Con
l’avvento del turismo di massa e la condizione del viaggiare asservita a un
consumismo mordi e fuggi, il che significa tempi stretti, soste necessariamente
brevi che nella maggior parte dei casi precludono il vero incontro con un
territorio, spese ridotte perché la dura lex dell’economia, che per qualche
insano motivo si è deciso di far girare al contrario, prevede ormai margini
labilissimi entro cui sognare, progettare e, appunto, conoscere il mondo,
insomma, stando alla misura odierna dell’uscita dal proprio spazio per assimilarne
un altro, diviene sempre più improbabile ottenere un’esperienza durevole,
attinta in profondità. Il viaggio, come tutto il resto, si adatta
inesorabilmente alla velocità, a un avanzamento piuttosto superficiale tra una
meta e l’altra, e si comunica in fretta, nell’intervallo di qualche selfie e di
una condivisione in rete, a volte istantanea.
Sembra
lontanissima l’epoca in cui i rampolli delle grandi famiglie europee, ma anche
russe, organizzavano il Grand Tour, che aveva in Italia la sua tappa d’elezione, una discesa lenta lungo lo stivale, fino a Roma e poi Napoli, e
infine la Sicilia, che secondo Goethe è «la chiave di tutto». Imparagonabile
con le odierne peregrinazioni di studio e, in qualche caso più privilegiato,
successive allo studio: anche qui solo vendita all’ingrosso, fretta, offerta
massificata di cultura ed esperienze che vi ruotano attorno e che raramente brillano
di luce propria. Pensare che durante il Grand Tour si trovava perfino il tempo
di fermarsi nelle più celebri biblioteche italiane – la Marciana, la
Laurenziana, la Vaticana – solo per poter religiosamente toccare con mano le
pagine di qualche manoscritto. E quando per qualche motivo si negava l’accesso
all’oggetto dei desideri, il richiedente era capace di appostamenti lunghissimi
pur di raggiungere l’obiettivo.
In
questo grazioso libro sulle mappe, Paolo Ciampi ci racconta un sogno
millenario, fatto di uomini ostinati, artisti prima di tutto, capaci di
osservare il mondo da prospettive differenti. Perché solo mutando il punto di
vista si è in grado di spingersi altrove. E le mappe questo sono. Un racconto
fatto d’immaginazione, anzi di tante immaginazioni che nei secoli si sono
incrociate e anche contrastate. Così l’autore, dedicandosi al ritratto dei
grandi cartografi del passato e commentandolo con alcune delle voci più note
della narrativa di viaggio contemporanea, da Bruce Chatwin a Simon Garfield e
Paolo Rumiz, ci riporta all’emozione della scoperta, dell’andare come avventura
– etimologicamente il volgersi incontro a quel che accadrà – dell’opera devota,
quasi monastica – diversi disegnatori di tali oggetti d’arte furono proprio
monaci – di coloro che si esercitavano a ridurre il mondo o una porzione di
mondo entro un foglio.
Immaginiamo
il gesto di un comandante di vascello che diceva al suo secondo di portargli
una carta. E poi le ore passate in cabina, magari fino a tarda notte a studiare
distanze e tempi del viaggio, interrogandosi sulle scorte e l’umore
dell’equipaggio. Che epica meravigliosa, dove il destino dei disegnatori si
legava indissolubilmente a quello degli esploratori. Ci racconta lo scrittore
in queste sue dense paginette, che i cartografi di Amsterdam solevano aggirarsi
sui moli della città e interrogare gli equipaggi di ritorno da lunghi mesi di
navigazione, per carpire segreti e dettagli utili alla compilazione dei loro
ambitissimi lavori. Storie degne della migliore antropologia letteraria, cui
verrebbe voglia di abbandonarsi per un po’: un modo per cominciare un viaggio
diverso e per riprendere a coltivare quella lentezza del pensare e
dell’incrociare l’altrui cammino che tanto manca al nostro tempo.
Nel
resoconto di Paolo Ciampi scorrono sotto i nostri occhi nomi e luoghi antichi a
fianco dei moderni. Le origini e le loro, spesso insolite, a volte opposte,
prosecuzioni. Spostarsi infatti è anche questione di nomi, dell’attrazione che
esercitano su di noi, della loro capacità di interrogarci, della storia con cui
lambiscono il passaggio del visitatore, sia il più sprovveduto o documentato.
Quella poesia prima o poi ti entra dentro, anche se a te non sembra. Ed ecco
che, citando Judith Schalansky «la cartografia dovrebbe essere annoverata finalmente
tra i generi poetici e l’atlante tra la bella letteratura». O ancora, affidandoci a Giovanni Cenacchi: «Una
mappa, un panorama di montagna, un libro di itinerari e uno di poesie si
assomigliano un poco».
Del
resto, scoprire su un atlante storico come i romani chiamavano le provincie
dell’impero è un po’ come viaggiare nel tempo. Nome quali Norico, Pannonia,
Mesia bastano da soli a schiudere quinte immaginifiche di regni e battaglie. È
dunque uno scritto, quello di Ciampi, che dedica molto spazio alle etimologie,
alle parole chiave che servono a raccontare il mondo. Tutto nasce leggendo i
nomi su una carta, fantasticando su quei suoni, lasciando che la mente vaghi
sulle vie dei canti, assai prima che il piede, tra incertezza, gioia e
curiosità imbocchi un sentiero. Non senza dimenticare il prodigio e la bellezza
che stanno nel perdersi. Dante iniziò proprio così, dallo smarrimento in una
selva oscura, e ne è scaturito un poema immenso. Lode dell’essere disorientati
e dell’abbandonarsi alle sue conseguenze. Le cose migliori, a volte, vengono
fuori mentre si sta cercando altro. Colombo era sicuro di andare in India,
mentre trovò l’America. Secoli dopo Walter Benjamin, con la stessa convinzione
un po’ disincantata, tipica del navigatore novecentesco, vagava nella
metropoli, scrigno dei ricordi d’infanzia e luogo dell’inatteso.
Come un affidabile portolano il volumetto di Paolo Ciampi ci guida lungo rotte dimenticate, risvegliando in noi il senso di un’esperienza colta nel suo divenire storico e poetico.
Come un affidabile portolano il volumetto di Paolo Ciampi ci guida lungo rotte dimenticate, risvegliando in noi il senso di un’esperienza colta nel suo divenire storico e poetico.
(Di
Claudia Ciardi)
Paolo Ciampi, Il sogno delle mappe. Piccole annotazioni sui viaggi di carta.
Ediciclo, 2018
Mappa mundi di Hereford - 1300 circa
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