Robert Capa and Gerda Taro
Fred Stein Archive/ Getty Images ©
Al Museo d’arte contemporanea di Lucca, nell’elegante sede di Palazzo Boccella, è possibile visitare fino al novembre prossimo una retrospettiva dedicata a Robert Capa. Il grande fotografo è presente con una novantina di scatti tra i più rappresentativi del suo impegno al fronte. Si cammina attraverso il Novecento. In un anno che vede prodursi una continua riflessione sulla guerra, nel corso delle commemorazioni del primo conflitto mondiale, ferita tragicamente riaperta proprio in queste settimane dall’offensiva nella striscia di Gaza, allestire una mostra sul lavoro di Capa assume un significato particolare. Il visitatore si trova al centro di una scena di assoluto impatto emotivo.
Il racconto di cinque guerre,
tante sono quelle verso cui Capa ha puntato il suo obiettivo, ci scorre davanti
agli occhi, scagliandoci nell’immediatezza dei fatti. La memoria storica
collide per un istante con un senso di umanità che la completa e al contempo la
trascende. Ci sfilano davanti pose e gesti di disperazione ma anche sprazzi di
pace, nei quali si intuisce l’aspra lotta dei protagonisti per strappare se
stessi alla catastrofe.
Capa è dunque un maestro del
fotogiornalismo di guerra, eppure la sua mano è capace di ritrarre
un’incredibile gamma di sfumature che va ben al di là dello spirito di cronaca.
Basti riflettere su un paio di aspetti. Esclude volontariamente dalla propria
narrazione i feriti gravi. La morte è documentata di rado, viene da dire che
entra nella sua macchina come una presenza improvvisa, frutto di un incontro
accidentale. Si pensi alla celeberrima immagine del miliziano spagnolo oppure
al mitragliere americano che gli cade a un paio di metri, colpito da un
cecchino a Lipsia. Potrebbe sembrare un paradosso per un fotografo impegnato a
percorrere zone di guerra, e invece l’interesse di Capa è quasi interamente
rivolto ai sopravvissuti, a coloro che pur annientati nelle cose più care vanno
avanti. E qui si può forse cogliere anche cosa animava l’uomo a rischiare
tanto, per riportare indietro frammenti di vita dalla devastazione; in lui non
andava mai smarrita l’idea che anche nell’atrocità era possibile riscattarsi,
recuperare un’umanità più consapevole, capace di ergersi su più solide
fondamenta.
Nato a Budapest nel 1913 da una
famiglia ebrea, a soli diciassette anni è già profugo politico per aver
protestato contro il regime nel suo paese. Nel 1931 si stabilisce perciò a
Berlino, dove inizia a studiare giornalismo presso la Hochschule für Politik.
Il suo talento viene raccolto dall’agenzia berlinese Dephot (abbreviazione di
Deutscher Photodienst) presso cui è impiegato come assistente alla camera
oscura. Gli ottimi risultati con cui si distingue nei lavori secondari, gli
procurano il conferimento del suo primo incarico importante nell’autunno del
’32, in occasione della conferenza annunciata da Lev Trockij allo Sport Palast
di Copenhagen. Si tratta di un evento di rilievo, perché il leader sovietico
costretto in esilio, non viaggiava né dunque interveniva in pubblico da più di
tre anni, a causa di difficoltà incontrate nel rilascio dei documenti. Capa
racconta che mentre tutti i colleghi, segnalati dalle pesanti attrezzature che
portavano con sé, erano costretti a restare fuori – Trockij infatti non voleva
essere fotografato – lui è riuscito a intrufolarsi con la sua Leica compatta,
mettendo a segno uno scoop che sarebbe stato anche il suo debutto. Le foto
escono infatti a tutta pagina su «Der Welt-Spiegel», supplemento settimanale del
«Berliner Tageblatt», con notevole risonanza.
Tuttavia il ’33, anno della presa
al potere da parte dei nazisti, inaugura un nuovo periodo difficile nella vita
del fotografo, costretto al suo secondo esilio, stavolta in Francia. Parigi lo
conquista subito, tanto che lo scrittore Christopher Isherwood, dopo una
conversazione su una nave diretta in Cina, dirà di lui che era più francese dei
francesi. Tuttavia l’esistenza nella metropoli è tutt’altro che facile. Capa fa
letteralmente la fame e stenta a vendere le sue fotografie. Può contare solo su
un po’ d’aiuto da parte dei rifugiati ungheresi e tedeschi a Montparnasse, e
sull’intraprendenza di una giovane ragazza tedesca, Gerda Taro, che gli rimedia
qualche ingaggio. Con Gerda c’è subito un affiatamento personale che va oltre
la collaborazione. Il loro rapporto sarà precocemente stroncato nel luglio ’37,
sul fronte spagnolo, dove la donna è colpita a morte. Robert non supererà mai
del tutto questa perdita, e lo stesso ritorno sul fronte spagnolo avviene tra non
poche incertezze solo nell’ottobre dell’anno successivo.
Di sicuro gli accadimenti
spagnoli, con quelli registrati in territorio cinese, che nella considerazione
di Capa assurgono a specchio orientale della resistenza del Fronte Popolare
contro l’avanzata del fascismo, sono due vertici di straordinaria intensità
documentaristica che la mostra lucchese ben rappresenta. Ma vi è pure
l’incredibile impresa con cui ha salvato i concitati momenti del D-Day. Neanche
a farlo apposta, colui al quale i reportages dalla Spagna erano valsi il titolo
di “maggior fotografo di guerra”, ha difficoltà a rimediare incarichi per
raggiungere gli scenari della seconda guerra mondiale. Questa situazione si
protrae fino al ’43 (con un’unica parentesi nella Londra del ’41), quando
finalmente è inviato in Nord Africa, quindi in Italia e in Normandia. Si tratta
di un itinerario che in parte ricalca quello seguito dallo scrittore John
Steinbeck, allora reporter di guerra per la stampa americana, insieme al quale
nel ’47 Capa intraprenderà un importante viaggio in Europa orientale,
esperienza riversata nella scrittura a quattro mani del Diario russo.
Le foto dello sbarco
costituiscono senza dubbio un altro momento apicale nella carriera di Capa. E
in effetti, di fronte a queste immagini lo spettatore è catapultato in prima
fila. Ci si sente vulnerabili e smarriti, almeno quanto deve essersi sentito il
fotografo mentre avanzava in quell’inferno di proiettili. Uscito dai mezzi
anfibi, facendosi scudo con una lamiera, Capa e la sua macchina sono un
tutt’uno con la fluttuante linea dei soldati. E, se non fosse stato per un
pasticcio combinato da uno sviluppatore, che mandò in malora quasi tutti i
negativi, avremmo potuto contare su un repertorio davvero incredibile.
Facce di profughi, uomini e donne
sorpresi in posizione fetale sulle macerie delle loro case, bambini
accovacciati sui propri bagagli, esseri in cerca di salvezza ritratti negli
istanti della fuga, volti incorniciati dalle reti di un campo di smistamento, contadine
attraversano i boschi di Cassino, somigliano a divinità primitive che hanno
perduto il loro tempio, combattenti arruolati nella resistenza abbracciano le
compagne e vanno al fronte, la folla di Parigi festeggia la liberazione ma i
cecchini sparano seminando il panico, le strade di Berlino sono come ripiegate
su se stesse, ognuno piange la sua disperazione, ognuno sembra sperare in
qualcosa, che tutto abbia fine, che tutto abbia inizio.
La poetica di Capa vi si aggira
come un dono.
Se si vuole capire qualcosa non
solo limitandoci ai fatti storici ma ancor più fissando lo sguardo sugli stati
d’animo che hanno scosso fin nelle sue viscere il secolo scorso, il contributo
di Robert Capa diviene una tappa obbligata.
(Di Claudia Ciardi)
Nicchia vuota - Via delle Conce, Lucca
(Testo e foto di Claudia Ciardi)
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Lucca - Center of Contemporary Art
Robert Capa - Il catalogo di Silvana editoriale
Sous la direction de: Andréa Holzherr / Magnum Photos - Format: 23 x 28
Pages: 144
Nombre d'illustrations: 100 in b/n
In questo blog:
Once there was a war - C'era una volta una guerra, John Steinbeck
«Un libro passato senza troppo clamore nelle librerie italiane su cui vale la pena riaccendere l’attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l’autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».
Wunden der Welt
«L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta».