Indicando
semplicemente la funzione di amministratore delle cose pubbliche in un ruolo in
vista, la prima attestazione si riscontra nei Cavalieri di Aristofane,
commedia rappresentata nel 424 a. C., in cui Demo, personaggio chiave in cerca
di riscatto, recupera la passata potenza come ai tempi di Temistocle e
Aristide. E tuttavia è sintomatico che l’opera denunci la miserevole sorte
della demagogia, in una sostanziale identificazione con l’attività politica, da
appannaggio dei bene educati a strumento caduto nelle mani di persone
ignoranti. Il “demagogein” non sarebbe quindi di per sé un disvalore, ma
l’autore ne porge agli spettatori un ritratto impietoso, da cui emerge la
bassezza dei mezzi quale dominante. A ciò si aggiunga il rilievo dato da
diversi autori alla pratica della parola ingannevole, alla distorsione della
retorica, strumento degradato a suscitare nel popolo oscure pulsioni e a trascinarlo
sotto il loro effetto. Aristotele nella Costituzione di Atene ravvisa i
segni dello scadimento della demagogia proprio nel modo trascurato e
irrispettoso di rivolgersi all’assemblea. La fase discendente della classicità vede
una critica radicale del discorso politico e in ciò il demagogo si pone come
figura contesa, destinatario della stigma reciproca tra forze che si disputano
il consenso.
Tali
nozioni suscitano indifferenza nel mondo romano, che qui non prende a prestito
il greco come invece avviene per buona parte della terminologia politica.
Dopo un tempo piuttosto lungo in cui poco si riflette sull’essere demagogo, ne scorgiamo nuovamente le tracce nelle dissertazioni di Hobbes e Swift, per
l’uno equivalente di oratore efficace, per l’altro di “leader in a popular
state”, capo in una città democratica, citando gli exempla di Demostene e
Cicerone. Anche in questo caso demagogia e tecnica della parola risultano
elementi strettamente intrecciati.
In
seguito alla Restaurazione si definiscono in blocco demagoghi i capi
rivoluzionari con intento chiaramente denigratorio, inchiodandoli al ritratto
di agitatori, tiranni e pericolosi sobillatori delle aspirazioni popolari.
Viceversa, ancora una volta nel solco di quello scontro dialettico di cui si è
già detto, la prosa giacobina taccia di demagogia i caporioni delle rivolte
sanfediste. Alla voce «Démagogie» del «Grand Dictionnaire» firmata da Pierre
Larousse (volume VI, 1870) si parla in senso puramente etimologico di “guida
del popolo”, rilevando subito dopo la difficoltà del demagogo nel trasmettere
al popolo il giusto indirizzo, subendone semmai il movimento piuttosto che
imprimerlo; «a seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini
che si posero alla testa della rivoluzione sembra di vedere dei fanciulli
appesi a una locomotiva», scrive. Causa l’impressione suscitata dai fatti del
maggio-giugno 1848, l’articolista paga pegno al conservatorismo del momento
inquadrando la demagogia nell’eccesso di una fazione popolare: allora il resto
del corpo civico impaurito invoca il despota, al tempo Luigi Bonaparte. È
evidente come il concetto supponga la strumentalizzazione del popolo, soprattutto
gli strati meno consapevoli.
Nel
primi trent’anni del Novecento si assiste allo scontro aperto tra ideologie di
destra e di sinistra reciprocamente impegnate ad accusarsi di ricorrere a
pratiche di stampo demagogico: «una tale polivalenza della categoria così come
la sua ritorsione in più direzioni meglio si intendono e meno sorprendono, se
si considera che essa ha di mira soprattutto l’enucleazione e la denuncia di un
modo di far politica piuttosto che una determinata politica», nota l’autore.
Nello scenario attuale potremmo registrare un’ulteriore generalizzante
sovrapposizione con il termine populista che ha accentrato attorno a sé il
dibattito pubblico, di fatto infiltrando e contaminando in via trasversale lo
spettro delle espressioni politiche.
Se
è vero, come teorizzava Gramsci, che sussiste una “demagogia superiore” che
«non considera le masse umane come strumento servile, buono per raggiungere i
propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di
cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge
opera ‘costituente’ e costruttiva, che ne è oggi di tale processo virtuoso? Quali
spazi può ancora occupare l’autentica rivendicazione popolare nell’ottundente
neutralizzante scenario dei populismi e dei sovranismi che di queste
aspirazioni si nutrono, salvo passarle in rassegna velocemente e non includerne
la spinta organica finalizzata alla conquista di potere contrattuale?
Certo,
vi è uno stallo nel coinvolgimento di coloro che si trovano ai margini. L’esperienza di Carlo Levi, confinato nel Sud Italia durante il fascismo, la sua
inappellabile denuncia delle masse esterne ed estranee alla corrente della
storia, trascinate sì, ma non partecipi, non ha avuto seguito nel mondo che ha sostituito
alla dittatura militare quella del mercato. La strada aperta dalla Resistenza,
anziché essere occupata dal pieno risveglio di coloro che erano stati fino a
quel punto i confinati della storia, anziché stimolare in costoro quel potere
attoriale da secoli latitante dalle vicende del mondo, si è inaridito
nell’incontro con una forma integrale di demagogia, quella della
mercificazione. Così Luciano Canfora: «Qui si è compiuto il grande salto dalla
demagogia rozza, primitiva, demiurgicamente e arcaicamente affidata al
superuomo di tipo mussoliniano formato sulle pagine di Le Bon e fiducioso nelle
proprie sperimentate capacità di fascinatore di masse, alla demagogia anonima e
capillare, totalizzante proprio perché anonima».
In
uno scenario complesso, dove si assiste alla crescita del divario, a un senso
di frustrazione proporzionale alla coscienza di non essere rappresentati, la
cosiddetta politica ‘alta’ o tradizionale che dir si voglia, si aggira incerta,
per molti aspetti impotente. Nella deriva di società sempre più demagogiche,
parallela all’indietreggiare di società a base ideologica, mentre le risorse
scarseggiano parimenti alla volontà politica di governare le forze che
minacciano la coesione sociale, per scongiurare l’esplosione di una violenza fuori
controllo realisticamente paventata dallo studioso, è necessario un risveglio
delle coscienze addormentate, la ripresa di quella dialettica organica e
costituente che rimetta in moto il processo democratico e di emancipazione
delle comunità che vi stanno alla base.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione
consultata:
Luciano Canfora, Demagogia, Sellerio, 1993