Theodor Fontane
L’aria di Berlino
Titolo originale: Von Zwanzig bis Dreißig, 1898
Traduzione italiana di Carmen Putti
Casa editrice: Santi Quaranta
Anno: 2004
From the book: pp. 102-105
«A Pasqua venni promosso alla classe superiore e mi ripromisi di essere diligente e ordinato. Ma non misi mai in atto i miei buoni propositi. Anzi, per quanto riguarda gli studi fu un vero fallimento, e non del tutto per colpa mia. O almeno per quella volta non fu colpa mia. A Pentecoste, allo zio August venne l’idea di affittare una casa per l’estate nelle vicinanze di Berlino e scelse una località ad un buon quarto d’ora di distanza dalla porta di Oranienburg, che veniva familiarmente chiamata “bei Liesens” (da Liesen). Da lì ci impiegavo esattamente un’ora per arrivare alla mia scuola e non era cosa da poco. Ma nulla era quell’ora di cammino in confronto a ciò che mi aspettava ogni mercoledì e domenica! In questi due giorni, infatti, erano programmate le escursioni botaniche con l’insegnante di scienze naturali, il benemerito maestro Ruthe. Poiché egli abitava all’imbocco della Köpnickerstraße, guarda caso le escursioni venivano sempre fatte nella zona verso Treptow o, meglio ancora, verso Britz e sui prati di Rudow. Vi partecipavo volentieri, soprattutto per merito del maestro. Mentre sedevamo sul cordolo di una rustica pista da bocce intenti a bere il nostro latte, il buon Ruthe, che in fondo era un uomo semplice, lasciava cadere la maschera dell’insegnante e faceva trasparire la sua vera natura di filantropo rousseauiano ed educatore. Toccava volentieri questioni riguardanti la morale.
“Ebbene, miei giovani amici, indubbiamente la botanica è una cosa buona e anche le scienze lo sono. Ma la cosa più importante resta sempre l’uomo con la sua retta moralità. Ve ne parlerei volentieri, subito qui, ma anche in classe. Vi gioverebbe di più di molti altri argomenti. Ma purtroppo non posso farlo.” Quest’ultimo era un chiaro riferimento al direttore, il vecchio Klöden, che credo avesse molte perplessità circa gli argomenti di morale di Ruthe. Ruthe era indubbiamente una persona eccellente, benché non abbia mai saldato con noi il debito del “mistero della vita”, ma per quanto lo amassi non riuscii mai a perdonargli la sua ostinazione nel non voler modificare la meta delle escursioni dai prati di Rudow. Abitando nella Köpnickerstraße, quella meta per lui era indubbiamente comoda e anche per i miei compagni di scuola il tragitto fino a casa non era eccessivamente lungo, per me invece, le vere difficoltà della giornata iniziavano appena terminata la lezione: troppo spesso, infatti, dovevo rifarmi il tragitto dalla Köpnickerstraße fino a Liesen con i piedi piagati poiché non ho quasi mai posseduto stivali in cui i miei talloni si trovassero a loro agio. Arrivavo perlomeno dopo un’ora e mezza di cammino. Una volta a casa facevo appena in tempo a sistemare gli esemplari botanici raccolti nella carta assorbente e finalmente sprofondavo stanco morto nel letto. È facile immaginare con che spirito mi alzassi il mattino successivo per andare a scuola. A volte l’impresa era superiore alle mie forze.
Un’altra conseguenza della villeggiatura a Liesen fu la pessima abitudine di andare a zonzo, tanto che per me divenne consuetudine marinare la prima ora di lezione, dalle otto alle nove. Per mia fortuna quell’ora corrispondeva alla lezione di francese e il professore insegnava in almeno altre tre scuole e così gli importava francamente poco degli assenti. Come il leone non riesce più a trattenersi dal compiere carneficine una volta assaporato il gusto del sangue, così ben presto anch’io non seppi più accontentarmi di bigiare la prima ora di lezione trascorrendo addirittura intere giornate a bighellonare dentro e fuori le mura cittadine. Le assenze prolungate avevano il vantaggio di essere facilmente giustificabili con la scusa di una “malattia”. E i giorni da ottobre a Natale si prestavano ottimamente allo scopo.
Ero perfettamente cosciente dello spreco di tempo che stavo perpetrando ma, contemporaneamente, non incontravo difficoltà nel mettere a tacere i rimorsi di coscienza, anche e soprattutto grazie alla mia giovane età. Producendo un’encomiabile opera di persuasione mi autoconvinsi che, di lì a pochi anni, sarei diventato un famoso botanico, per cui trovavo assai più proficuo pattugliare regolarmente i boschi e le lande che seguire le lezioni di grammatica del professor Philipp Wackernagel; si ostinava a dettare nei nostri quaderni infinite liste di vocaboli terminanti in «ig» e «ich», che poi dovevamo anche studiare a memoria. Ancora oggi ignoro l’opinione in proposito del professor Wackernagel, un’ottima persona, oltre che erudito di fama eccelsa. Insomma, boschi e brughiere mi avevano definitivamente conquistato e divenni un perfetto conoscitore del territorio rupestre circostante. A prescindere da queste digressioni, ero seriamente alla ricerca di muschi e licheni, immaginando di essere un piccolo criptogamologo. In effetti la fioritura dei muschi è uno spettacolo meraviglioso.
Verso l’una del pomeriggio ero generalmente a casa e mangiavo con appetito invidiabile che, evidentemente, non dava segni di venir rovinato dai sensi di colpa. Al termine del pranzo mi si presentava il dilemma su come trascorrere le restanti ore del pomeriggio. Ma un modo lo trovavo sempre. All’angolo tra la Schönhauserstraße e la Weinmeisterstraße, quindi in una zona della città in cui era molto improbabile incontrare il direttore Klöden e gli altri insegnanti, si trovava la pasticceria del mio amico Anthieny. Bevevo il mio caffè immerso nella lettura dei periodici letterari più in voga: il «Beobachter an der Spree», il «Freimütigen», il «Gesellschafter» e soprattutto il mio favorito, il «Berliner Figaro». Ore di completa beatitudine. Divoravo le recensioni teatrali di Ludwig Rellstab, i saggi e i racconti di Gubitz e le poesie di quei sei o sette giovanotti che, forse loro malgrado, formavano la scuola poetica berlinse dell’epoca. Ricordo i nomi di Eduard Ferrand, Franz von Gaudy, Jiulius Minding e August Kopisch, i migliori, talenti che, nonostante il mutare delle mode e dei costumi, hanno saputo affermarsi e sono conosciuti anche ai nostri giorni. Eduard Ferrand, che forse oggi è retrocesso in seconda linea nel gusto della critica contemporanea, morì molto giovane e componeva versi semplicemente sublimi. Una della sue poesie migliori ispirò i versi di Georg Herweghs: «Vorrei spengermi come l’ultimo bagliore del tramonto». I versi di Ferrad esordiscono con le parole: «Vorrei morire come quella nube» che, ripetute, ritornano ad ogni capoverso con piccole variazioni. Impossibile non cogliere la somiglianza. Ripensando alle mattinate nei boschi e ai pomeriggi da Anthieny, quelle giornate caratterizzate non solo dalla pigrizia, ma anche da menzogna e inganno, non posso fare a meno di provare un certo turbamento, paragonandomi al famoso «Cavaliere sul lago di Costanza» che si rese conto della sventatezza della propria impresa solo dopo averla compiuta. Trasalisco al solo pensiero del tempo perduto e prego i miei giovani lettori di non volermi imitare. Sono stato uno sventato, ma non per tutti la sorte è così benevola. Ora che sono felicemente sfuggito al pericolo, pur ammettendo la mia colpa, non posso comunque fare a meno di esprimere una certa soddisfazione per aver marinato la scuola e per aver intrapreso le “escursioni nel Brandeburghese” molto prima del loro inizio ufficiale. Da un punto di vista fisico quel moto mi faceva bene e poi, nei pomeriggi, le letture letterarie da Anthieny, mi hanno permesso una tale padronanza della lirica tedesca degli anni trenta, che forse, ancora oggi, nessuno la conosce meglio di me. Se, invece, avessi adempiuto diligentemente ai miei obblighi scolastici, indubbiamente avrei conservato una coscienza pulita, ma al mio bagaglio culturale, peraltro già carente, sarebbe venuta a mancare anche la preziosa formazione che devo alla lettura del «Freimütigen», del «Gesellschafter» e del «Figaro». Alle critiche di mia madre, che rinfacciava a mio padre di attingere il proprio sapere dal dizionario enciclopedico, egli regolarmente rispondeva dicendo che «la fonte della cultura è completamente irrilevante». E mi sento di condividere questa sua opinione».
Portrait of Theodor Fontane
Theodor Fontane: Meine Kinderjahre
Vorwort
Als mir es feststand, mein Leben zu beschreiben, stand es mir auch fest, daß ich bei meiner Vorliebe für Anekdotisches und mehr noch für eine viel Raum in Anspruch nehmende Kleinmalerei mich für einen bestimmten Abschnitt meines Lebens zu beschränken haben würde. Denn mit mehr als einem Bande herauszutreten, wollte mir nicht rätlich erscheinen. Und so blieb denn nur noch die Frage, welchen Abschnitt ich zu bevorzugen hätte.
Nach kurzem Schwanken entschied ich mich, meine Kinderjahre zu beschreiben, also »to begin with the beginning«. Ein verstorbener Freund von mir (noch dazu Schulrat) pflegte jungverheirateten Damen seiner Bekanntschaft den Rat zu geben, Aufzeichnungen über das erste Lebensjahr ihrer Kinder zu machen; in diesem ersten Lebensjahre »stecke der ganze Mensch«. Ich habe diesen Satz bestätigt gefunden, und wenn er mehr oder weniger auf Allgemeingültigkeit Anspruch hat, so darf vielleicht auch diese meine Kindheitsgeschichte als eine Lebensgeschichte gelten, Entgegengesetztenfalls verbliebe mir immer noch die Hoffnung, in diesen meinen Aufzeichnungen wenigstens etwas Zeitbildliches gegeben zu haben: das Bild einer kleinen Ostseestadt aus dem ersten Drittel des Jahrhunderts und in ihr die Schilderung einer noch ganz von Refugié-Traditionen erfüllten Franzosen-Kolonie-Familie, deren Träger und Repräsentanten meine beiden Eltern waren. Alles ist nach dem Leben gezeichnet. Wenn ich trotzdem, vorsichtigerweise, meinem Buche den Nebentitel eines »autobiographischen Romanes« gegeben habe, so hat dies darin seinen Grund, daß ich nicht von einzelnen aus jener Zeit her vielleicht noch Lebenden auf die Echtheitsfrage hin interpelliert werden möchte. Für etwaige Zweifler also sei es Roman!
Th. F.Bücher
Links:
Theodore Fontane.de
Franz Hessel - Reveries in Berlin/ Fantasticherie berlinesi di Claudia Ciardi
(La Biblioteca di Israele a cura di Giusi Meister per Franz Hessel)