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22 maggio 2017

Dal taccuino giapponese (III)


«Sulle montagne, là ci si sente liberi»

«In the mountains, there you feel free»

Thomas Stearns Eliot, La terra desolata [The Waste Land], v. 17




I monti da Ripafratta, in viaggio verso Lucca, 26 dicembre 2015


  
Campiglia Marittima, panorama dalla rocca, 16 ottobre 2016



Le Apuane da San Giuliano Terme, in viaggio verso Pistoia, 17 maggio 2017



Le Apuane dal Guadolongo, con la caratteristica cuspide del Pisanino, camminando sotto un cielo temporalesco, 20 maggio 2017



Le Alpi orientali, in viaggio verso Mantova, 20 maggio 2016


10 ottobre 2014

Piero Bigongiari – Cento anni di poesia


Il 2014 è l’anno delle grandi ricorrenze. Su tutte il centenario della prima guerra mondiale, di cui quotidianamente si commemorano episodi e protagonisti. Ma vi sono pure i cento anni della fondazione del Caffè San Marco a Trieste, i novant’anni della radio italiana, i venticinque della caduta del Muro di Berlino. La cabala è insolitamente affollata e a ben vedere s’incomoda per fatti non irrilevanti. Tra questi, non sorprenderà incrociare anche la nascita di un poeta, uno dei più grandi del Novecento, sebbene forse non altrettanto conosciuto rispetto a Montale, Ungaretti, Saba, Quasimodo, per citare quattro nomi cui si legano i nostri ricordi scolastici. Tuttavia, si sa, la fama è un capriccio umano e i percorsi che la rivelano sono il frutto di molte variabili. Piero Bigongiari, originario di Navacchio in provincia di Pisa, dove ha visto la luce il 15 ottobre 1914, è noto ai cultori della poesia e agli italianisti – sui secondi spero di aver detto il vero; un po’ meno purtroppo lo è al largo pubblico. Complice per nulla secondaria di questa lacuna, la difficoltà nel reperire i volumi dei suoi scritti: edizioni datate, ristampe inesistenti. Perdita non indolore, perché la lingua poetica di Bigongiari, levigata da straordinaria sensibilità musicale, è tra le più evocative che si siano prodotte nel panorama contemporaneo.
Traduttore dal francese e dal latino, saggista raffinato, profondo studioso di Leopardi, critico d’arte affascinato dal Seicento fiorentino, l’opera densa e non facile di questo poeta ci parla innanzitutto dell’eclettismo del suo ingegno, della versatilità con cui amava arare i campi delle discipline umanistiche. Il bisogno di inscatolare arte e saperi ha imposto alla creatività bigongiariana il frontespizio dell’ermetismo, che rischia però di tener fuori, allontanandole dalla comprensione del lettore, tante altre caratteristiche, magari non immediatamente tracciabili eppure presenti, fermamente attagliate all’impiallacciatura del suo verso. Io che mi sono avvicinata a Bigongiari, com’è mio uso, senza aver perlustrato prima certe tortuosità della critica, ne ho tratto la forza di una poesia pagana. Il sovrapporsi delle memorie crea una fuga di piani, l’evocazione innesca una fluidità temporale che esce da se stessa, annullandosi in una fissità di sapore arcaico, dove l’attimo diviene rivelazione del tutto. 
Fin dalle mie prime letture, che ho avuto la fortuna di coltivare grazie alla ‘scuola pistoiese’ – proprio a Pistoia, tra Via del Vento, la cupola della Madonna dell’Umiltà, viale Arcadia l'immaginario del poeta sviluppa alcune fra le sue più visionarie cadenze –  ne ho ricevuto una lezione di compiutezza assoluta sul modo di esercitare la sensibilità, accordandovi lo strumento della lingua. 
Vogliamo qui ricordarne il genio attraverso gli estratti di alcune lettere inviate all’amico pistoiese Mario Ciattini, figlio del tipografo Alighiero Ciattini che, prima di trasferirsi a Roma, operava in Via del Vento.

(Di Claudia Ciardi)


Giuseppe Ungaretti e Piero Bigongiari

«I monti stasera sono di cenere e, alle cime, rossi violacei. Ecco, si ghiacciano, si spengono, come un metallo stato al fuoco. Mario, qualcuno, il giorno, muore davvero.
È una cosa impressionante: fa molto freddo, come dopo una fine. Ti assicuro che così padrone di me, tremo. Il gelo è tutto fisico, addio».

Postilla alle sei di sera

«Mio caro Mario,
ecco che torno a scriverti. Fuori piove; sono tanti giorni che questa tristezza s’accumula. Finito il movimento che fa dimenticare, quando mi ritrovo a fare i conti con me solo, sento un po’ di sconforto amareggiare tutto il mio essere. Sono intermittenze del cuore, mali inevitabili dei vent’anni; c’è qualcosa di me che cammina, e qualcosa che resta indietro. Nascono i laghi di nero, le falle. L’uomo non è tutto padrone di sé. Ma chi sa quanto continuerei, che cosa mi verrebbe detto, è meglio scrivere meno – ispirati ».

Pistoia, 17 – 3 – ’34

«Caro Mario,
ti scrivo affogato in una pianura d’inerzia. In questi giorni è venuto il sole con le sue grandi fauci e comincia a divorarmi; in campagna con Cappellini pittore, ho bevuto molta luce, molti tramonti, molti strilli di bambini ammiranti in crocchio davanti ai pennelli di Alfiero, molta acqua scorrente dell’Ombrone, poi a casa mi aggiacco dove mi capita e lì mi prende la disperazione o la mediocrità: tristi cose davvero.
[…]
Io ora vorrei andare a trovare il freddo su su nell’Europa, andare a Berlino, in tutta la Germania, in Danimarca, sul mare Baltico, nella penisola svedese, etc. etc. (aggiungi tu). Vorrei una donna che mi si rivolgesse con la voce di Greta. L’ho vista ancora, in questi giorni, in Romanzo, bellissima. Mi dà una grande dolcezza, una grande forza. Se trovi una bella immagine di lei, mandamela».

Pistoia, 19 – 4 – ’34

«Caro Mario,
le tue lettere sono come gocce di una pioggia malinconica, autunnale. Bellissime, vanno in fondo al cuore, riempiendolo d’amarezza. Tu mi vuoi bene e questo mi consola e mi fa contento. Ma ora debbo fustigarti, non ti devi lasciare afferrare dal male del passato, non devi leggere le mie lettere passate, non devi pensare alle donne che più non è possibile vedere, non devi pensare che le nuvole sono le stesse, le automobili le stesse, i monti gli stessi, gli uomini gli stessi cattivi, crudeli, adorabili. Queste cose la faremo in vecchiaia quando gli occhi non vedranno più e le gambe non si muoveranno e quando il cuore dovrà essere tenuto in riposo per paura della paralisi. Ora no, assolutamente; questo si chiama il male del ricordo, un male paralizzante. Ci dobbiamo prefiggere della mete, allora la vita si riempie, riacquista sangue, colore. Sono contentissimo che tu studi. Bene. Non importa se i libri ti stancano e non li capisci. Sono fenomeni di crescita spirituale».

Pistoia, 23 – 10 – ’34

«Vecchia marmotta infarinata,
domando se questo è il modo di trattarmi. Ti s’è seccato il cuore o il calamaio? Siccome non credo al primo caso, sto per il secondo; ma allora scrivimi col lapis, col carbone, colla macchina da scrivere, con qualunque cosa. Io sono contento che tu sia diventato una persona seria, senza fisime, che tu ti sia accorto quant’è deleterio un vivere troppo emozionale e sensibile, che tu abbia sentito l’odore del vuoto e tu te ne sia ritratto e che ora tu annusi l’odore del pane invece, sono contento di tutto questo e d’altro ancora, che per es. tu legga i nostri classici (sta’ attento però che non solo nel ‘500 c’è gente grande e tutta nostra, gente stupendamente semplice), che tu non scriva (quasi) più, che tu sia più semplice; ma ciò non implica che tu faccia il morto.
Va bene: un po’ di colpa ce l’ho anch’io; ma qualche cartolina ogni tanto ti è venuta: mia, anche se c’era soltanto la firma.
Poi, ho avuto un mese d’esami, qualche linea di febbre, molta pigrizia nel prendere la penna; ma ho pensato a te, che forse stai creandoti una base più solida per quello che verrà, spesso. E tu, vecchio Mario, uomo rugoso e mercante? Avrai avuto e avrai delle distrazioni, o meglio delle occupazioni. Spero che tu non abbia perso quella baldanza del cuore che è giovinezza; fatti soci, imbroglia, fai cosa ti pare, ma soprattutto non perdere l’entusiasmo. Non quello “piro” [dialetto pistoiese per “sciocco”], ma quello più umile, interno. Io, oltre alle solite cose, sono stato a Venezia e Trieste; in questi giorni forse scapperò a Siena, visto che da Roma a Siena la strada è seminata d’ostacoli. Poi non so cosa farò, forse andrò sui monti, perché n’ho bisogno. […]».

Pistoia, 27 – 6 – ’35

Da:
Piero Bigongiari, Giovinezza a Pistoia, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Nuova Compagnia editrice (Comune di Pistoia), 1994

Si veda anche:
Pier Francesco Listri, Ancora fra noi. Piero Bigongiari poeta dell’ermetismo, sull'«Informatore», maggio 2014, p. 43


L'ermetismo al Caffè Giubbe Rosse di Firenze
Bibliografia:

Una città rocciosa e altri frammenti di un'autobiografia, a cura di Elena Dei, Via del Vento edizioni, 1994 (ristampa 1998)

Nel giardino di Armida e altre prose memoriali, un racconto e una poesia, a cura di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni, 1996 (fuori catalogo)

L'azzurro, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Via del Vento edizioni, 1991 (ristampa 1999)

Favola e altre poesie scelte, postfazione di Roberto Carifi, cenni biografici a cura di Martino Baldi, scelta della poesie e note alle stesse di Fabrizio Zollo, 2007

Visibile invisibile, Sansoni editore, 1985

Autoritratto poetico, Sansoni editore, 1985

Le mura di Pistoia, Mondadori, 1964

In questo blog:

Il cielo sopra Pistoia






Link correlati/ Related links:

Biografia sul sito di Paolo Fabrizio Iacuzzi

Piero Bigongiari nell'Enciclopedia Treccani

7 ottobre 1997 - La morte di Bigongiari su  
«Il Corriere della Sera»

Un ricordo del poeta su «Italies» - 9/ 2005

Il Comune di Lucca per Piero Bigongiari

Nel centenario della nascita - le iniziative alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia



Piero Bigongiari in Via del Vento  
Foto di Alessandro Andreini ©

6 agosto 2014

Robert Capa - Retrospective



Robert Capa and Gerda Taro
Fred Stein Archive/ Getty Images ©

Al Museo d’arte contemporanea di Lucca, nellelegante sede di Palazzo Boccella, è possibile visitare fino al novembre prossimo una retrospettiva dedicata a Robert Capa. Il grande fotografo è presente con una novantina di scatti tra i più rappresentativi del suo impegno al fronte. Si cammina attraverso il Novecento. In un anno che vede prodursi una continua riflessione sulla guerra, nel corso delle commemorazioni del primo conflitto mondiale, ferita tragicamente riaperta proprio in queste settimane dall’offensiva nella striscia di Gaza, allestire una mostra sul lavoro di Capa assume un significato particolare. Il visitatore si trova al centro di una scena di assoluto impatto emotivo.
 

Il racconto di cinque guerre, tante sono quelle verso cui Capa ha puntato il suo obiettivo, ci scorre davanti agli occhi, scagliandoci nell’immediatezza dei fatti. La memoria storica collide per un istante con un senso di umanità che la completa e al contempo la trascende. Ci sfilano davanti pose e gesti di disperazione ma anche sprazzi di pace, nei quali si intuisce l’aspra lotta dei protagonisti per strappare se stessi alla catastrofe.
Capa è dunque un maestro del fotogiornalismo di guerra, eppure la sua mano è capace di ritrarre un’incredibile gamma di sfumature che va ben al di là dello spirito di cronaca. Basti riflettere su un paio di aspetti. Esclude volontariamente dalla propria narrazione i feriti gravi. La morte è documentata di rado, viene da dire che entra nella sua macchina come una presenza improvvisa, frutto di un incontro accidentale. Si pensi alla celeberrima immagine del miliziano spagnolo oppure al mitragliere americano che gli cade a un paio di metri, colpito da un cecchino a Lipsia. Potrebbe sembrare un paradosso per un fotografo impegnato a percorrere zone di guerra, e invece l’interesse di Capa è quasi interamente rivolto ai sopravvissuti, a coloro che pur annientati nelle cose più care vanno avanti. E qui si può forse cogliere anche cosa animava l’uomo a rischiare tanto, per riportare indietro frammenti di vita dalla devastazione; in lui non andava mai smarrita l’idea che anche nell’atrocità era possibile riscattarsi, recuperare un’umanità più consapevole, capace di ergersi su più solide fondamenta.
Nato a Budapest nel 1913 da una famiglia ebrea, a soli diciassette anni è già profugo politico per aver protestato contro il regime nel suo paese. Nel 1931 si stabilisce perciò a Berlino, dove inizia a studiare giornalismo presso la Hochschule für Politik. Il suo talento viene raccolto dall’agenzia berlinese Dephot (abbreviazione di Deutscher Photodienst) presso cui è impiegato come assistente alla camera oscura. Gli ottimi risultati con cui si distingue nei lavori secondari, gli procurano il conferimento del suo primo incarico importante nell’autunno del ’32, in occasione della conferenza annunciata da Lev Trockij allo Sport Palast di Copenhagen. Si tratta di un evento di rilievo, perché il leader sovietico costretto in esilio, non viaggiava né dunque interveniva in pubblico da più di tre anni, a causa di difficoltà incontrate nel rilascio dei documenti. Capa racconta che mentre tutti i colleghi, segnalati dalle pesanti attrezzature che portavano con sé, erano costretti a restare fuori – Trockij infatti non voleva essere fotografato – lui è riuscito a intrufolarsi con la sua Leica compatta, mettendo a segno uno scoop che sarebbe stato anche il suo debutto. Le foto escono infatti a tutta pagina su «Der Welt-Spiegel», supplemento settimanale del «Berliner Tageblatt», con notevole risonanza.
Tuttavia il ’33, anno della presa al potere da parte dei nazisti, inaugura un nuovo periodo difficile nella vita del fotografo, costretto al suo secondo esilio, stavolta in Francia. Parigi lo conquista subito, tanto che lo scrittore Christopher Isherwood, dopo una conversazione su una nave diretta in Cina, dirà di lui che era più francese dei francesi. Tuttavia l’esistenza nella metropoli è tutt’altro che facile. Capa fa letteralmente la fame e stenta a vendere le sue fotografie. Può contare solo su un po’ d’aiuto da parte dei rifugiati ungheresi e tedeschi a Montparnasse, e sull’intraprendenza di una giovane ragazza tedesca, Gerda Taro, che gli rimedia qualche ingaggio. Con Gerda c’è subito un affiatamento personale che va oltre la collaborazione. Il loro rapporto sarà precocemente stroncato nel luglio ’37, sul fronte spagnolo, dove la donna è colpita a morte. Robert non supererà mai del tutto questa perdita, e lo stesso ritorno sul fronte spagnolo avviene tra non poche incertezze solo nell’ottobre dell’anno successivo.
Di sicuro gli accadimenti spagnoli, con quelli registrati in territorio cinese, che nella considerazione di Capa assurgono a specchio orientale della resistenza del Fronte Popolare contro l’avanzata del fascismo, sono due vertici di straordinaria intensità documentaristica che la mostra lucchese ben rappresenta. Ma vi è pure l’incredibile impresa con cui ha salvato i concitati momenti del D-Day. Neanche a farlo apposta, colui al quale i reportages dalla Spagna erano valsi il titolo di “maggior fotografo di guerra”, ha difficoltà a rimediare incarichi per raggiungere gli scenari della seconda guerra mondiale. Questa situazione si protrae fino al ’43 (con un’unica parentesi nella Londra del ’41), quando finalmente è inviato in Nord Africa, quindi in Italia e in Normandia. Si tratta di un itinerario che in parte ricalca quello seguito dallo scrittore John Steinbeck, allora reporter di guerra per la stampa americana, insieme al quale nel ’47 Capa intraprenderà un importante viaggio in Europa orientale, esperienza riversata nella scrittura a quattro mani del Diario russo.
Le foto dello sbarco costituiscono senza dubbio un altro momento apicale nella carriera di Capa. E in effetti, di fronte a queste immagini lo spettatore è catapultato in prima fila. Ci si sente vulnerabili e smarriti, almeno quanto deve essersi sentito il fotografo mentre avanzava in quell’inferno di proiettili. Uscito dai mezzi anfibi, facendosi scudo con una lamiera, Capa e la sua macchina sono un tutt’uno con la fluttuante linea dei soldati. E, se non fosse stato per un pasticcio combinato da uno sviluppatore, che mandò in malora quasi tutti i negativi, avremmo potuto contare su un repertorio davvero incredibile.
Facce di profughi, uomini e donne sorpresi in posizione fetale sulle macerie delle loro case, bambini accovacciati sui propri bagagli, esseri in cerca di salvezza ritratti negli istanti della fuga, volti incorniciati dalle reti di un campo di smistamento, contadine attraversano i boschi di Cassino, somigliano a divinità primitive che hanno perduto il loro tempio, combattenti arruolati nella resistenza abbracciano le compagne e vanno al fronte, la folla di Parigi festeggia la liberazione ma i cecchini sparano seminando il panico, le strade di Berlino sono come ripiegate su se stesse, ognuno piange la sua disperazione, ognuno sembra sperare in qualcosa, che tutto abbia fine, che tutto abbia inizio.
La poetica di Capa vi si aggira come un dono.
Se si vuole capire qualcosa non solo limitandoci ai fatti storici ma ancor più fissando lo sguardo sugli stati d’animo che hanno scosso fin nelle sue viscere il secolo scorso, il contributo di Robert Capa diviene una tappa obbligata.

(Di Claudia Ciardi) 



Nicchia vuota - Via delle Conce, Lucca
(Testo e foto di Claudia Ciardi)



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Lucca - Center of Contemporary Art

Robert Capa - Il catalogo di Silvana editoriale
Sous la direction de: Andréa Holzherr / Magnum Photos - Format: 23 x 28
Pages: 144
Nombre d'illustrations: 100 in b/n

In questo blog:
  Once there was a war - C'era una volta una guerra, John Steinbeck

«Un libro passato senza troppo clamore nelle librerie italiane su cui vale la pena riaccendere l’attenzione dei lettori. Una cronaca in presa diretta della seconda guerra mondiale che costituisce una testimonianza unica per la ricchezza di fatti e ritratti raccolti al fronte e per l’efficace semplicità con cui l’autore ce li presenta.
La grande metafora dello spazio-tempo fiabesco evocata da Steinbeck potrebbe risultare in un primo momento stridente, dato che siamo in presenza di un dramma collettivo in cui hanno agito figure concrete, fatalmente racchiuse in una precisa porzione di storia».

Wunden der Welt

«L’allestimento documenta le atrocità che si sono consumate in ogni angolo del pianeta, da “Il miliziano colpito a morte” di Robert Capa, indimenticabile narratore della Spagna dilaniata dalla guerra civile, alle primavere arabe. Dagli sguardi annientati dei passanti che scrutano il cielo durante gli allarmi aerei in una Bilbao sfinita dall’assedio (maggio del ’37) a quelli altrettanto persi dei soldati tedeschi che, anni dopo, si troveranno prigionieri in Normandia, sopravvissuti sì ma costretti a fare i conti con la propria sconfitta».


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