disperazione di commilitoni, si passa il tempo prendendo lentamente confidenza con la nuova realtà, si scrive a casa. Nella Babele dei dialetti ci si aiuta alla meglio. «È la prima generazione di italiani nati tali e viene mandata a morire», così Franco mentre osserva la “meglio gioventù” che non ha ancora una lingua in cui esprimersi.  
In questo la paura delle parole, e dunque i silenzi, di disagio, preoccupazione, stanchezza, i silenzi pieni di tensione che incombono sull’assalto e quelli che sanno di perdita, frastornanti, inascoltabili,  dopo la battaglia.
Durante il dibattito seguito alla rappresentazione, Giovanni Morandi, inviato in numerosi scenari bellici contemporanei, dalle repubbliche balcaniche a Israele, dal Libano alla Libia, e fino al 2014 direttore del «Quotidiano Nazionale» di cui è tuttora editorialista, ha voluto soffermarsi sul dato che la guerra di Franco non sia quella della nazione, dello slancio patriottico ma sia interamente ripiegata in una dimensione domestica, di genitori e figli buttati nella mischia, ragazzi che si sono appena affacciati al mondo e di quel mondo sono subito costretti a toccare tutti gli orrori e in mezzo all’orrore essere pronti a sacrificarsi. Morandi ricorda anche i suoi stessi silenzi familiari, il nonno reduce invalido che combatté sul Pasubio e che in casa era assai restio a parlare della sua esperienza di soldato. In riferimento a un codice maschile secondo cui tra uomini non bisogna mettere a nudo le proprie fragilità. È la cifra che caratterizza lo stesso rapporto di Franco e Daniele, un’incomunicabilità che tuttavia non impedisce ai due di leggere nei rispettivi stati d’animo, né ostacola Franco nell’affrontare le supposte debolezze che tornano a scuoterlo quando è costretto a dire addio al figlio.     
In un dialogo ideale con la mostra di Palazzo Blu «I segni della guerra», recentemente curata dal professor Antonio Gibelli (marzo-luglio 2015), che ha consentito di esporre a Pisa un gran numero di cimeli provenienti, tra gli altri, dal museo della guerra di Rovereto, il lavoro di Raimo arricchisce il percorso dedicato alla memoria del primo conflitto mondiale, dalla prospettiva della reazione individuale e dell’approfondimento psicologico, punto di vista quanto mai prezioso per la comprensione degli eventi.     
Lo spettacolo prosegue risalendo l’Italia, andando ad abbracciare quelli che furono i luoghi dove la guerra si combatté senza risparmio di mezzi e di vite. Non resta quindi che augurare a Renato Raimo e alla sua compagnia, in particolare la fisarmonica di Marco Lo Russo con le sue magiche atmosfere, il miglior consenso di pubblico per questo racconto allestito con competenza e passione.

(Di Claudia Ciardi)




Silenzi di guerra

di Renato Raimo e Federico Guerri
regia: Marco Grigoletto
accompagnamento per fisarmonica: Marco Lo Russo


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