Al Santa Maria della Scala di Siena, nella splendida cornice del polo museale di Piazza Duomo, si è inaugurata da circa un mese la mostra sulla pittura tedesca e fiamminga del periodo compreso fra i secoli XV e XVII. I grandi maestri nordici del ritratto e della rappresentazione dello spazio, soprattutto vedute d’interni e complessi urbani immaginari, sono al centro di questa ricca esposizione che ricostruisce il gusto e l’interesse culturale delle corti italiane nel rinascimento.
Il materiale, nonché chiaramente il filo conduttore della presente rassegna, deriva dalla collezione Spannocchi, famiglia di notabili senesi che nel 1774, anno del matrimonio di Caterina Piccolomini con Giuseppe Spannocchi, acquisì un composito e raffinato nucleo di quadri provenienti dal nord Europa, espressione delle più influenti cerchie pittoriche di quell’area geografica a partire dal Cinquecento. Questo cospicuo fondo include infatti una prima sezione risalente ai Gonzaga di Mantova, attorno alla quale, attraverso il successivo impegno dei Piccolomini, proseguì l’acquisto di numerose altre tele. E che queste famiglie pretendessero il meglio che offriva allora il mercato dell’arte, lo testimoniano i nomi che ci troviamo di fronte: Albrecht Dürer, il suo talentuoso allievo Altdorfer, pittore, architetto, incisore, innovatore nell’uso della luce, Lucas Cranach. E poi ancora le scuole a loro vicine in un eterogeneo alternarsi di soggetti mitologici, sacri, nature morte, scene di genere, vedute, utopie. Da Hendrick van Steenwick con il suo San Girolamo nello studio (1602), specialista nella pittura d’interni e capace di una rappresentazione evocativa della luce che rimanda in parte a Vermeer, a Johann König e la Bottega di Roelant Savery con una rivisitazione dei temi del mito tra sacro e profano, e ancora Bartolomeo Wittig con La buona ventura, straordinario “fotografo” d’ambienti e allo stesso tempo inventore di studiate architetture, Paul Vredeman de Vries nella Veduta di città ideale (1607) e Abel Grimmer in La torre di Babele (fine Seicento).
È anche il racconto di una grande attenzione riservata dagli italiani all’arte nordica, in cui si evidenzia un’impressionante perizia nella scelta dei pezzi e una provata conoscenza di quel mondo nell’immediatezza delle sue manifestazioni creative. Lo spirito collezionistico ha senz’altro spinto la circolazione dell’arte nel vecchio continente per diversi secoli e studiarne ragioni, traiettorie, influssi permette di approfondire la parabola di venditori e compratori, le loro reciproche relazioni e posizioni di potere, nell’ambito del commercio e della cultura. Per l’evento senese la Galleria degli Uffizi di Firenze ha prestato due celebri pannelli di Altdorfer, raffiguranti il congedo e il martirio di San Floriano, già parte del blocco di opere degli Spannocchi, tornati adesso alla città, prima volta che accade dal 1914. L’intento è quello di riunire per intero la collezione, e la mostra vuole essere anche una pubblica testimonianza in tal senso. Nell’occasione si è inoltre dato avvio ai restauri dei quadri che costituiscono questo ampio corpus, lavori i cui risultati possono qui essere parzialmente osservati.
Se Siena può dirsi una città dove reale e immaginario in architettura si contaminano senza posa, con le sue pietre primitive che insidiano la levità delle logge e la presenza oracolare dei vecchi fontanili, coi suoi bianchi e neri che la fantasia di Escher cucì alle proprie geometrie, coi suoi scorci di vicoli, le facciate settecentesche su piazzette medievali, le salite e le discese quasi metafisiche, se questo è luogo e scena, spazio della storia e arena ideale, si capisce perfettamente l’insieme di stimoli e suggestioni che animò i collezionisti del passato e l’esigenza presente di ridare loro una cornice che sia la più rappresentativa di una così frastagliata avventura dell’ingegno.
Paul Vredman de Vries, Veduta di città ideale (1607)
Abel Grimmer, La torre di Babele (fine Seicento)
Hendrick van Steenwick, San Gerolamo nello studio (1602)
Contestualmente, nella medesima sede, la mostra Graffi profondi dell’anima fino al 31 gennaio fa luce sulla malattia mentale e l’emarginazione forzata di N.O.F. 4, la sigla con cui soleva firmarsi Oreste Fernando Nannetti, internato a Volterra, ricovero sorto nel 1884 nel fabbricato del Convento di San Girolamo. Sono esposte strumentazioni per la terapia e oggetti d’uso dei pazienti, dalle stoviglie alle divise e calzature prodotte nei laboratori e nelle officine locali, che mostrano come l’individuo cessasse di esistere nel momento in cui varcava la soglia del manicomio. Ogni oggetto era uguale all’altro. Inutile per un folle rivendicarne il possesso, perché la differenziazione avrebbe comportato la riconoscibilità, la dichiarazione di cosa propria avrebbe ristabilito il luogo dell’io. Annientare, livellare, significava dunque togliere ai degenti qualsiasi pretesa sul mondo.
N.O.F. 4 produsse utilizzando le fibbie del panciotto della sua divisa da matto, quali strumenti d’incisione, un incredibile libro graffito lungo 180 metri nel muro del suo reparto. Proseguì quindi la sua opera sul passamano in cemento di una scala di 106 metri. Finalmente fornito di carta e penna realizzò più di 1600 lavori. Correvano in Italia gli anni Sessanta. I suoi graffiti sono lettere cuneiformi, una sorta di alfabeto cifrato, un’immensa pittura rupestre attraverso cui lo spirito recluso di Nannetti cerca di comunicare all’esterno la sua bellezza e di evadere. La sua sensibilità è straordinaria. In corrispondenza del muro dietro la panchina dove siedono i degenti catatonici segue il contorno delle loro figure, badando a non infastidirli, perché dice “nessuno dev’essere disturbato nella sua attività”. Solo per averlo pensato, avrebbe dovuto essere immediatamente dimesso. Il quattro divenne il numero della sua firma d’artista, in quanto andava a comporre una sorta di alchimia da lui ideata e definita “la chiave mineraria”: quattro secoli, quattro metalli, quattro colori, quattro forme.
Della vicenda clinica del Nannetti peraltro poco si sa. L’impressione è che nessuno si sia seriamente occupato di risolvere il suo caso e che il ricovero coatto sia sembrato, come per molti altri, l’unico sbocco a una situazione che nessuno, per ignoranza o inerzia, ha avuto voglia di studiare. La mostra offre una piccola ricostruzione del giardino che ispirò a N.O.F. 4 la sua opera con alcuni pezzi dei graffiti che verranno a breve collocati presso il museo dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra. Una toccante lezione sull’accanimento fra esseri umani, l’intolleranza e il pregiudizio che per molta parte del Novecento hanno continuato ad accompagnare i malati di mente, e un’esistenza che avrebbe potuto essere e non è stata.
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