Nella
raccolta Il muro della terra
(1964-1975) la poesia di Giorgio Caproni passa in rassegna i gesti rituali del
commiato, qui assunto a narratore di un horror
vacui spiazzante, etereo nulla vagamente eterno, pure capace di scagliare
la sua gravità materica su chi decide di andargli incontro o solo lo subisce.
Questa intensa fiaba dell’esilio nelle sue articolazioni – giunture fisiche,
tessuti organici che appartengono a un corpo unico di ombre e presenze – riproduce i toni di una possibilità del
vivere (o del sopravvivere) minacciata, incalzata, che si aggrappa a resti di
memorie, consuetudini umane nell’assenza evocate, lampade accese per far luce
all’abbandono.
È
un tempo che sconfina in un guado atemporale e che vorrebbe, immolandosi,
traslare se stesso in un altro luogo, guadagnare una tregua ulteriore. Uno
spazio e quel che ne resta, chi c’è stato o ancora rimane, che si offrono in
bilico ma non dissolti. Non c’è sperpero, perché da lì la vita è passata e si è
fatta osservare, e queste sue spoglie sembrano significare ancora un’attesa. Pensare
di andar via per tracciare compiutamente il senso del restare, come l’ultimo
della Moglia. Perché il non esserci di cose e persone scopre ancora le vertebre
di un labirinto fossile, le architetture mentali di cui ogni attimo è
rivestito, arginando quel vacuum
senza volto senza orme, e che bastano a una testimonianza di verità, al
perdurare di un’eco che così tanto e oltre scende nelle pieghe del ricordo. Qui
tutto ciò riaffiora all’unisono, e anche negli accenti musicali, caldi, aspri, sussurrati,
soffusi celebra le sue intuizioni.
Musicalità
campaniane ed estasi di natura. Una montagna ruvida, lasciata ma che comunque è
stata ed è. Se come diceva Giovanni Raboni l’intera opera del poeta livornese è
«un grande, struggente e severo canzoniere d’esilio», particolarmente nel Tema con variazioni Giorgio Caproni si
aggira su una soglia che né ci invita a essere varcata né ci rassicura.
Indugiarvi non si può, eppure «dal muro, nessun messaggero». Si è soli,
dominati dalla nostalgia però anche consapevoli che il viaggio non è finito. Sceso
il sipario sul Ballo a Fontanigorda, ma
qualcosa di quelle carnali odissee campestri, di quella fulminante sacra
epifania, forse ancora si lascia ascoltare in lontananza, forse ha ancora
qualcosa da dire.
(Di
Claudia Ciardi)
Lasciando Loco
a André Frénaud
Sono
partiti tutti.
Hanno
spento la luce,
chiuso
la porta, e tutti
(tutti)
se ne sono andati
uno
dopo l’altro.
Soli,
sono
rimasti gli alberi
e
il ponte, l’acqua
che
canta ancora, e i tavoli
della
locanda ancora
ingombri
– il deserto,
la
lampadina a carbone
lasciata
accesa nel sole
sopra
il deserto.
E
io,
io
allora, qui,
io
cosa rimango a fare,
qui
dove perfino Dio
se
n’è andato di chiesa,
dove
perfino il guardiano
del
camposanto (uno
dei
compagnoni più gai
e
savi) ha abbandonato
il
cancello, e ormai
–
di tanti – non c’è più nessuno
col
quale amorosamente
poter
altercare?
Dopo la notizia
Il
vento… È rimasto il vento.
Un
vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
Muove
su e giù sul grigio
dell’asfalto.
Il vento
e
nient’altro. Nemmeno
il
cane di nessuno, che al vespro
sgusciava
anche lui in chiesa
in
questua d’un padrone. Nemmeno,
su
quel tornante alto
sopra
il ghiareto, lo scemo
che
ogni volta correva
incontro
alla corriera, a aspettare
–
diceva – se stesso, andato
a
comprar senno. Il vento
e
il grigio delle saracinesche
abbassate.
Il grigio
del
vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il
vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta.
Un vento
lasco
e svogliato – un soffio
senz’anima,
morto.
Nient’altro.
Nemmeno lo sconforto.
Il
vento e nient’altro. Un vento
spopolato.
Quel vento,
là
dove agostinianamente
più
non cade tempo.
Parole (dopo l’esodo)
dell’ultimo della Moglia
Chi
sia stato il primo, non
è
certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi,
uno dopo l’altro, tutti
han
preso la stessa via.
Ora
non c’è più nessuno.
La
mia
casa
è la sola
abitata.
Son
vecchio.
Che
cosa mi trattengo a fare,
quassù,
dove tra breve forse
nemmeno
ci sarò più io
a
farmi compagnia?
Meglio
– lo so – è ch’io vada
prima
che me ne vada anch’io.
Eppure,
non mi risolvo. Resto.
Mi
lega l’erba. Il bosco.
Il
fiume. Anche se il fiume è appena
un
rumore ed un fresco
dietro
le foglie.
La
sera
siedo
su questo sasso, e aspetto.
Aspetto
non so che cosa, ma aspetto.
Il
sonno. La morte direi, se anch’essa
–
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da
questi luoghi.
Aspetto
e
ascolto.
(L’acqua,
da
quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha
questo suo stesso suono
sulle
sue pietre?)
Mi
sento
perso
nel tempo.
Fuori
del
tempo, forse.
Ma
sono
con
me stesso. Non voglio
lasciar
me stesso – uscire
da
me stesso come,
la
notte, dal sotterraneo
il
grillotalpa in cerca
d’altro
buio.
Il
trifoglio
della
città è troppo
fitto.
Io son già cieco.
Ma
qui vedo. Parlo.
Qui
dialogo. Io
qui
mi rispondo e ho il mio
interlocutore.
Non voglio
murarlo
nel silenzio sordo
d’un
frastuono senz’ombra
d’anima.
Di parole
senza
più anima.
Certo
(è
il vento degli anni ch’entra
nella
mente e ne turba
le
foglie) a volte
il
cuore mi balza in gola se penso
a
quant’ho perso. A tutta
la
gaia consorteria
di
ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle
matte risate,
la
sera, all’osteria
dietro
le donne. Alte
da
spaccar le vetrate.
Ma
non m’arrendo ancora. Ancora
non
ho perso me stesso.
Non
sono, con me stesso,
ancora
sola.
E
solo
quando
sarò così solo
da
non aver più nemmeno
me
stesso per compagnia,
allora
prenderò anch’io la mia
decisione.
Staccherò
dal
muro la lanterna
un’alba,
e dirò addio
al
vuoto.
A
passo a passo
scenderò
nel vallone.
Ma
anche allora, in nome
di
che, e dove
troverò
un senso (che altri,
pare,
non han trovato),
lasciato
questo mio sasso?
Versi incontrati poi
«We
would not leave
our
native home
for
any world
beyond
the tomb»
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